Appena letti

Chiara Carminati, NELLA TUA PELLE, Bompiani, 2024
Nei romanzi di Chiara Carminati ci sono spesso, come qui, gli eventi storici e il racconto, la quotidianità e la storia mondiale, filtrati dagli occhi delle bambine e dei bambini. Senza nessuna enfasi ma con una restituzione letteraria accurata e intensa che rispetta le ragioni e la responsabilità del racconto storico e insieme non mortifica ma anzi esalta le potenzialità e il valore della letteratura. Così in questa storia che vola come i personaggi della bellissima copertina di Manuele Fior veniamo a conoscenza, o perlomeno io, che non ne sapevo niente, dell’Istituto San Filippo Neri di Portogruaro, un luogo unico in Europa, in cui venivano accolti i cosiddetti figli della guerra. Bambine e bambini indesiderati perché illegittimi, nati da violenze o da relazioni più o meno imposte negli anni del primo conflitto mondiale: “sono orfani dei vivi perché hanno una madre, che è stata costretta prima a farli e poi a disfarsi di loro, e hanno persino due padri. Uno è il soldato che ha preso la loro madre con la forza e l’ha messa incinta: austriaco, ungherese, italiano, bosniaco, poco importa. L’altro è il legittimo marito, il capofamiglia, che in quel momento si trovava sotto le armi. Quando è tornato a casa, alla fine della guerra, ci ha trovato un bambino in più”. Nell’istituto religioso venivano allevati e sostenuti, magari poi rientravano anche in famiglia o venivano adottati. Chiara Carminati sceglie di raccontarci tre di loro, legati da una affettuosa amicizia: la giudiziosa Giovanna, in seguito adottata da una ricca famiglia di Padova, il tenero e sfuggente Vittorio e la solida Caterina, che non smette di sperare di ritrovare la madre. Sono storie di sopravvivenza e speranza, di drammi e piccole e grandi felicità, di legami imperscrutabili e sorprendenti, di ragazze e ragazzi proiettati verso il futuro e di adulti che sanno affiancarli e sostenerli. Una lettura lieve e profonda insieme che si imprime anche sulla pelle.

Azaaren Van Der Vliet Oloomi, CHIAMATEMI ZEBRA, Keller, 2023 (traduzione di Gabriella Tonoli)
“... terrorista letteraria in addestramento, non leggo con gli occhi ma con la coscienza, setacciando i livelli stratificati presenti in ciascun testo come un archeologo in un sito di scavi”: la protagonista di CHIAMATEMI ZEBRA ci guida in un viaggio insieme fisico sulla via dell’esilio suo e della sua famiglia e insieme virtuale all’interno della letteratura mondiale. Bibi Abbas Abbas Hosseini, che poi si autobattezzerà Zebra, è infatti l’ultima erede di una stirpe di anarchici, atei e autodidatti iraniani che ha tramandato di generazione in generazione filosofia, lingue e letteratura. Zebra ha imparato sin da piccolissima le lingue degli oppressi come quelle degli oppressori e così parla lo spagnolo, l’italiano, il catalano, l’ebraico, il turco, l’arabo, l’inglese, il farsi, il francese e il tedesco. Oltre ad aver memorizzato tantissimi testi letterari, da Cervantes a Dante, da Benjamin a Rodoreda a Borges, perché “La letteratura, con la sua natura astuta e falsa, autoconsapevole, dotata di una sovracoscienza, è la sola cosa vera al mondo”. Dagli Stati Uniti dove si è rifugiata con il padre dopo aver lasciato l’Iran e vissuto in Spagna, Zebra, rimasta orfana, decide di intraprendere un “Gran tour dell’esilio”, e di ripercorrere a ritroso le tappe della drammatica fuga della sua famiglia negli anni Novanta, guidata dalla “Matrice della Letteratura” che “è uno sciame senza centro di libri interconnessi, che instancabili riflettono su di noi l’ammasso di rovine dell’umanità”. Armata di letteratura, Zebra, rielabora il lutto per la morte del padre e per il destino di esuli della sua famiglia e insieme vive l’amore con Ludovico Bembo, italiano, erede del grande poeta, che vive anche lui da straniero a Barcellona. Un romanzo spiazzante e ipnotico che è insieme un inno alla letteratura e il grido di dolore di chi è costretto ad emigrare: “Nella fabbrica della guerra si producono di continuo futuri esiliati”.

Mohamed Maalel, BABA, Accento, 2023
BABA, il romanzo d’esordio di Mohamed Maalel, pubblicato dalla nuova casa editrice Accento, convince per la scrittura sicura e avvolgente, precisa e raffinata, apparentemente discorsiva ma in realtà misurata e chirurgica. Seguiamo la voce e la vita di Ahmed, la cui identità è “un gioco d’azzardo” tra la Tunisia del padre e la Puglia della madre, tra due culture e visioni del mondo. Cresciuto a riso patate e cozze e taralli e couscous e baklawa, deve sin da bambino fare i conti con gli scatti d’ira e i gesti violenti del padre, alternati a grandi e stabilizzanti manifestazioni di affetto e districarsi tra i pregiudizi che accompagnano la sua adolescenza e la scoperta della sua omosessualità. La voce narrante si rivolge al padre, ricoverato in ospedale e ne ripercorre la vita di uomo e genitore, di un’esistenza divisa tra la patria d’origine e i relativi ritorni ogni anno in Tunisia e la quotidianità e il lavoro in Italia, dove però perde il suo nome e non solo. Tra le famiglie dei genitori di Ahmed c’è anche una non troppo tacita guerra tra i sessi: da una parte il tenace gineceo intorno a Paola, composto dalla madre e dalle sorelle e il mondo di uomini che circonda il padre, legato a una visione sottomessa dell’universo femminile. È una storia di contrasti anche dolorosi, violenze e riconciliazioni, affetti e incomprensioni dove in mezzo ci sono spesso i bambini. Mohamed Maalel sa ricostruire quello sguardo infantile di totale fiducioso abbandono verso il padre e la conseguente pesante disillusione, il percorso di vita che porta a riguardare alla propria infanzia ma anche a considerare quella vissuta dai propri genitori. Scoprendo che magari il padre aveva già intuito il talento narrativo del figlio, senza avere il coraggio di dirglielo direttamente. Un libro pieno di cibi e colori, pianti e risate, tenerezza e rabbia, che riesce davvero a restituire il complesso e articolato rapporto tra genitori e figli: “in realtà, quando ci pensavo, mia madre era la casa a cui tornare, mio padre il giardino dove volevo correre e giocare”.

Adan Gidwitz, LA LEGGENDA DEI TRE BAMBINI MAGICI E DEL LORO CANE SANTO, Giuntina, 2023 (traduzione di Marina Morpurgo)
LA LEGGENDA DEI TRE BAMBINI MAGICI E DEL LORO CANE SANTO dello scrittore americano Adam Gidwitz, con le miniature di Hatem Aly, che riproducono quelle di un testo medioevale, è insieme un moderno Decamerone, un romanzo di avventura, una riflessione teologica, un racconto senza pregiudizi sul medioevo, uno sguardo mai banale sull’umanità, o anche semplicemente una bella lettura in cui abitare. Per sederci anche noi alla Locanda del Sacro Crocevia “ai primi di marzo dell’anno del Signore 1242. Fuori il cielo è scuro e si sta facendo vieppiù scuro. Il vento manda a sbattere i rami di una quercia contro i muri della locanda. Le imposte sono serrate per tenere fuori il buio. È la notte perfetta per una storia”. Qui il nostro misterioso narratore dà via via la parola a una barista, a una monaca, a un bibliotecario e ai vari personaggi che hanno incontrato o possono riferire la storia di tre bambini a cui il re Luigi IX ha dichiarato guerra per i loro poteri: Jeanne, una contadina che sa prevedere il futuro; William, un giovane monaco figlio di un nobile e di una saracena che ha una forza soprannaturale e Jacob, un ragazzo ebreo rimasto orfano che sa guarire con le erbe ogni ferita. Con loro c’è Gwenforte, una levriera miracolosamente risorta. Le voci si alternano per raccontarci le storie dei protagonisti e la missione di salvataggio dal rogo dei libri di cui si sono fatti carico insieme a padre Michelangelo da Bologna. Il romanzo ci porta dalle campagne sino a Notre Dame a Parigi, dalla cittadina di Saint-Denis a Mont Saint-Michel. Sempre grande ritmo e colpi di scena, ma anche riflessioni profonde sulla convivenza umana, sulla religione, sulla violenza e anche sul valore dei libri e delle storie: “La mente è come una strada fangosa. Due solchi corrono al centro, scavati da tutti i carri passati di lì. Non importa quanti carri cerchino di procedere a lato, di restare fuori dal fango, prima o poi una curva qui e un sobbalzo là li faranno cadere definitivamente nei solchi. E la mente è uguale. Per quanto ci sforziamo di tenere lontani i nostri pensieri dai vecchi modi, dai vecchi schemi, dai vecchi solchi, qualunque piccolo urto o strattone è sufficiente a rispedirli nel fango”.

Robbie Arnott, NED E LA BALENA, NNE, 2023 (traduzione di Guido Calza)
“... aveva levato i suoi tre metri e mezzo di pinna sopra la nostra barca presa a nolo, oscurando il chiaro di luna, pronta a ridurci a un ammasso di detriti rossi. Anche se poi non lo aveva fatto... Con colossale delicatezza aveva posato la coda nell’acqua accanto a noi. Aveva emesso uno spruzzo di vapore dallo sfiatatoio. Si era girata sulla schiena e ci aveva mostrato le morbide striature del suo ventre. Si era contorta nell’acqua così da venirci vicino con il suo occhio immenso, a un paio di metri dalla barca...”: NED E LA BALENA è un bellissimo romanzo di crescita, una scoperta di NNE che pubblicherà anche gli altri romanzi dello scrittore australiano. Ned, terzo di tre figli, è rimasto a casa con il padre e la sorella mentre i fratelli maggiori sono stati arruolati in guerra. Si occupa del frutteto di famiglia e cerca di realizzare il suo sogno: comprare una piccola barca per tornare alla foce del fiume e cercare la balena che ha visto da bambino. Robbie Arnott ci racconta con grande poesia l’intera esistenza di Ned dai sogni giovanili alla vita adulta.

Grigor Banushi, SINFONIA INCOMPIUTA, besa muci, 2023 (traduzione di Giovanna Nanci)
“Francois Buge, investigatore di polizia del commissariato di Saint-Denis, la città francese situata nel dipartimento della Senna-Saint-Denis, ebbe fin dall’inizio il sentore che la questione, toccatagli in quel fosco giorno di settembre, avrebbe potuto essere non solo complessa e intricata, ma forse anche irrisolvibile”: il commissario francese, prossimo alla pensione, si trova ad indagare sulla misteriosa aggressione contro Adrian Mara, affermato compositore e direttore di orchestra di origine albanese. Che purtroppo a causa del pestaggio ha perso la memoria a breve termine. Le indagini si intersecano con la vita di Adrian, a partire dai genitori, il padre morto tragicamente in mare durante la seconda guerra mondiale e la madre italiana di origine ebraica che lo alleva da sola sino agli studi al conservatorio di Tirana e alla fuga in Francia. La musica non è solo la colonna sonora della storia o un mero pretesto narrativo ma una vera protagonista del romanzo, accompagna l’intera lettura e scandisce le esistenze dei personaggi nel bene e nel male. Da una parte infatti Adrian riesce grazie al suo talento, coltivato dalla madre, a sopravvivere alla persecuzione del regime e a un grave lutto e a trovare la sua realizzazione in Francia, dall’altra il suo orecchio capace di identificare gli esecutori della musica lo mette di nuovo in pericolo. Il romanzo di Grigor Banushi riflette sull’ineluttabile ritorno dei fantasmi del passato, sulla difficoltà di sfuggire alle proprie origini ma anche ai propri convincimenti e sulle generazioni segnate dai regimi dittatoriali come quello di Enver Hoxha in Albania. La fuga è così una categoria dell’esistenza e l’unica soluzione di fronte all’assurdità del controllo attuata da chi vuole avere un potere assoluto. Anche delle espressioni artistiche e dei talenti, non solo musicali. In una trama articolata e incalzante lo scrittore albanese riesce a inserire una efficace analisi politica, una critica profonda dell’uomo solo al comando, della repressione violenta di ogni minima e spesso inesistente minaccia al potere costituito. E insieme scrive un intenso romanzo d’amore e un racconto mai banale sui connubi insieme artistici e sentimentali, grazie anche alle figure femminili convincenti e articolate, che sempre provano a sfidare il destino.

Greta Olivo, SPILLI, Einaudi, 2023
Livia è un’adolescente come tante: una bella famiglia, la passione e il talento per la lettura e per la corsa e un liceo da iniziare in un quartiere lontano dal suo, dove può ricominciare da capo, senza l’incubo degli spessi occhiali che deve portare a causa di una forte miopia precoce. Finalmente i genitori infatti si sono convinti a comprarle le lenti a contatto anche se l’accordo è di usarle solo poche ore al giorno. Per Livia è però difficile limitarsi, è difficile non uscire la sera e tenere sempre idratati gli occhi, è difficile soprattutto pensare che andrà sempre peggio. In SPILLI, il suo romanzo d’esordio, Greta Olivo racconta un realistico spaccato di adolescenza: le amicizie dell’infanzia che sembrano perdute, un compagno di banco che non vuole essere solo un amico, un ragazzo più grande che è già un leader e fa scoprire nuove sensazioni, gli insegnanti, lo sport forse da riprendere, le prime feste, le preoccupazioni dei genitori che però concedono con fiducia nuove libertà, la prima gita scolastica con le notti fuori casa e quello specchio visivo che si restringe pian pian, quasi a tentare di imprigionare e frenare la vita di Livia. Da una parte incombe quella diagnosi infausta di retinite pigmentosa, dall’altra Livia vive il presente della sua adolescenza e cerca di sfruttarne tutte le potenzialità. Così quando incontra Emilio, che è cieco ma si muove come se non lo fosse e vuole darle gli strumenti per affrontare la perdita quasi totale della vista, lo rifiuta e pensa di non averne bisogno. Il romanzo, con una scrittura discorsiva e pulita che restituisce la complessità dei sentimenti, ci mette di fronte a una pluralità di sguardi, ci porta a riflettere su quello che vediamo o crediamo di vedere e su come guardiamo gli altri per catalogarli e adattarli al nostro sentire. Così la storia passa dallo sguardo di Livia che si restringe sempre più allo sguardo degli altri che può essere paradossalmente più miope, perché spesso guardiamo senza vedere realmente. Un bel libro che apre gli occhi sull’adolescenza e sulla capacità di vedere al e oltre il buio.

Fabienne Agliardi, APPETRICCHIO, Fazi, 2023
“Nessuno sapeva che Petricchio esisteva. E in fondo era meglio accusì. Un posto per cuori d’altri tempi, con il pisciaturo sotto il letto e il mattone nel panno. Da raggiungere in fretta e con i palpiti, per riprendersi le certezze lasciate l’anno prima. Fino a percepirlo distante, immutato e immutabile, come un fastidioso e anziano parente da andare a trovare per dovere. Uno di quelli che a un certo punto disconosci – finanche con un retrogusto di imbarazzo. E allora quello ti lascia andare, imperturbabile e indulgente. Sa che quel cuore antico prima o poi tornerà, nonostante autostrade di tempo e di spazio”: un paese lucano appoggiato a una montagna, con vista sul mare dalla fontana al centro della piazza, venticinque abitanti e il ritorno ogni estate di chi vive “laffora”, quattro bresciani di origine e cognome che caricata l’auto si dirigono verso sud. Attraverso i loro occhi e in particolare quelli dei gemelli Mapi e Lupo conosciamo i personaggi del paese, le loro storie vere o immaginate (“ci inventavamo la vita”) e quel “contenitore di stramberie” che è Petricchio, rimasto praticamente irraggiungibile per la mancanza di segnaletica e un ponte traballante. Per raccontare un luogo così straordinario nella sua umanità e perché, come dice lei stessa il parlante, in questo caso il narratore, si adatta al luogo e agli interlocutori, Fabienne Agliardi sfodera una lingua unica, frutto di tante lingue diverse, ritmata e poetica, sempre efficace che sa declinare in tutti i toni, dall’umoristico, predominante, al drammatico. Così anche noi viaggiamo da nord a sud e viceversa, nel tempo, dall’infanzia alla nostra quasi maturità, nella storia italiana ma non solo, al fianco di personaggi che non hanno niente di caricaturale ma che hanno il potere di rimandare ai luoghi e agli incontri della nostra di infanzia: “Da qualche parte c’è una Petricchio per tutti. Petricchio è mare, montagna, lago, campagna. È Narnia, Rokovoko, Hogwarts. È il quartiere e il cortile in cui abbiamo disegnato i nostri momenti felici. Non importa dov’è. Importa che esista”.

Miguel Bonnefoy, Anna Voltaggio, LA NOSTALGIA CHE AVREMO DI NOI, Neri Pozza, 2023
“L’arsenicum album e le radici sono ottime per sedare le paure, se solo non credessi che la vita ha un tempo esatto, che siamo nati terrorizzati come quando moriremo, che siamo un cerchio già chiuso”: i personaggi dei racconti di Anna Voltaggio, al suo esordio nella narrativa con LA NOSTALGIA CHE AVREMO DI NOI, sembrano vivere in un cerchio circoscritto e invalicabile di insoddisfazione, inconcludenza e rassegnata malinconia. I luoghi e gli oggetti accompagnano esistenze minime e insieme uniche, rapporti spesso non definiti e labili confini tra amore e amicizia, tra una vita ordinaria e forse desiderabile e un desiderio di libertà e autenticità che non trova quasi mai una realizzazione concreta. Sono personaggi, ritratti per lo più nel mezzo della loro vita, che si lasciano vivere senza neppure incolpare la famiglia o la società e neppure se stessi. È un romanzo teatrale che mette in scena uno spaccato spietato della vita e delle aspirazioni piccolo borghesi dei protagonisti che però non si sentono mai veri attori della loro esistenza: “Nella classe di cucina Iole si era sentita come il personaggio minore di un romanzo e aveva avuto la chiara sensazione che non fosse il suo posto e che, se si trovava lì, era per riempire la scena della vita di qualcun altro”. E paradossalmente quelli che si mostrano più alternativi e volitivi, sono quelli meno risolti. Sono racconti legati tra loro da alcuni personaggi come un unico grande ritratto di un gruppo di amici e conoscenti che condividono più o meno casualmente il palcoscenico della vita. Ci sono sorelle e fratelli, amanti e vicini di casa, colleghe di lavoro, bambini che fanno da cornice alle vicende degli adulti. Con una scrittura lucida e raffinata, accogliente e incalzante, Anna Voltaggio ci guida in storie minime che spesso raccontano di perdite, di viaggi nel passato e verso le proprie origini che nulla illuminano del presente, di donne e uomini sempre distanti da se stessi e dagli altri.

Sualzo, DOVE C’È PIÙ LUCE, Tunué, 2023
Il romanzo per immagini di Sualzo, pubblicato con la consueta cura da Tunué, è una riflessione intensa e mai banale sulla memoria e sulla vita: “Esiste una guerra più disperata di questa? Combattere per ritrovare cose che la memoria ha già disperso. Lottare per fingere a se stessi che il tempo su di noi non abbia potere. Raccogliere frammenti di altre vite per sperare che qualcuno un giorno cerchi i nostri”. Così anche leggere e scrivere diventano modi per evitare l’oblio, per ricordare ed essere ricordati. Il protagonista infatti è un rinomato libraio antiquario che si ripara dietro alla sua collezione di libri per evitare l’ipocrisia della socialità e non mostrare il suo dolore e la sua fragilità da quando la moglie l’ha lasciato, perché ha perso la memoria di lui e del loro matrimonio. Così il suo mondo di relazione si è ristretto alla sorella e soprattutto al piccolo Carlo e alla sua fedele assistente Anna. Attraverso la quotidianità del signor Voynich, entriamo in un concentrato di pensieri, domande, sentimenti, incontri con al centro i libri che diventano il viatico per raccontare la realtà con una visione profonda e mai banale sul nostro essere umani. Così si intersecano analogie e contrasti: c’è un libraio antiquario che quindi salva dall’oblio e conserva e un marito che nulla ha potuto contro la perdita di memoria della moglie. Segni tangibili del passato e un bambino curioso, una fedele collaboratrice e un catalogo che contiene un tranello perché non esiste niente di perfetto, la vita della carta e quella delle piante. Le immagini dei libri e dei mattoni delle case ci accompagnano in una storia dove si contrappongono collezionare e perdere, toccare il fondo e risalire, le parole e il silenzio, il cinismo e la poesia. Poi però forse basta cambiare prospettiva, soffiare in un dente di leone, dare nomi diversi alle cose, cadere in un inganno sentimentale, adottare un cane, aiutare chi sa troppo ricordare per perdere il controllo e scoprire che forse ne vale la pena più che cercare di fermare lo scorrere inesorabile del tempo. Perché alla fine la memoria non è conservata negli oggetti ben catalogati ma nelle persone che, volenti o nolenti, incontriamo. La scelta del bianco e nero e dell’azzurro, riservando i colori ai personaggi in copertina mette ancora più in evidenza i chiaroscuri della vita e crea nel lettore un’immersione totale nella storia, dove parole e immagini sono lievi e necessarie insieme.

Conceição Evaristo, VICOLI DELLA MEMORIA, Tamu, 2023 (traduzione di Dea Merlini)
VICOLI DELLA MEMORIA di Conceição Evaristo, tradotto dal portoghese brasiliano da Dea Merlini per edizioni Tamu con la prefazione di Igiaba Scego, è già considerato un classico della letteratura brasiliana ed è davvero un piccolo gioiello narrativo, che riesce anche a raccontare un paese complesso e la sua storia, mettendo al centro del racconto chi si ritrova ai margini e con un destino che sembra già segnato. La protagonista è Maria-Giovane, un personaggio unico, un’incantata e incantevole ascoltatrice e collezionista di storie (“Maria Vecchia e zio Totò si raccontavano spesso storie, scambiandosi l’un l’altra le pietre della loro collezione. Maria-Giovane, zitta zitta, seduta su una cassetta, cresceva e ascoltava tutto. Le pietre appuntite che quei due collezionavano erano esposte di fronte alla ragazzina, che sceglieva le più laceranti e le conservava sul fondo del cuore”) che tiene traccia delle tante persone di una comunità che viene smantellata (“uomini, donne, bambini che si sono ammonticchiati dentro di me, come si ammonticchiavano le baracche della mia favela). Gli abitanti di una favela che sorge attaccata a un quartiere ricco dove molti di loro lavorano, vengono infatti cacciati per raderla al suolo. Certo la favela è più vicina all’inferno che al paradiso ma per tanti è stata l’unico luogo che hanno chiamato “casa”, e dove si sono costruiti una famiglia: “tutti sapevano che la favela non era il paradiso ma nessuno voleva andarsene. Lì vicino c’erano i luoghi di lavoro, i mezzi di sussistenza per tutti. Cosa avremmo fatto in quei posti così distanti in cui ci stavano obbligando ad andare?”. Maria-Giovane raccoglie le loro storie di povertà ma anche di sogni, amori, legami che nascono e diventano più forti di quelli di sangue. Con una scrittura luminosa e poetica la scrittrice brasiliana descrive un microcosmo dove si declinano le tante anime del Brasile, dalla musica al cibo, dalle differenze sociali alla letteratura, mostrando le diverse vie che possono prendere le esistenze, anche quelle che sembrano già segnate.

Marilena Umuhoza Delli, LETTERA DI UNA MADRE AFRODISCENDENTE ALLA SCUOLA ITALIANA, People, 2023
“Valorizzare la pluralità a scuola è di straordinaria importanza per abbattere stereotipi, per fornire una rappresentazione più ampia, per arrestare le politiche della vergogna e formare studenti consapevoli e rispettosi dell’altro”: un libro necessario per le innumerevoli riflessioni che offre e insieme l’opera di un’autrice che sa raccontare e argomentare, partendo dalla sua esperienza di vita (prima di bambina cresciuta tra i banchi di scuola italiani, unica studentessa afrodiscendente della classe, poi quella di madre che ritorna tra i banchi attraverso lo sguardo della sua bambina) per ampliare lo sguardo ad ampio raggio, dalla politica mondiale alla necessità di una contro narrazione e di un’ottica intersezionale, dall’importanza di calibrare le parole nella nostra quotidianità come nei canali dei social e dei mass media sino alle conseguenze del razzismo e dei pregiudizi a scuola sulle persone considerate appartenenti a una minoranza. Passando da come riconoscere il privilegio all’analisi di parole ed espressioni che usiamo normalmente senza conoscerne il vero significato ma soprattutto il potere che hanno di creare e consolidare stereotipi. Così “Ogni insegnante” - ma in realtà ognuno di noi, aggiungo io – “deve fare un’autoriflessione e ragionare sul proprio grado di conoscenza riguardo al tema della razza, del colonialismo, degli stereotipi, del privilegio, del linguaggio inclusivo, delle migrazioni, delle politiche della vergogna e della molteplicità di voci presenti nella nostra società e invisibilizzate dai libri di testo”. Questo libro è un ottimo inizio perché, con un’analisi chiara, articolata e precisa, pone questioni basilari che non riguardano solo il razzismo e l’umiliante sentirsi stranieri nel proprio paese ma anche altre forme di emarginazione e offre agli insegnanti ma anche a chi è a contatto con ragazze e ragazzi strumenti, esercizi, suggerimenti bibliografici per “considerare e valorizzare le voci identitarie di cui ciascuno è portatore e portatrice”. Partendo dall’ascolto e dal dialogo. Offrendo nello stesso tempo un riconoscimento e un immaginario più vasto e giusto a chi è vittima di discriminazione. Da leggere e pensare.

Vaddey Ratner, MUSICA DEI FANTASMI, O barra O, 2023 (traduzione di Giulia Masperi)
“Se il mio primo romanzo, ALL'OMBRA DEL BANIANO, è una storia di sopravvivenza, MUSICA DEI FANTASMI è una storia di sopravvissuti. Il romanzo si apre nel periodo che precede la convocazione del tribunale dei Khmer rossi, un'iniziativa attesa da tempo, ma molto limitata, concentrata solo su una manciata di ex leader sopravvissuti. La motivazione che mi ha spinto a scrivere è quella di esplorare le questioni della responsabilità, dell'espiazione, del perdono e della giustizia negli ambienti più quotidiani in cui i sopravvissuti si trovano: nelle stanze del cuore e negli incontri intimi in cui persecutore e vittima si trovano faccia a faccia”: così Vaddey Ratner racconta il suo nuovo romanzo MUSICA DEI FANTASMI, pubblicato come il precedente da O barra O nella traduzione di Giulia Masperi. È la storia di un ritorno, quello di Teera che ripercorre al contrario la sua storia di emigrazione per portare in Cambogia le ceneri della zia morta prematuramente, ultima parente che le era rimasta: “Teera... sa di non aver mai smesso di amare questo luogo. La sua gente, il suo paesaggio. Non l’ha mai lasciato andare. Ha imparato ad abbracciare un’altra casa solo perché un tempo sapeva come ci si sentiva ad essere abbracciati da una terra, a essere radicati e al sicuro”. Si intrecciano così la vicenda storica e politica di un paese che ha vissuto un genocidio inimmaginabile, le esistenze singole, le famiglie distrutte e divise, ma anche i gesti di ribellione e solidarietà, le storie d’amore, il racconto di diversi tipi di paternità e naturalmente la musica. Il romanzo infatti è concepito come una sinfonia in tre movimenti: “la verità... sta in ciò che si dice come in ciò che non si dice, così come una melodia non è solo una sequenza di note udibili, ma comprende anche lo spazio e le pause intermedie. Quando ascolti la musica devi imparare a cogliere anche l’atmosfera di un’eco”. Un viaggio nel passato e nella memoria per tornare a vivere il presente e una riflessione potente e poetica sulla giustizia e il valore del perdono.

Shehan Karunatilaka, LE SETTE LUNE DI MAALI ALMEIDA, Fazi, 2023 (traduzione di Silvia Castoldi)
“Vuoi chiedere all’universo la stessa cosa che vogliono chiedergli tutti gli altri. Perché siamo nati, perché moriamo, perché deve esserci qualcosa. E l’unica risposta che dà l’universo è non lo so, stronzo, piantala di chiedermelo. L’Aldilà è disorientante quanto l’Aldiquà, il Mezzo è arbitrario come Laggiù. E così inventiamo storie perché abbiamo paura del buio”: è una storia al confine tra i vivi e i morti quella raccontata con grande ritmo e continue invenzioni dallo scrittore cingalese Shehan Karunatilaka, vincitore con LE SETTE LUNE DI MAALI ALMEIDA del Booker Prize 2022. Il protagonista, infatti, fotografo di guerra, giocatore d’azzardo e gay clandestino in un paese dove l’omosessualità è perseguita per legge, si ritrova in una sorta di limbo dove confluiscono le persone appena morte prima di raggiungere la loro destinazione finale o reincarnarsi. Ciascuno ha a disposizione sette lune, cioè lo spazio di sette notti per chiudere i conti con la vita terrena. Maali, oltre a voler capire chi l’ha ucciso, tenta di far ritrovare a DD, il ragazzo di cui è innamorato e Jaki la ragazza che vive con loro come finta copertura, una scatola che contiene delle foto che rivelano la complicità tra politica, terrorismo e malavita in relazione in particolare al luglio nero del 1983, le violenze di massa che provocarono centinaia di morti tra i tamil in risposta a un agguato in cui erano morti 13 soldati dello Sri Lanka. Così il romanzo ha il ritmo del thriller, l’immaginario del realismo magico, lo sguardo ironico del protagonista anche nei momenti più drammatici e riesce a unire la denuncia sociale e politica al piacere della narrazione: “Non abbiate paura dei demoni; sono i vivi che dovremmo temere. Gli orrori umani battono qualunque cosa Hollywood o l’aldilà siano capaci di evocare. Ricordatevelo sempre quando incontrate un animale selvatico o uno spirito vagante. Non sono pericolosi quanto voi”.

Miguel Bonnefoy, L’INVENTORE, 66than2nd, 2023 (traduzione di Francesca Bonomi)
Miguel Bonnefoy si conferma scrittore insieme epico e contemporaneo anche in L’INVENTORE, il suo nuovo romanzo pubblicato come i precedenti da 66than2nd nella traduzione di Francesca Bonomi. Lo scrittore francese di madre venezuelana e padre cileno è un narratore raffinato, un raccontatore di storie piccole e universali insieme, un navigatore di vite e un abile tessitore di trame narrative, i cui fili si diramano anche di libro in libro. In questo nuovo romanzo indaga attraverso una o più esistenze un’epoca e insieme l’animo umano. E nello stesso tempo immerge chi legge in una narrazione intrigante e irresistibile che ti trascina per il puro piacere di leggere. Augustin Mouchot è un “guerriero triste”, uno scienziato geniale non aiutato dalle umili origini e da una salute drammaticamente cagionevole, al limite del comico, che già alla fine dell’Ottocento scopre le potenzialità dell’energia solare. Così costruisce una macchina per lo sfruttamento dei raggi solari che sarà presentata all’Esposizione Universale di Parigi del 1878. Ma prima la sua idea seduce i potenti tra cui Napoleone III e dall’umile casa del padre fabbro, Augustin si troverà nella reggia più lussuosa e potrà avere i fondi per portare avanti le sue ricerche andando persino dove il sole batte quasi sempre e si può pensare addirittura di toccarlo come in Algeria. Seguiamo così i viaggi di Augustin, i cambi di fortuna e quindi di alloggio, da un elegante appartamento a una lurida baracca. Con sempre appresso le sue lastre e gli enormi componenti della macchina del sole, i complicati calcoli matematici e fisici, i riconoscimenti e le illusioni, i pensieri funesti e la convinzione di avere qualcosa di importante da dire al mondo. Ma ahimè il carbone vince la battaglia dell’energia. Al di là dell’inquietante pensiero sul valore dell’intuizione geniale di Augustin Mouchot, Miguel Bonnefoy racconta le difficoltà di un uomo di grande talento, gli fa attraversare confini non solo geografici e ci mostra come la letteratura può riscattare un’esistenza e un’idea troppo in anticipi sui tempi.

Katja Oskamp, MARZAHN, MON AMOUR. STORIE DI UNA PEDICURE, L’orma, 2023 (Traduzione di Rachele Salerno)
“Gli anni di mezzo, quelli in cui non sei né giovane né vecchia, sono anni confusi. La riva da cui sei partita non si vede più e quella verso cui ti dirigi non si distingue ancora chiaramente. Sono anni in cui annaspi al centro di un grande lago, senza fiato, fiaccata dalla monotonia delle bracciate”. Così Katja Oskamp, quarantacinque anni, l’unica figlia volata via dal nido, il marito ammalato, (“Sei in un’età in cui la giovinezza di tua figlia ti ricorda ancora la tua e la malattia di tuo marito ti ha trasformata da amante in infermiera), la carriera poco soddisfacente di scrittrice, in qualche modo si immerge: si arma di asciugamani e lenzuola e frequenta un corso di pedicure che le permette di trovare lavoro in un salone di bellezza a Marzahn, il più grande quartiere di palazzoni prefabbricati della DDR. Qui cura i piedi e ascolta, osserva, dialoga con la varia umanità che si siede davanti a lei. Fa insieme i suoi due mestieri: la scrittrice e la pedicure. Così restituisce la vita di chi incontra grazie al suo talento narrativo e mostra che la letteratura come la bellezza non ha luoghi di osservazione privilegiati e non è slegata dalla vita di tutti i giorni: “Disinfettare e decorare. Credo di aver capito perché Flocke eccelle in queste due arti: ci tiene che le cose siano pulite, ci tiene che le cose siano belle. Decora il suo appartamento, il nostro salone, se stessa. Decora le unghie delle nostre clienti, e magari quelle opere d’arte di brillantini multicolore possono anche risultare kitsch ed esagerate, ma a volte, forse, la bellezza del mondo è racchiusa nel breve spazio di un’unghia”. Oltre agli straordinari personaggi, dall’anziano seduttore, alla coppia simbiotica, dalle amiche amanti dei cani, alla madre e alla figlia sempre in lite, (“per la maggior parte ho dei clienti abituali... nel corso del tempo ho imparato a conoscerli, le loro peculiarità e fissazioni, le loro storie, i loro destini”) la scrittrice tedesca ci apre, per così dire dal basso, uno spaccato della realtà sociale del suo Paese, tra racconti di immigrazioni e vite spezzate dalla povertà e dalla solitudine, ma anche storie d’amore, amicizia, fortuna e voglia di vivere.

Pierre Jourde, LA PRIMA PIETRA, Prehistorica, 2023 (traduzione di Silvia Turato)
“Alcuni, come Geoffrey, avevano confessato di non aver letto il libro. Aveva provato ma, come aveva detto in tribunale, non ci aveva capito niente. Altri avevano letto soltanto dei pezzi, quelli che avevano dovuto riguardarli. Qualcuno si era spinto sino in fondo... Ma per la maggioranza è sicuramente l’incomprensione quella che domina, andando dall’incomprensione indignata all’incomprensione benevola”. Pierre Jourde si affida alla letteratura per restituire una vicenda personale a dir poco sconvolgente. Un anno dopo la pubblicazione di PAESE PERDUTO lo scrittore francese infatti torna nella casa di famiglia nel villaggio dove è ambientato il romanzo e subisce un tentativo di linciaggio a colpi di pietre insieme alla moglie e ai figli piccoli. Viene accusato dalle persone con cui è cresciuto di avere messo in cattiva luce gli abitanti del paese e di averli traditi raccontando i loro segreti. Nel libro viene raccontato l’accaduto con antefatti e conseguenze ma soprattutto l’autore ci offre un’ampia e profonda riflessione sul senso della letteratura da una parte e su quello della suggestione collettiva dall’altra. Sul potere che si attribuisce ai libri, anche senza averli letti e su come la violenza possa nascere all’interno di una comunità piccola che si sente violata. Jourde affronta i tanti temi con una scrittura ricca e precisa, estremamente efficace ed elegante quasi a porre contro le pietre il valore profondo della parola. Costruito come un dialogo con se stesso, il libro è un affresco desolante di un uomo diviso in una “specie di impermeabilità tra la tua vita al villaggio, segreta, istintiva, intimamente legata all’infanzia, simile a un ricordo e la tua vita altrove, che ti costruivi alla luce del sole... tra il bifolco in te e l’intellettuale”. Così il racconto da personale diventa politico e sociale, mette in luce le dinamiche di una piccola comunità isolata, le regole non scritte, le ritualità, la divisione di classe e i pregiudizi su chi se ne è andato, ma anche la bellezza della natura e dei legami umani.

Giulia Vola, FALLISCI E SEI MORTO, Acquario, 2022
“Ci vuole forza per partire e ce ne vuole molta di più per tornare... Chi è rimasto a casa vede solo una persona che si ripresenta a mani vuote, e non ci sono abbastanza parole per spiegargli quanto sono state importanti le piccole grandi conquiste quotidiane. Aprire un conto in banca, trovare un indirizzo, il medico della mutua, spiegarsi in farmacia, farsi chiamare per nome, farsi degli amici, farsi visitare”. FALLISCI E SEI MORTO di Giulia Vola, è un reportage narrativo che ci porta in una serie di viaggi reali ma anche virtuali. La giornalista torinese infatti accetta gli inviti di alcune persone di origine straniera che vivono nel quartiere di San Salvario e così parte per incontrare le loro famiglie: “A San Salvario ci sono stranieri da tutto il mondo? Sì, e dove non ci sono vado a trovare qualche torinese, possibilmente di San Salvario, emigrato. Negli Stati Uniti, in Argentina, nel regno di Tonga”. La seguiamo così in un viaggio intorno al mondo per ripercorrere la strada fatta da donne e uomini partiti da Bangladesh, Filippine, Giordania, Marocco, Egitto, Burkina Faso, Colombia, Bolivia, Ecuador e Perù. Il racconto e l’ascolto diventano il viatico per restituire le esistenze singole e insieme la complessità del processo migratorio, che comprende anche quello che accade nel nostro Paese. È un viaggio dove si respirano il culto delle case e delle cose, ma anche i sogni e le eterne contraddizioni su quello che lasci e quello che trovi: “Ricchi o poveri crescono con lo stesso chiodo fisso: partire, partire, partire, partire. Qui l’Italia è come l’America e non ci crede nessuno alla storia della crisi: da voi è il paradiso zwina, meraviglioso dove ci sono fluss, i soldi, e huquq, i diritti”. Giulia Vola usa insieme la solida professionalità di giornalista e viaggiatrice e lo sguardo personale per restituirci pensieri e tradizioni, usanze e bugie bianche, imbarazzi (soprattutto quelli della emancipata professionista occidentale quando le donne che incontra parlano esplicitamente di sesso) e pregiudizi, domande e risposte su chi parte e chi rimane.

Silvia Vecchini, I BAMBINI SI ROMPONO FACILMENTE, Bompiani, 2023
“Ho voluto scrivere invece dei bambini che si rompono, dei bambini rotti che si rialzano e che ho conosciuto, incontrato, ascoltato a lungo o di sfuggita per momenti così intensi che restano eterni. A volte ho avuto l’onore di conversare e scrivere insieme a loro. Qualcosa che somiglia a conoscerli da molto vicino. Di altri ho sentito parlare. Poche e brevi parole contenevano già tutto e non volevo che andasse perso”: I BAMBINI SI ROMPONO FACILMENTE è un viaggio nell’infanzia e insieme un invito a guardare e ascoltare veramente bambine e bambini. E a imparare da loro (“i bambini sono maestri che insegnano instancabilmente, in ogni istante. Io mi metto alla loro scuola e mi sembra sempre di imparare”). Il libro è una raccolta di racconti brevi dove alla fine “la parola si condensa ancora e precipita nei versi”, ma senza uno stacco netto perché la prosa di Silvia Vecchini ha già il ritmo e la musicalità della poesia. Così incontriamo una bambina sirena vittima dell’affrettato giudizio altrui; un bambino lievitato sempre circondato di cibo, una bambina che teme l’arrivo del Natale, un bambino camaleonte che si trasforma ogni giorno in un animale diverso. Bambine e bambini che cercano di adattarsi al mondo adulto, di non disturbare, di scomparire, ma anche di consolare, di dissimulare, di mostrare che magari si può prendere un’altra via, si può ricominciare. Gli adulti sono elefanti in una cristalleria, dirigono i bambini come se non avessero sentimenti e personalità, o li considerano già adulti e li caricano di responsabilità. Spesso li schiacciano, li ignorano o li caricano di aspettative, e come dice Franco Lorenzoni: “bambine e bambini si accorgono al volo della distanza che troppe volte separa parole e azioni di noi adulti”. Silvia Vecchini riesce a dare voce ai loro sguardi e sentimenti, senza renderli emblematici ma usando la letteratura e la poesia per raccontarli. Suggestive e precise le illustrazioni di Sualzo che donano un’ulteriore voce al libro.

Dario Ferrari, LA RICREAZIONE È FINITA, Sellerio, 2022
“Ci sono decisioni che segnano la piega che prenderà tutta una vita, e io finora quelle decisioni le ho sempre prese a caso... Tendenzialmente cerco di non muovermi, di procrastinare fino a quando tutte le possibilità sono evaporate e posso finalmente tornare a crogiolarmi nel mio bozzolo di inconcludenza”. LA RICREAZIONE È FINITA di Dario Ferrari colpisce da subito per la qualità della scrittura, ricercata e efficace insieme, ironica e colta, perfettamente cucita sulla voce narrante. Marcello ci ha messo dieci anni a laurearsi in Lettere, ha una relazione conflittuale con il padre, vive ancora con la madre e non si decide a regolarizzare la sua relazione con Letizia, “giovane, ricca e studentessa di medicina”. Poi prende di colpo ben due decisioni, in realtà per evitarne altre: si taglia la barba e si candida per un dottorato senza nessuna speranza di vincerlo. E invece, forse malauguratamente, ottiene la borsa e si ritrova al fianco del geniale professor Sacrosanti, potente barone della facoltà di Lettere che gli affida come tesi un lavoro sul viareggino Tito Sella, un terrorista finito presto in galera e morto in carcere, che si dice abbia scritto "La Fantasima", la presunta autobiografia mai ritrovata. Nasce così un libro nel libro, e ci mettiamo anche noi sulle tracce di Sella sino a Parigi, rivivendo gli Anni Settanta. Dario Ferrari ci immerge con ironia nei giochi di potere accademici, racconta l’Università come limbo ma anche come luogo di mortificazione e gestione di piccoli e grandi privilegi e il tono del libro rispecchia il suo protagonista, che riesce insieme a parlare di alta letteratura e raccontare le piccolezze umane più basse, a partire dalle sue. È un romanzo insieme intellettuale e popolare, che dà voce a una generazione ma racconta molto della storia del nostro paese, mette in scena con ironia e un po’ di condiscendenza la crisi del maschio, sottolineata dai volitivi e più risolti personaggi femminili. Come il suo protagonista, il romanzo è serio ma non si prende troppo sul serio.

Hakan Günday, ZAMIR, marcos y marcos, 2023 (traduzione di Fulvio Bertuccelli)
Nella ricca biografia di Hakan Günday, autore del recente ZAMIR, pubblicato come gli altri suoi libri da Marcos y marcos nella traduzione di Fulvio Bertuccelli si legge che “nato a Rodi nel 1976, ha sangue turco e sguardo europeo. Figlio di diplomatici, cresce spostandosi da una città all’altra, per poi approdare a Istanbul, dove adesso vive”. E in questi continui e inaspettati incroci tra Oriente e Occidente porta anche nei suoi romanzi. In ZAMIR in particolare grazie al giovane protagonista facciamo davvero un giro del mondo, partendo dal El-Aman, il campo profughi al confine tra Siria e Turchia dove la madre l’ha abbandonato. Rimasto a soli sei giorni ferito dallo scoppio di una bomba, sopravvive grazie a innumerevoli operazioni che non riescono però a restituirgli un volto capace di ridere e piangere. Zamir con il suo viso sfigurato diventa una sorta di miniera d’oro per l’associazione umanitaria che gli salva la vita, facendo da perfetto testimonial per le donazioni che fioccano numerose. Si trasferisce poi negli Stati Uniti, dove viene formato per un ruolo strettamente connesso alla vita e alla morte: “Da tredici anni lavoravo nell’ente denominato Fondazione per la prima Pace Mondiale. La fondazione aveva sede a Ginevra e contava sessantasei uffici e ottocentosettantuno impiegati. Tuttavia, di questi ottocentosettantuno impiegati, solo sette ricoprivano il ruolo di conciliatore. E io ero uno di loro”. E noi viaggiamo con lui e seguiamo le crisi internazionali, i colpi di stato, le minacce di invasione, gli atti terroristici, ma soprattutto i continui compromessi a cui l’azione diplomatica si deve piegare per evitare stragi e massacri. Cosa vale di più? La conquista o la salvaguardia della democrazia o salvare vite umane? Con il consueto stile cinematografico, che non rinuncia neppure nelle situazioni più tragiche all’ironia, lo scrittore turco non risparmia critiche spietate ai rappresentanti politici del suo Paese e non solo, sottolineando l’ingiustizia del profondo divario economico e di conseguenza sociale tra nord e sud del mondo.

Cristina Rivera Garza, L’INVINCIBILE ESTATE DI LILIANA, Sur, 2023 (traduzione di Giulia Zavagna)
“Vivere in lutto è questo: non essere mai sola. Invisibile ma evidente in molti modi, la presenza dei morti ci accompagna nei minuscoli interstizi dei giorni. Da sopra la spalla, nel timbro della voce, nell’eco di ogni passo... Sono sempre lì e sono sempre qui, con e dentro di noi, e fuori ci avvolgono con il loro calore, ci proteggono dalle intemperie. Questo è il lavoro del lutto: riconoscere la loro presenza, dire sì alla loro presenza. Ci sono sempre altri occhi che vedono ciò che io vedo e immaginare quell’altra prospettiva, immaginare ciò che dei sensi non miei potrebbero apprezzare attraverso i miei sensi è, se ci pensiamo bene, una definizione puntuale dell’amore. Il lutto è la fine della solitudine”: il memoir della scrittrice messicana che dopo 30 anni ritorna all’assassinio della sorella ventenne ad opera dell’ex fidanzato rimasto impunito è un libro unico che contiene tanti libri. È un’opera letteraria che si nutre di sociologia e politica, di ricordi e moniti per il futuro, di voci e colpevoli silenzi. Viaggiamo al fianco di Cristina alla ricerca del fascicolo di indagine sul femminicidio della sorella e insieme la seguiamo nel passato, grazie all’archivio di parole e pensieri lasciato da Liliana e alle testimonianze di chi l’ha conosciuta e amata. Memoria e riflessione, dolore e denuncia, sensi di colpa, rabbia e amore si intrecciano per restituire l’essenza e l’esistenza di una giovane donna a cui un uomo che diceva di amarla ha impedito di continuare a vivere senza di lui. Il libro respira grazie alla presenza di Liliana e si alimenta di innumerevoli voci e punti vista, dei continui tra gli amici, le compagne e i compagni di università, gli scambi dialoghi tra le due sorelle e le lettere con i genitori. Siamo travolti da una cascata di parole, e anche questo è il senso del libro: non bisogna tacere, anche in nome delle troppe vittime di femminicidio: “Di fronte all’inimmaginabile non abbiamo saputo cosa fare. Di fronte all’inconcepibile, non abbiamo saputo cosa fare. E siamo rimasti muti. E ti abbiamo avvolta nel nostro silenzio, rassegnati di fronte all’impunità, di fronte alla corruzione, di fronte alla mancanza di giustizia”.

Jacquez Fux, EREDITÀ Giuntina, 2023 (traduzione di Vincenzo Barca)
“Le generazioni hanno bisogno di parlare. Di testimoniare. Di trasformare l’indicibile in racconto e riflessione. Di dare forma a ciò che è stato murato dal silenzio e che non cessa di ripetersi di generazione in generazione”. Il romanzo dello scrittore brasiliano riesce a raccontare tre generazioni di donne contemporaneamente. Le tre voci infatti si alternano di volta in volta in tutto il libro: prima il diario di Sara, nata nel 1926 a Lodz in Polonia e unica sopravvissuta ad Auschwitz della sua famiglia; poi Clara, sua figlia, nata nel 1949 in Brasile dove Sara ha cercato di fuggire all’orrore dell’Olocausto e infine Lola, nata nel 1984, la figlia di Clara, giovane ricercatrice universitaria che cerca di studiare e spezzare per sua figlia Luiza la terribile eredità della famiglia: “Noi, nipoti, figli e partecipi del terrore, diciamo solitamente che l’esperienza non è indicibile. È molto peggio: è invivibile. E l’invivibile viene trasmesso attraverso il corpo e il sangue”. È significativo anche il modo in cui ci arrivano le loro parole: quelle di Sara dalle pagine del diario che comincia a scrivere nel 1939; le considerazioni di Clara vengono affidate alle sedute di psicoanalisi e così compaiono anche gli interventi della terapista mentre la voce di Lola è quella più letteraria e sembra inglobare e rielaborare anche le altre due. È infatti la nipote che riesce a scardinare il silenzio sul trauma irreparabile che segna tutte loro: “Per Sara e per la sua generazione enfatizzare l’oblio è stata una forma di sopravvivenza. Ricordare significava aprire brecce in un dolore addormentato. Per Clara e per la sua generazione dimenticare-sublimare è stata una maniera di tornare a vivere. Ricordare divenne un riscatto dalla sofferenza di quel passato non vissuto. Per me... dimenticare-sovvertire è una decisione politica che porta alla ripetizione... Ricordare, educare, scrivere: tentativo (inutile) di capire”. Così la nostalgia diventa una ferita incurabile, il diario una sorta di testamento e la triade solo al femminile sembra destinata ad avere figure maschili solo di passaggio e alla fine inconsistenti.

Giampaolo Simi, SARÀ ASSENTE L’AUTORE, Sellerio, 2023
Il romanzo di Simi è esilarante sia per chi conosce molte delle situazioni narrate, dalle semplici ma sempre insidiose presentazioni in librerie o biblioteche ai grandi e affollati festival, sia per chi è al di fuori del mondo editoriale. È una commedia ben costruita e con un ritmo incalzante e precisi tempi comici lo scrittore viareggino non ci risparmia miserie e mitomanie del mondo dei libri, a cui anche noi lettori contribuiamo. Seguiamo le peripezie di Gianfelice Sperticato, ancora assistente universitario a più di cinquant’anni, autore di nicchia che si trova in una gloriosa libreria sulla via del tramonto per presentare il suo “capolavoro”, “Lo scempio”. Ma assodato che “la stragrande maggioranza della popolazione, messa di fronte a una scelta secca, preferirebbe accettare un invito a cena da Hannibal Lecter piuttosto che assistere alla presentazione di un libro”, non è facile intuire il risultato della presentazione. Tanto che il nostro se la prende nell’antibagno con la sagoma a grandezza naturale di Federigo Crudeli, autore di un thriller diventato da subito un bestseller da migliaia di copie, tradotto in tutte le lingue esistenti. Per uno strano gioco del destino le loro esistenze si incroceranno e il confine tra narrativa di intrattenimento e letteratura si mostrerà sempre più labile. Lui stesso autore del genere più venduto, Simi scardina pregiudizi e facili catalogazioni, mostrando come quasi mai esistono confini netti, ma una complessità più articolata e spesso imprevedibile. Così un romanzo giallo può raccontare gli aspetti politici e sociali del nostro paese come anche le dinamiche del mondo del calcio o i paesaggi del mare d’inverno, e un libro umoristico può farci riflettere sul nostro ruolo nella filiera della lettura e insieme mostrare a cosa può servire nella vita quotidiana saper recitare in latino i versi di Catullo.

Amira Ghenin, LA CASA DEI NOTABILI, e/o, 2023 (traduzione di Barbara Teresi)
“Taher al-Haddad non è il personaggio principale del romanzo, sebbene sia il filo di Arianna della sua trama di fondo... volevo raccontare la Tunisia degli Anni Trenta, un periodo effervescente e cruciale della nostra storia nazionale, estremamente ricca di conflitti politici e culturali. Il militante e attivista Taher al-Haddad è una delle figure emblematiche di quell’epoca. Come donna tunisina, gli sono molto affezionata”. Devo confessare che non avevo letto l’introduzione al romanzo a cura della redazione di e/o e mi sono talmente immersa nel romanzo che mi sembrava tutto vero e insieme tutto frutto di invenzione. Ma alla fine non è anche questo un merito del libro? Grazie a Leila che non solo mi ha consigliato la lettura ma mi ha fatto anche notare che è uno dei rari casi di traduzione dalla lingua originale dell’autrice senza passare da una lingua occidentale e coloniale. E Barbara Teresi riesce a restituire la sonorità e il ritmo musicale dell’arabo della grande scrittrice tunisina, capace di offrirci uno sguardo sulla recente storia della Tunisia attraverso il legame tra due famiglie benestanti che si imparentano con il matrimonio tra Zubaida e Mohsen. Così la ragazza che cresce e studia nella liberale e progressista famiglia di Ali ar Rassa’ si trova a vivere nella tradizionalista e conservatrice famiglia en-Neifer. In realtà Mohsen che ha studiato in Germania desidera una moglie istruita ma non è facile l’equilibrio con il resto dei familiari e degli abitanti della casa. Saranno alcuni di loro ad alternarsi nel racconto che prende il via da una lite scatenata da una lettera segreta intercettata e indirizzata a Zubaida che ha appena partorito il secondo figlio. Da lì si dipanano le vicende dei tanti personaggi che affollano il romanzo, dalle serve che spesso condividono i segreti e i dispiaceri delle loro padrone, sino ai giovani uomini che sembrano godere di una libertà che spesso non è tale. E intorno la Medina di Tunisi, i colori, i cibi, gli abiti più o meno tradizionali in una narrazione in presa diretta che restituisce in maniera autentica la storia e l’essenza di un paese così vicino a noi ma spesso percepito come distante.

Goldie Goldbloom, MADRE, Playground, 2023, (Traduzione di Elio Turellato)
“Surie è immobile come un pilastro della stazione. Tutti pensano di capire chi è, una sconosciuta, una fanatica, una antimoderna, un ridicolo anacronismo”. La protagonista di MADRE, il terzo romanzo di Goldie Goldbloom, si scopre incinta di due gemelli all’età di cinquantasette anni. Quando le conferma la notizia, Val, l’ostetrica che la segue osserva che per lei, rispetto alle altre donne, dovrebbe essere meno traumatico, perché ha già dieci figli e una miriade di nipoti, e quindi uno più uno meno... Ma giustamente Surie risponde che “ogni bambino è un mondo intero”. Sembrano due mondi contrapposti quelli di Val, donna americana senza figli, che si considera libera ed emancipata con i suoi capelli fluo e il lavoro all’ospedale e quello di Surie, che vive come lei a New York ma in realtà sembra abitare su un altro pianeta. La cinquantasettenne infatti è membro della comunità chassidica di Williamsburg, dove si vive in una sorta di non tempo dove si seguono le tradizioni più antiche e non esistono tv, cellulari o pc e si segue una precisa ritualità religiosa che sancisce anche i ruoli all’interno della famiglia. Dove il sesso è contemplato solo a fini riproduttivi e quindi dopo i quarant’anni non è più concepibile. Il romanzo è anche il confronto e il commuovente racconto dello stretto legame affettivo tra due donne apparentemente così diverse: “Val pensa che la fiducia assoluta della donna chassidica nei confronti del suo mondo sia inquietante. Crede davvero che basti essere madre? Non ha domande di cui desidera avere risposte? Non ha mai sperato di fuggire da quella casa che puzza di galline per andare a scoprire il mondo?”. La scrittrice australiana ci restituisce un mondo che può sembrare lontanissimo da noi ma che invece declina attraverso gli universali sentimenti che ruotano intorno alla famiglia, dall’amore e dalla passione coniugale, al senso di protezione verso i figli, anche quelli che si allontanano e sfoggiano un paio di occhiali verdi, sino al rispetto per gli anziani. Un romanzo denso, che insieme incanta e fa riflettere, che ti entra dentro e ti abita a lungo.

Claire Luchette, AGATHA, Atlantide, 2023 (traduzione di Clara Nubile)
“Noi quattro eravamo nate in mesi differenti dello stesso anno, avevamo tutte vent’anni quando diventammo novizie, ventidue quando prendemmo i voti. A ventinove anni ci trasferimmo da Lackawanna, proprio a sud di Buffalo, a Woonsocket, nel Rhode Island... La nostra fede era solida e fondata. Eravamo legate l’una all’altra come pezzi di uno strano corpo asimmetrico: Frances era la bocca, Mary Lucille il cuore, Therese le gambe e io gli occhi”. Come annuncia la bella copertina, AGATHA, il romanzo di Claire Luchette racconta la storia di quattro giovani suore americane. Le conosciamo in un momento di svolta della loro vita: a causa del dissesto economico del loro convento e del pensionamento dell’amata madre superiore vengono spostate altrove e per fortuna possono rimanere insieme. Oltre alla perdita della loro guida non solo spirituale: “Madre Roberta dettava le regole: niente gomme da masticare, niente biciclette, niente frutta secca, niente animali domestici. Ogni mattina preparava il caffè e ogni sera cucinava la cena. Due volte l’anno cuciva i nostri abiti, li faceva su misura con metri di tessuto misto lana di colore nero. Ricamava i cuscini, faceva il punch con il preparato in polvere, scriveva le omelie per il prete. Tutto ciò che sapevamo della vita, ce l’aveva spiegato madre Roberta”, il cambiamento porta a misurarsi con mansioni ma soprattutto persone diverse. Non più bambini ma adolescenti e adulti che tentano di uscire da una dipendenza. Così il percorso di vita delle suore si intreccia a quella di Tim Gary, rimasto sfigurato, del ribelle Baby, dell’alcolista Tagliaerbe Jill e di Cavalla. E pone Agatha di fronte a tante domande e a pensare se davvero la fede è sufficiente per aiutare questa umanità in difficoltà. Un romanzo pieno di grazia, non solo in senso religioso, tenero e delicato, dove comico e drammatico si intrecciano e l’ironia sbuca nei momenti più inaspettati. Lo sguardo a volte ingenuo ma sempre profondo di Agatha mostra come le convinzioni personali sono spesso messe a dura prova dalla realtà e dagli incontri che facciamo.

Antanas Sileika, TEMPUS FUGIT, Del Vecchio, 2022 (Traduzione di Arianna Giorgi, Gabriella Catalini, Laura Failli, Moira Mini, Nicoletta Barbarito)
“Uno stupido è sempre pericoloso, - mi diceva mio padre, - ma uno straniero stupido lo è ancora di più. Non si può mai sapere se è un idiota o semplicemente uno straniero”: TEMPUS FUGIT dello scrittore canadese Antanas Sileika è uno spaccato vero, comico e drammatico insieme di chi lascia il proprio paese per cercare un futuro migliore. È quello che accade alla famiglia protagonista delle storie o meglio degli undici episodi che compongono il libro: dall’arrivo in Canada dalla Lituania negli Anni Cinquanta con due figli maschi che poi diventeranno tre sino all’età adulta dei ragazzi. Il romanzo, pieno di aneddoti, incontri, situazioni tragicomiche, più o meno divertenti scontri di mentalità, prende il via con la casa che a fatica il capofamiglia cerca di costruire in un nuovo sobborgo residenziale dove sono gli unici ad avere un cesso esterno e a vivere nel seminterrato in attesa di tirare su i muri e si conclude con la vendita della casa all’odiato signor Taylor, il vicino di casa che rappresenta il massimo vertice sociale, perché appartiene a una specie particolare di canadesi, “gli inglesi”. In mezzo si dipana la vita del Vecchio, sempre alla ricerca di lavoro come manovale, nostalgico del suo paese; della moglie che ha il potere di risolvere ogni problema e che riesce ad emanciparsi anche grazie a un buon lavoro; dei tre figli, diversi tra loro ma accomunati dal sentirsi sempre messi ai margini: “Siamo svantaggiati. Siamo stati tirati su come stranieri nel nostro stesso Paese”. La voce narrante è per lo più il figlio di mezzo, Dave, che cerca di barcamenarsi tra gli imprevedibili scatti d’ira e la religiosità fanatica del padre, tra il fratello maggiore, fisico e impulsivo e il piccolo Tom, amante dei libri e della cultura inglese, tra il sentirsi canadese e il rifiuto verso il paese di origine dei genitori: “Era a tal punto un profugo che non sapeva neanche che bisognava riempirsi la bocca di pop-corn fino a vuotare la ciotola e dopo mangiare i pezzetti finiti in grembo o nell’interstizio tra la sedia e il cuscino”.

Jacqueline Roy, CANTA ANCORA, RAGAZZA, Giulio Perrone, 2022 (traduzione di Marta Olivi)
Il titolo originale prende spunto da un proverbio che dice “Non è finita fino a quando la signora grassa non canta”, cioè non è possibile sapere come andrà a finire una certa situazione finché non si è conclusa, come racconta nella prefazione Bernardine Evaristo, che l’ha pubblicato nella sua collana “Black Britain”. Ed è proprio e per fortuna così, dobbiamo aprirci a diversi punti di vista. Al centro del romanzo due donne che si ritrovano compagne di stanza nel reparto psichiatrico di un ospedale londinese: la cinquantenne Gloria è vitale, esagerata, sarcastica e ci si chiede se era davvero necessario ricoverarla per la musica a tutto volume e il canto a squarciagola. Sembra addirittura che aumenti i segni di disagio mentale perché si trova in quel reparto: “Ecco un’altra delle cose che mi preoccupano dell’essere una paziente psichiatrica. Quando sto così mi sento me stessa più che mai... Forse è questa la cosa più spaventosa di essere matti. Che se non stai attento inizia a piacerti”. Merle, non ancora trentenne, arriva in seguito a un tentativo di suicidio e Gloria è l’unica che riesce a infrangere la sua corazza. Nel romanzo si alternano il presente o meglio il non tempo del ricovero e le storie delle due donne: “Tutto parla del domani. Ma la cosa buffa è che da quando mi hanno messa in ospedale il tempo per me si è fermato, mi hanno strizzata come una spugna e il futuro è gocciolato via. Ormai è tutto passato e presente, come se il futuro non esistesse”. Ma viene raccontato anche il variegato mondo che gira intorno alla malattia mentale. La scrittura della scrittrice inglese è efficace, diretta, ricca e immaginifica. Restituisce le esistenze delle due protagoniste compreso il momento di rottura che le porterà a perdere il controllo della loro esistenza. Un romanzo ricco e intenso che mostra come non ci sono confini netti tra sanità e malattia mentale, e che mette in luce le discriminazioni subite dalle protagoniste per il colore della pelle o le loro scelte di vita.

Gudrún Eva Mínervudóttir, METODI PER SOPRAVVIVERE, Iperborea, 2023, (traduzione di Silvia Cosimini)
Il bel titolo del romanzo di Gudrún Eva Mínervudóttir è una precisa dichiarazione d’intenti. Non possiamo sopravvivere da soli e la rete sociale è essenziale per cercare un qualsiasi senso nella nostra vita. La scrittrice islandese conferma così il suo talento per l’introspezione psicologica dei personaggi e insieme la capacità di raccontare con lucida spietatezza la società in cui viviamo, in una storia circolare dove ascoltiamo alternate le voci dei quattro protagonisti. Siamo in un sobborgo di Reykjavík, immerso nella natura, con le case equamente divise tra i residenti e quelle usare solo per le vacanze. Il primo personaggio che entra in scena è l’adolescente Hanna che in realtà una casa non ce l’ha ma è provvisoriamente ospitata da amici insieme alla mamma che si sta separando dal compagno. Poi conosciamo Arni e soprattutto il suo vivacissimo labrador Alfons, e Aron che è il perno della storia, nove anni e una brutta situazione familiare e infine Borghildur, dal passato lungo come Arni. Le loro esistenze si incrociamo in modo inaspettato, per merito e per colpa di una bicicletta, per un tentativo di mettere in relazione spiriti affini, per una delusione d’amore e per un lutto senza fine, per il caso che spesso governa le nostre vite: “Quando morì eravamo stati insieme sette anni. Nemmeno un decimo di un’esistenza umana. E comunque non mi è toccato un destino peggiore di altri. La vita ti sbrana, e intanto ti guarda negli occhi con compassione. È così e basta”. Il romanzo ci avvolge e non possiamo non affezionarci ai personaggi, da quelli più giovani e apparentemente più indifesi a Arni e Borghildur che hanno già percorso un bel pezzo di vita. I più grandi si alleano per salvare Arno, ma in realtà creano legami essenziali per sopravvivere. La traduzione di Silvia Cosimini restituisce la scrittura precisa, poetica e ammaliante della scrittrice islandese e insieme la pietas di virgiliana memoria con cui racconta i suoi personaggi e insieme tutti noi.

Pascale Kramer, UNA FAMIGLIA, Nutrimenti, 2023 (traduzione di Luciana Cisbani)
“Mathilde aveva assistito ai vari coma etilici di Romain molto prima di essere grande abbastanza per capire, e non aveva mai conosciuto una vita famigliare senza quell’ossessione costante”. UNA FAMIGLIA di Pascale Kramer è un romanzo corale, dove si alternano le voci di Olivier e Danielle, i genitori e dei loro tre figli adulti: Lou, che ha appena partorito la sua seconda figlia, forzando la mano al marito con cui era in crisi; Edouard, reduce dalla malattia del primogenito, che mette in discussione il suo matrimonio e la più piccola Mathilde che ha preferito andare a studiare a Barcellona. L’unico di cui non ascoltiamo la voce è il vero protagonista del romanzo, Romain, il figlio primogenito che Danielle ha avuto dal primo marito, devastato fin dall’adolescenza dall’alcolismo e che come un burattinaio impazzito tira i fili della famiglia, tra ricoveri e ricadute, tra il vivere in una casa decente e avere un lavoro e il trovarsi coricato per strada in mezzo a luridi cartoni. La scrittrice svizzera riesce a mettere in scena la quotidianità più o meno serena della famiglia, tra la vivacità dei più piccoli, il legame saldo tra Danielle e Olivier, le ambizioni di Mathilde, la maternità e la paternità di Lou e Edoaurd, e insieme il pensiero costante di Romain, come uno spillo conficcato nelle loro esistenze: “Avrebbero dovuto sorvegliarlo costantemente, come aveva fatto la loro madre finché era vissuto in casa, per salvare quella parte amabile e amorevole, quella piccola parte miracolosa che c’era in lui. Avrebbero dovuto non avere una vita, si disse di nuovo in quell’istante, con lo stesso impossibile senso di colpa di allora”. Un romanzo potente, pieno di riflessioni e punti di vista mai banali, che indaga a fondo le dinamiche familiari. A partire dall’incredulità di fronte a un giovane pieno di talenti e circondato da opportunità e affetti, che nulla valgono di fronte alla sua dipendenza dall’alcool: “Forse anche lei avrebbe dovuto accontentarsi che suo figlio non fosse steso per terra da qualche parte, intento a svuotare bottiglie come ci si fa saltare il cervello”.

Gazmend Kapllani, LA TERRA SBAGLIATA, Del Vecchio, 2022 (traduzione di Rossella Monaco e Ermal Rrena)
“Frederik invece era rimasto fedele al pensiero del padre, 'Anche la peggior patria è meglio della terra straniera!', anche quando la mania di migrare si era diffusa tra gli albanesi come un’isteria collettiva. Karl aveva vissuto sotto cieli eterogenei, aveva parlato e scritto in lingue differenti, aveva amato donne di nazionalità diverse. Frederik aveva vissuto nella stessa casa dove era nato, nello stesso palazzo, allo stesso piano, nella stessa casa, realizzando così quell’ideale paterno legato alla continuità delle generazioni, senza fratture, che secondo lui costituiva l’unica possibilità per diventare un uomo felice e di sani principi”: il nuovo libro di Gazmend Kapllani ti costringe a riflettere sulle causalità della vita, dove sei nato e da chi ma anche su quello che puoi fare per conquistare la vita che desideri. La storia di due fratelli, uno che resta a Ters e l’altro che se ne va è in realtà la storia di un paese e in generale una riflessione profonda e mai banale sul nazionalismo (“Nei Balcani siamo orfani di tre imperi: quello romano, quello bizantino e quello ottomano... cercare la purezza nazionale nei Balcani è come cercare vergini nei bordelli”), sulla controversa contrapposizione tra comunismo e capitalismo, sul significato che diamo alla parola “libertà”, sui motivi che scatenano l’esodo dal proprio paese di origine, soprattutto dei più giovani: “... da queste parti la gente continua a vedere la fuga come una salvezza, continuando a confidare più nella bontà degli stranieri che nella giustizia della propria patria”. Karl torna a casa dopo ventisette anni per la morte del padre. Quel padre che ha fatto carte false per poterlo chiamare come Marx e che faceva recitare ai figli il Manifesto del comunismo. Quel padre che non ha mia capito cosa cercasse Karl fuori dalla sua patria: “Non sei stanco di parlare le lingue degli altri?”. Così l’incontro tra i due fratelli diventa il dialogo impossibile anche se pieno di sentimento, su due diverse concezioni del proprio posto nel mondo e sul senso della vita.

Elvira Mujčić, LA BUONA CONDOTTA, Crocetti, 2023
“Chi rimane aspetta che l’amico ritorni, chi ritorna non ritrova mai quello che ricordava”. È una storia di partenze, ritorni, attese, immobilità e cambi di prospettiva quella che racconta Elvira Mujčić nel suo nuovo romanzo, LA BUONA CONDOTTA. Ritroviamo il suo talento narrativo, la scrittura ricca e precisa e un tono insieme ironico e malinconicamente lieve che non ci risparmia nulla sull’assurdità del comportamento umano. Siamo in un piccolo paese del Kosovo subito dopo l’indipendenza e alla vigilia delle elezioni del sindaco. Della popolazione possono votare 1362 albanesi e 1177 serbi. A sorpresa vince Miroslav, il medico del paese di origine serba ma che ha un programma di pacifica convivenza tra tutti i cittadini. È un uomo perbene, ma il governo serbo non è d’accordo e manda una specie di sindaco ombra che può dare il passaporto e i documenti serbi. Ci si mette poi di mezzo la devastazione del cimitero e subito viene incolpata la popolazione di origine albanese e il nuovo sindaco si trova subito in una situazione tragicomica. Del resto i conflitti li vive anche nella sua stessa famiglia, con la figlia sempre ostile nei confronti dei genitori, che hanno voluto tornare in patria dopo gli anni trascorsi in Germania a causa della guerra dei Balcani. Così anche Miroslav è uno che è tornato da fuori, come Zdravko il suo migliore amico che lavora nei villaggi turistici e Nebojsa, l’altro sindaco, che è addirittura stato in prigione. Con una storia ispirata a una vicenda vera Elvira Mujčić mette in scena l’eterna lotta tra il singolo e la comunità, tra la politica e la morale, tra la responsabilità personale e quella collettiva: “Se durante gli anni Settanta qualcuno gli avesse rivelato che nel giro di un paio di decenni il nazionalismo sarebbe diventato la religione dei suoi connazionali, avrebbe creduto quel tale un pazzo. Se avesse presagito che di lì a poco la Jugoslavia, con i suoi valori di fratellanza e unità, sarebbe implosa e svanita, che il mondo si sarebbe capovolto e quegli ideali elevati si sarebbero tramutati in un pericolo da combattere e possibilmente estirpare, avrebbe di certo fatto ricoverare quel veggente sciagurato”.

Elisa Ruotolo, IL LUNGO INVERNO DI UGO SINGER, Bompiani, 2023
“Gli parve tutto così bello e distante dallo scantinato che avrebbe voluto inseguire le foglie e i passanti, sbirciare dalle finestre, e poi salire sui tetti fino a toccare l’azzurro”: il protagonista di IL LUNGO INVERNO DI UGO SINGER di Elisa Ruotolo, pubblicato da Bompiani con le immagini di Chiara Palillo è una tartaruga che sente stretta la sua casa in un buio scantinato. Prima la scrittrice ci racconta di Ester e Adam, i suoi genitori, che fuggono insieme da un allevamento e dopo essere stati rapiti da un circo cercano di nuovo la libertà. Poi da un uovo grigio a lungo vegliato e protetto nascerà Ugo. Detto Singer perché nato all’interno della celebre macchina da cucire. Ester si è rifugiata per farlo nascere, in un polveroso e disordinato scantinato, abitato da una famiglia di topi. Così Ugo e il topino Sam crescono insieme ma la tartaruga soffre il letargo, come un tempo vuoto che la tiene lontana dall’amico e non le permette di conoscere la stagione più fredda dell’anno: “Ma io voglio vedere l’inverno, Sam... Ecco, voglio sentire anche il freddo, sapere cosa si prova ad averne. Essere come tutti”. Così un autunno decide di uscire dallo scantinato e vedere il mondo con l’aiuto di Sam, ormai diventato anziano e di una gatta efficiente e comprensiva. E lì a Ugo si apre un mondo, forse non a sua misura, ma più ampio di quello che conosceva. Una storia lieve e delicata che racconta la vita in tutte le sue declinazioni, che mostra i legami che si creano e si alimentano, le vicissitudini quotidiane e i sogni forse irrealizzabili. La scrittura di Elisa Ruotolo è precisa e poetica, mai banale e si sente che ogni parola è stata scelta con cura per suonare insieme a tutte le altre. La storia poi si declina perfettamente con le belle immagini di Chiara Palillo. Elisa Ruotolo recupera la tradizione fiabesca delle storie di animali, senza pretese didascaliche ma con l’intento di raccontare semplicemente la vita. Dove troviamo la guerra, la morte ma anche la solidarietà, l’amicizia, il desiderio di scoprire il mondo, il tempo che passa diversamente per ognuno di noi. Un libro senza età da leggere insieme grandi e piccoli, lenti e veloci, prudenti e avventurosi.

Mohamed Mbougar Sarr, LA PIÙ RECONDITA MEMORIA DEGLI UOMINI, e/o, 2022 (traduzione di Alberto Bracci Testasecca)
“Ti do un consiglio, non cercare mai di dire di cosa parli un grande libro. O, se lo fai, dai l’unica risposta possibile: di niente. Un grande libro parla sempre e soltanto di niente, ma dentro c’è tutto”: il romanzo di Mohamed Mbougar Sarr, vincitore del Premio Goncourt 2021, risponde alla domanda cos’è la letteratura e lo fa anche ragionando sulla scrittura e la lettura stessa, ma soprattutto mostrando come le parole non abbiano davvero confini. La storia prende il via nel 2018 quando Diégane Latyr Faye, giovane scrittore senegalese arriva a Parigi e scopre l’esistenza de "Il labirinto del disumano", romanzo pubblicato nel 1938, ormai introvabile e dimenticato. Scoprire cosa è accaduto a Elimane, il suo autore, diventa l’ossessione di Diégane e ci porta in un viaggio intenso e pieno di incontri e avvenimenti tra Francia, Senegal, Argentina, Amsterdam. Come dice lo stesso protagonista parlando del libro di Elimane anche questa “è al tempo stesso una storia impossibile da raccontare, da dimenticare e da tacere”. Un romanzo che procura un piacere fisico e intellettuale insieme, che racconta di legami familiari, sesso, culture dominanti e ritorno alle origini, sogni, guerre e aspirazioni con un tono lucido e intenso e un velo di malinconica ironia. Guadagnandosi un posto di riguardo nella patria dei libri letti e amati: “Qual è quindi questa patria? La conosci, è chiaramente la patria dei libri, i libri letti e amati, i libri letti e maledetti, i libri che sogniamo di scrivere, i libri insignificanti che abbiamo dimenticato e non sappiamo più nemmeno se un giorno li abbiamo aperti, i libri che sosteniamo di aver letto, i libri che non leggeremo mai ma dai quali non ci separeremmo per niente al mondo, i libri che aspettano la loro ora in una notte paziente, prima del crepuscolo delle letture dell’alba... sarò cittadina di questa patria, giurerò fedeltà a quel reame, il reame della biblioteca”. Così in ogni biblioteca bisogna dare cittadinanza a questo straordinario romanzo.

Jonathan Coe, BOURNVILLE, Feltrinelli, 2022 (traduzione di Mariagiulia Castagnone)
Non a caso è una donna, Mary, che incontriamo a undici anni mentre ascolta in piazza a Bournville, un sobborgo di Birmingham, il discorso alla radio di Winston Churchill che annuncia la fine della guerra, il filo conduttore del nuovo romanzo di Jonathan Coe. La cornice della storia prende il via all’inizio di quella che può essere ormai chiamata “l’era covid” quando troviamo Mary ormai anziana ma sempre autonoma alle prese con le domande del figlio musicista Peter, ossessionato dalla storia della sua famiglia: “Aveva cercato negli archivi online e setacciato le carte a casa di sua madre ogni volta che le faceva visita, ma la risorsa a cui avrebbe voluto attingere era la sua memoria, e questo si stava rivelando un lavoro difficile. Non perché la memoria si stesse affievolendo, ma perché il passato era un argomento che sembrava non avere alcun interesse per lei. Le poche briciole di informazione che riusciva a estrarle gli venivano offerte a malincuore eppure era l’ultima sopravvissuta della sua generazione, l’unica in grado di ricordare storie di famiglia risalenti agli Anni Quaranta e Cinquanta”. Il romanzo prende quindi il via nel 1945 nella piccola cittadina dove si produce il tradizionale cioccolato Cadbury. Il "Quatuor pour la fine du Temps" di Olivier Messiaen è la colonna sonora del libro perché è della fine di un mondo o di più mondi che ci racconta: la fine della guerra e l’inizio del lungo regno della regina Elisabetta II, il matrimonio di Carlo e la morte di Diana, L’Unione Europea e la brexit. Ci sono personaggi come il marito di Mary che non si rassegnano a nuove modalità di vita e i giovani che cercano altri futuri possibili. Come sempre lo scrittore inglese ci regale una grande opera narrativa che è anche un affresco politico e sociale del suo paese e della nostra storia più recente. Un romanzo anche femminista che con partecipazione e ironia ci invita a guardare avanti grazie allo sguardo dei giovani e delle donne.

Frances Greenslade, RED FOX ROAD, Keller, 2022 (traduzione di Elvira Grassi)
“A scienze avevo imparato un sacco di cose sulle foreste. Ms Fineday ci aveva portato nei boschi e fatto memorizzare le varie specie facendocele ricopiare a matita... Prima di diventare insegnante, Ms Fineday per lavoro spegneva gli incendi nei boschi, ecco perché conosceva i nomi di tutti gli alberi di questa parte delle Montagne Rocciose... Ogni foresta ha una sua storia, diceva, e se questa storia la studiate, non solo la apprezzerete di più ma riuscirete anche a sopravviverci, in caso di necessità”: le parole dell’amata insegnante della tredicenne Francie, protagonista di RED FOX ROAD, l’avvincente romanzo di Frances Greenslade, sembrano profetiche. La nostra eroina amante dell’avventura si troverà infatti a doversela cavare da sola in mezzo a una fitta foresta. Per colpa di una scorciatoia presa con leggerezza, di una strada a dir poco accidentata e della rottura della pompa dell’olio. Prima il padre e poi la madre di Francie cercano di ritrovare la statale per avvisare i soccorsi ma non ritornano nei tempi stabiliti. Quindi la ragazza deve mettere in pratica tutti gli insegnamenti della sua insegnante e armarsi di coraggio per cercare acqua, cibo e una via di uscita. RED FOX ROAD non è solo un incalzante e appassionante romanzo di avventura, ma tiene legato chi legge anche grazie al profondo racconto delle dinamiche e dei sentimenti della famiglia di Francie, segnata dalla morte della gemella della ragazza avvenuta cinque anni prima e del complicato rapporto madre-figlia. Così il perdersi è anche metafora del lutto e della difficile strada per venire a patti con il dolore. Come negli altri romanzi della scrittrice canadese non manca un affascinante descrizione del mondo naturale e del legame che si instaura tra la giovane protagonista e gli altri esseri viventi: “Tutte le stelle morte e quelle vive, le civette, le formiche, gli orsi, le volpi e i cervi, tutte le creature di tutte quelle galassie, miliardi di altri esseri. Io ero soltanto una di loro. Né più ne meno importante, solo una di loro”.

Aleksandar Hemon, I MIEI GENITORI / TUTTO QUESTO NON TI APPARTIENE, Crocetti, 2022 (traduzione di Gianni Pannofino)
“La nostra storia è la storia dell’implacabile nostalgia per una casa a cui non si potrà mai più tornare”: è difficile restituire a parole la ricchezza del nuovo libro di Aleksandar Hemon che racchiude due storie che si passano il testimone attraverso le foto di famiglia al centro del volume. I MIEI GENITORI e TUTTO QUESTO NON TI APPARTIENE sono da subito una testimonianza di vita vera attraverso la letteratura, dove troviamo l’infanzia dello scrittore e le esistenze dei suoi genitori ma anche tanti livelli di lettura e di riflessione. Hemon ci accompagna in un viaggio nella recente storia dei Balcani e quindi europea (“La vera storia può dispiegarsi solo a livello personale. È difficile oggi comprendere l’entità di quel salto verso una vita migliore che gente come mia madre ha sperimentato nella Jugoslavia di Tito. Nel 1948, sulla scia del cataclisma, il nuovo regime istituì la parità di genere e l’istruzione obbligatoria e gratuita, consentendo a una piccola contadina bosniaca, nata in una casa con il pavimento di terra, di studiare senza impedimenti economici...”) per portarci poi a provare quasi fisicamente cosa significa dover lasciare il proprio paese a causa della guerra: “Emigrando in Canada, ha perduto in senso figurato e letterale tutto ciò che l’aveva costituita come persona... Da un giorno all’altro lei non è più stata nessuno, dice spesso, niente”. Lo scrittore bosniaco ci regala un caldo e variegato memoir, dove troviamo i riti che ci fanno sentire a casa, il calore della lingua e del cibo, il rapporto spesso controverso tra le generazioni, il canto come espressione di appartenenza, ma anche considerazioni sulla scrittura e i destini che ci attraversano e un omaggio intenso e grato di un figlio ai propri genitori. Da un padre raccontatore di storie a una madre che ha saputo costruire e trasmettere un codice etico: “Non voglio ancora sapere dove troverò la saggezza e l’amore di cui avrò bisogno per restare a questo mondo quando loro se ne saranno andati. Dove li ritrovo più dei genitori come loro?”

Valeria Tron, L’EQUILIBRIO DELLE LUCCIOLE, Salani, 2022
“Le storie sono terra fertile e, come diceva tuo nonno, piene di contraddizioni per tenerci in equilibrio. Credi sia di poca importanza essere portatori di una ricchezza plurale? Gioele, quando ti chiedi perché io ami così tanto questa casa, ricorda che questa è la terra che mi ha guardata la prima volta. Mi ha dato un nome e una lingua, legandomi ad ambedue con nodi forti. Se è vero che ogni lingua assomiglia ai suoi portatori, allora la terra dove attecchisce è la scacchiera delle parole, e ogni bocca affamata di quelle parole per interpretarla diventerà libera due volte, di esistere e di dissentire”. Alla fine del suo romanzo d’esordio, Valeria Tron, cantautrice, illustratrice e artigiana del legno, ringrazia chi avrà cura delle sue storie dando loro tempo, slancio e voce. Si accoglie volentieri questo invito e si sente anche una calda gratitudine per un racconto che certo richiede un tempo e un ritmo adeguato a un luogo quasi senza tempo ma alla fine ripaga pienamente chi legge. Perché la scrittrice ci restituisce o meglio ci porta a vivere in un mondo quasi fiabesco, un pugno di case in pietra tra le montagne della Val Germanasca, dove ormai è rimasta a vivere solo Nanà, una tenace novantenne. Che però non è sola, ha intorno i fantasmi della sua famiglia, degli abitanti delle altre case di cui è diventata l’attenta custode, le storie del passato e a un certo punto Adelaide, la madre di Gioele che torna alle sue origini. In un romanzo di oggetti e rituali (“Nell’alchimia del quotidiano si riconoscono i sentimenti”), dove si respira il passato dei biscotti conservati per gli ospiti, della stufa a legna, del lavoro a maglia, del bagno del sabato, dei ricordi e delle fotografie riposti nelle scatole di latta e insieme la curiosità e la preoccupazione per il futuro, anche la lingua partecipa a questa commistione di passato e presente. C’è un passaggio di testimone tra le due protagoniste ma anche tra chi scrive e chi legge. Si ride e ci si commuove, si pensa e si riflette su come “ognuno è un germoglio sparso da venti e possibilità”.

Lidia Yuknavitch, Andreea Simionel, MALE A EST, Italo Svevo, 2022
MALE A EST rivela una nuova e interessante voce letteraria, che si distingue per il grande talento narrativo e la capacità di unire ritmo, efficacia e una lingua raffinata, raccontando una storia necessaria. Ci sono due paesi geograficamente vicini come l’Italia e la Romania ma in realtà molto diversi nel bene e nel male, secondo i parametri e gli occhi di chi guarda: “Mi fa schifo questo paese. Sembra un film in bianco e nero. Il resto del mondo è a colori. Il peggio è che nessuno lo sa. Nessuno sa di essere dentro un film in bianco e nero”. Così c’è chi emigra e nutre illusioni verso il cosiddetto Bel Paese, visto in televisione, che spesso vengono smentite. C’è una bambina che si sente straniera e per questo nega le sue origini (“Noi ci dobbiamo amalgamare, come le strisce di colore sulla carta. Noi dobbiamo stare nei contorni. Noi dobbiamo avere pronunce impeccabili. Noi dobbiamo smettere di esistere in una lingua, rinascere nell’altra. Noi ci dobbiamo integrare, diventare irriconoscibili”). Ci sono due mondi legati dai pacchi spediti e ricevuti, strategie di adattamento, sentimenti che vanno dalla rabbia alla nostalgia, dal rimpianto alla voglia di riscatto. E tutto passa attraverso le parole, quelle precise e ricche di significato del romanzo, ma soprattutto quelle che ci vogliono incasellare, limitare, omologare, sfidare, emarginare. Le parole degli oggetti e dei marchi, di quello che possediamo e che quindi pretende di definire chi siamo, ma anche quelle non dette, soprattutto all’interno della famiglia. Le parole sputate senza pensare, che ci vogliono definire e però non dicono le dolorose conseguenze di un nome storpiato o di un nominare banale e frutto di pregiudizi: “Qui, i malati terminali non sono quelli che muoiono, ma quelli che vanno via. Noi siamo malati di estero. Noi siamo malati di Italia, Spagna, Grecia, Inghilterra. Siamo malati di Europa. Non abbiamo più niente da dirci, niente da dire alle persone intorno. Non abbiamo più una lingua in cui dire, non abbiamo più intorno. Noi stiamo bene, non abbastanza bene. Noi abbiamo la data di scadenza”.

Joseph Ponthus, ALLA LINEA, Bompiani, 2022 (traduzione di Ileana Zagaglia)
“So che hai lavorato sodo per tutta la vita in particolare per pagarmi gli studi e hai fatto enormi sacrifici per permettermi di avere una buona istruzione com’è la mia credo. Forse pensi che sia uno spreco finire in fabbrica. Francamente non credo anzi al contrario. Quello che magari non sai è che è grazie a questi studi che resisto e scrivo”: ALLA LINEA di Joseph Ponthus è un esordio che è già considerato un libro di culto. Lo scrittore francese racconta con il ritmo della poesia gli anni di lavoro in fabbrica, dopo che con il trasferimento in Bretagna al seguito della moglie, non aveva trovato un lavoro nell’ambito dei suoi studi letterari e sociali e legati all’educazione. Si deve adattare a diversi contratti precari nel settore agroalimentare prima in una fabbrica che cuoce e conserva gamberetti, poi in una dove si realizzano bastoncini di pesce e infine in un mattatoio. Lavori pesanti fisicamente, ripetitivi ma che richiedono grande controllo e attenzione. Joseph Ponthus registra le varie mansioni, gli incontri con gli altri operai, l’attesa delle chiamate dell’agenzia interinale, il giorno di paga, i fine settimana di riposo che non riescono a spogliarsi della stanchezza e del pensiero che presto si dovrà tornare in fabbrica. E lo fa anche grazie alle parole di scrittori e poeti: “Il tempo di andare nella sala comune per un caffè / I corridoi le scale che sembrano non finire mai / Il tempo perduto / Caro Marcel ho trovato quello di cui andavi alla ricerca / Vieni in fabbrica te lo mostro subito / Il tempo perduto / Non avrai più bisogno di farla tanto lunga”, intervallando alla cronaca considerazioni mai banali sulla vita, l’amore, il lavoro manuale e non rinunciando mai a uno sguardo ironico e affettuoso insieme. La scelta della poesia restituire in pieno la fatica non solo fisica del lavoro, e le parole della letteratura - tra gli altri sono citati Dumas, Perec, Apollinaire, Shakespeare, Zola - risuonano nella mente del protagonista per dare voce ma anche conforto alle interminabili ore passate alla linea di produzione.

Hase Seishu, IL BAMBINO E IL CANE, Marsilio, 2022 (traduzione di Antonietta Pastore)
Un romanzo circolare che pian piano ti ingloba e ti fa sentire parte della storia: Hase Seishu in IL BAMBINO E IL CANE ci accompagna in un girone di varia umanità seguendo i passi delle zampe di Tamon, cane forse randagio che via via trova casa e amore. Così facciamo anche un viaggio nel Giappone contemporaneo, toccando con mano la crisi economica, la malattia, i danni dello tsunami, il rapporto uomo-donna, la coltivazione del riso, la natura delle montagne, abitate dai cinghiali. Il tutto in un romanzo alla fine poetico e consolatorio che trasuda umanità attraverso il rapporto con l’animale fedele per eccellenza: “È molto bravo. Stando con lui, avrete voglia di tenerlo e di farlo entrare nella vostra famiglia. Lui però ha già una famiglia, fate in modo che la ritrovi, per favore. Spero che chi leggerà queste parole proverà gli stessi sentimenti che provo io”. Così Tamon cambia casa, nome e momentaneo compagno di vita e ora si trova complice di un giovane uomo che per aiutare la madre malata accetta la proposta di una banda di rapinatori; uno di questi, Miguel sarà il suo padrone successivo sino a quando non incontra Taiki che passa le sue giornate a correre per le montagne. Sarà poi la volta di Miwa, che fa la prostituta per amore di un uomo che la tradisce e poi di Katano Yasichi, un anziano cacciatore che aspetta solo di morire. Sino a chiudere il cerchio a sud, dove Tamon rivolge sempre lo sguardo e ritrova il bambino del titolo. Come dice uno dei protagonisti del romanzo “Forse i cani hanno delle capacità straordinarie che gli essere umani non riescono nemmeno a immaginare” e la storia di Tamon lo dimostra ampiamente. Solo che Tamon, un incrocio tra un lupo e una razza giapponese, è una sorta di testimone che passa da esistenza a esistenza, illuminandone i sentimenti più reconditi: “Yaichi sapeva che i cani capivano le persone: erano delle creature speciali donate da Dio, o da Buddha, a quelle creature folli che erano gli uomini”.

Joan Silber, UN’IDEA DI PARADISO, 66thand2nd, 2022 (traduzione di Emilia Benghi)
“Avevo le mie idee circa un fine superiore, ma non erano abbastanza. Avrei potuto usarne di più. Nei primi anni dell’adolescenza andavo sempre alla stazione dei bus della mia città con l’intento di elemosinare i soldi del biglietto per Las Vegas... avevo desiderio di bellezza. Mi sedevo a fare i compiti su una panchina, poi andavo a casa”. Dopo “Tutte le conseguenze”, Joan Silber torna a indagare l’animo umano in UN’IDEA DI PARADISO, dove seguendo un lieve filo di Arianna ci immerge in un labirinto di storie ma soprattutto di personaggi alla ricerca del proprio paradiso personale. Partiamo con quello che ricorre più volte e che dispiega la sua esistenza dal primo all’ultimo racconto: Alice ama ballare e vuole cercare fortuna a Broadway ma intanto durante una crociera si innamora e si trasferisce in Francia. Il matrimonio naufraga e allora ritorna negli Stati Uniti per riprovare la carriera artistica ma anche qui non si sente più a casa. La ritroveremo ancora in Francia e con un amore più maturo. Nel mezzo troviamo Duncan, l’ambizioso insegnante di danza di Alice e le sue delusioni sentimentali; la poetessa Gaspara Stampa (“ma di tutti i poeti la sua preferita era Gaspara Stampa, l’italiana autrice dei sonetti che gli avevo sentito cantare. È una specie di versione cinquecentesta del blues, spiegò. L’amore l’ha fatta soffrire ma lei non demorde. Pensa che tutte le donne debbano invidiarle l’intensità con cui ama”) raccontata a Venezia nel Sedicesimo secolo per passare poi a un appassionato lettore di Rilke che si ritrova ad allevare un figlio non programmato. Ritorniamo nel passato con il racconto di una coppia che parte per occuparsi di una missione cattolica in Cina, per chiudere il cerchio con Giles, che in seguito alla morte della moglie cerca una nuova serenità nel buddismo. E qui ritroviamo Alice e il cerchio si chiude. Al di là della ricchezza dei personaggi, delle situazioni che si trovano a vivere, degli intrecci che via scopriamo nelle loro vite, la scrittrice americana mette in campo tutta la sua capacità narrativa, incantando il lettore con una prosa calda e avvolgente, quasi paradisiaca.

Yiyun Li, SE VADO VIA, NNE, 2022 (traduzione di Laura Noulian)
“Non ho nessun titolo accademico attaccato al mio nome, ma questo non mi impedisce di dichiarare di avere una laurea specialistica. Un dottorato in arte di vivere, ecco cos’ho”: Lilia, l’indimenticabile protagonista del romanzo di Yiyun Li ci conduce in un viaggio nei meandri più profondi della sua storia di vita, che diventa racconto universale di varia umanità. Anziana ma ancora lucida e autosufficiente, la donna dopo aver venduto la casa di famiglia si è ritirata in una casa di riposo. Ha avuto tre mariti, allevato cinque figli e può contare ben diciassette nipoti. Ma ci sono due nodi nella sua esistenza che l’hanno segnata: il suo amore segreto, Roland Bouley, con cui ha avuto una fugace relazione da giovanissima e di cui recupera un diario pubblicato postumo e la morte di Lucy la loro figlia di cui Roland non ha mai saputo niente. L’uomo infatti non saprà mai di avere una figlia e Lilia sposerà Gilbert che crescerà come sua la loro amata primogenita. La scrittrice cinostatunitense ci fa percorrere le esistenze di Lilia e Roland come due binari paralleli che solo poche volte si sono incrociati ma che non si sono mai persi. Due vite quasi in contrasto: dedicata alla famiglia quella della donna, girovaga e spesso inconcludente quella di Roland che si divide tra Sidelle e Hetty e poi sposa quest’ultima con cui è cresciuto dopo che è rimasto orfano dei genitori. Lilia è stanziale, Roland sempre insoddisfatto e alla perenne ricerca di qualcosa che non riesce a definire. Intanto scorriamo quasi un secolo di storia americana, gli Anni Trenta a New York, la famiglia di coloni e il ranch in cui è cresciuta Lilia, le guerre, in un viaggio intenso e arguto nella memoria: “Le parole non sono di grande aiuto quando si vuole ricordare qualcosa. Fin qui non ho mai fissato niente sulle pagine. Ma tutto quello che ho bisogno di ricordare... è con me... Non è solo che ho buona memoria. Io conservo le persone. Non per avidità. Non sono un’accumulatrice compulsiva. Le conservo perché mi piace vivere in mezzo a loro... Quello che non dimentichiamo diventa ciò che siamo”

Jacqueline Woodson, BAMBINA NERA SOGNA, Fandango, 2022 (traduzione di Chiara Baffa)
“È questo il cuore di questo libro: il mio passato, la mia gente, i miei ricordi, la mia storia”: in realtà in BAMBINA NERA SOGNA di Jacqueline Woodson, finalmente arrivato in Italia grazie a Fandango nella traduzione di Chiara Baffa, il memoir è solo il punto di partenza di un libro denso e lieve insieme, le cui storie fanno nascere via via sempre nuovi pensieri e considerazioni, sentimenti e incontri: “Allora le storie continuano a vivere / dentro la mia testa, ancora e ancora / finché il mondo reale non svanisce nella ninna nanna dei grilli / e dentro ai miei sogni”. Grazie alle parole della scrittrice americana, premio Andersen 2020, all’attivo più di 30 libri e numerose traduzioni, attraversiamo una parte di storia americana, dalla segregazione razziale alla lotta per i diritti dei neri, grazie alla storia di due famiglie, tra il South Carolina e New York, tra Sud e Nord degli Stati Uniti. Jacqueline cresce in mezzo a tante contraddizioni, a partire dall’unione e poi dalla separazione dei genitori; ma soprattutto trascorre la sua infanzia circondata di affetti e persone, dalla nonna materna seguace dei testimoni di Geova, sempre accogliente, agli insegnanti che guidano il suo talento e alla geniale sorella maggiore. E pian piano matura la consapevolezza che forse la passione per le storie farà di lei una scrittrice: “Non c’è niente di simile al mondo - una pagina bianchissima con e righe celeste chiaro. L’odore di una matita temperata / il suo dolce silenzio che finalmente un giorno si trasforma in lettere”. Così la giovane ragazzina con la testa piena di storie comincia ad osservare il mondo in cui si trova a vivere, a pensare a come funziona e soprattutto a come cambiarlo: “Vorrei scriverlo da qualche parte, che la rivoluzione è come una giostrina, e da qualche parte c’è sempre qualcuno che fa la storia. E magari per un attimo, anche noi siamo parte di quella storia”. Così BAMBINA NERA SOGNA ha il ritmo ammaliante e magico del racconto orale e insieme il potere rivelatore e salvifico della grande letteratura.

Sue Miller, MONOGAMIA, Fazi,2022 (traduzione di Martina Testa)
Un romanzo avvincente e accogliente che racconta la famiglia e i legami che si consolidano al suo interno, anche in maniera imprevedibile. Il fulcro di MONOGAMIA, il nuovo libro di Sue Miller pubblicato da Fazi nell’elegante ed efficace traduzione di Martina Testa è infatti l’amicizia tra la prima e la seconda moglie di Graham, libraio, appassionato di cibo e vini e sempre circondato di persone. Dopo essere stato lasciato da Frieda, con cui ha avuto il figlio Lucas, a causa dei suoi ripetuti tradimenti e dopo una serie di avventure, Graham incontra Annie, timida e riservata fotografa con cui rimane sposato per trent’anni. Dalla loro unione nascerà Sarah e la scrittrice americana è maestra nel farci entrare nell’animo dei personaggi, mostrando, attraverso la quotidianità, l’eccezionalità di ogni esistenza. Così nasce un legame forte tra le due mogli - come le chiama scherzosamente Graham - così diverse e all’inizio accomunate dalla figura dell’uomo e poi via via coinvolte in un rapporto di reciproca stima e affetto. Tanto che i rispettivi figli fanno riferimento a entrambe e paradossalmente trovano nell’una o nell’altra ascolto e corrispondenze che spesso mancano con la madre biologica. Così il romanzo si sposta dalla figura ingombrante non solo fisicamente di Graham alle due donne e ai percorsi di vita dei loro figli. Lucas si sposerà con una donna francese volitiva e affascinante mentre Sarah troverà a San Francisco il modo di esprimere le sue potenzialità in un’emittente radiofonica. Sue Miller riesce a delineare le complesse personalità di Frieda e Annie, contestualizzando il loro rapporto con Graham: così Frieda rappresenta il primo amore e le comuni aspirazioni giovanili, mentre Annie è l’amore più maturo e consapevole. Ma l’uomo straripante di idee, amicizie, eccessi, entusiasmo, calore umano, sarà davvero cambiato? Avrà trovato un freno alla sua vitalità anche sessuale? E Annie saprà fotografare la nuova realtà che si trova ad affrontare? Le risposte in un romanzo vero e nello stesso tempo sorprendente e imprevedibile.

Nana Ekvitimishvili, IL CAMPO DELLE PERE, Voland, 2022 (traduzione di Ruska Jorjoliani)
Grazie alle edizioni Voland arriva in Italia la voce di Nana Ekvtimishvili, conosciuta a livello internazionale per la sua attività di regista per cui è stata anche candidata agli Oscar. IL CAMPO DELLE PERE, tradotto da Ruska Jorjoliani, è il suo primo romanzo ed è entrato nella long list del Booker Prize 2021. Il libro prende il via con una notazione geografica che è anche storica e politica. Entriamo da subito infatti nella scuola-Convitto di sostegno per bambini con disabilità mentali che si trova nella periferia di Tblisi in una delle poche vie con un nome: “Chissà, a quei tempi, nel 1974, quale mente ha partorito l’idea di dare a una via della Georgia sovietica il nome di una città che si trova nella penisola dell’Ucraina, in Crimea; una città in cui, un bel giorno di ottobre del 1942, mentre una brezza increspava la superficie di un mare tenuto al caldo per tutta l’estate l’armata nazista aveva imprigionato e trucidato 160.000 persone”. La vicenda si svolge all’interno del Convitto, abitato in realtà non solo da bambine e bambini con difficoltà di apprendimento ma da piccoli rimasti orfani o abbandonati dai genitori. Come Lela: “Ora è come se tutto fosse immerso nel silenzio. Non ci sono più i nuovi iscritti, e della vecchia guardia è rimasta soltanto Lela. In questo momento si può dire che lei sia la più forte in tutta la scuola. Nessuno la può sopraffare, nessuno può avere la meglio su di lei. Ai tempi, quand’era piccola e si raccoglieva sotto le ali dei grandi, non poteva neanche immaginare che sarebbe giunto il giorno in cui non avrebbe più avuto paura di nessuno, nel Convitto”. Il punto di vista di Lela ci immerge in un romanzo desolante e insieme incredibilmente poetico. Da una parte soprusi, maltrattamenti, violenze, abbandoni nella “scuola dei ritardati”, dall’altra parte non mancano gesti di amore e solidarietà tra i piccoli ospiti ma anche dalle persone che abitano intorno al Convitto. E bastano dei visitatori esterni per avere una prova vivente che oltre la Georgia là fuori esiste un altro mondo e quindi un’altra possibilità di vita ma che si può scegliere anche di rimanere.

Espérance Hakuswimana, TUTTA INTERA, Einaudi, 2022
TUTTA INTERA, il titolo del romanzo di Espérance Haskuswimana, con la bellissima copertina di Andile Bokweni, è insieme un ossimoro, una dimostrazione di intenti, un percorso di vita, una ribellione sentita e un invito per tutti noi a non guardare solo alcuni pezzi del puzzle che compone la realtà. La storia che ci racconta la scrittrice italiana nata in Ruanda ha molte declinazioni e come la migliore letteratura, tante altre le troverà chi legge. Da una parte racconta spicchi di una storia che non sapevamo neppure che ci erano rimasti nascosti ma che ci riguardano; dall’altra fornisce una rappresentazione e un riconoscimento a chi aveva bisogno di rispecchiarsi in quelle storie per far sapere che esiste ed è parte integrante della società (“E se ci fossero anche nei libri della biblioteca della scuola queste storie che cercate? ... Ma profe, ma chi la mette Basilici dentro ai libri?”). Sara, la protagonista, si trova davanti una classe di ragazze e ragazzi che devono svolgere delle attività di recupero didattiche. Sono per lo più italiane e italiani di origine straniera e vivono al di là del fiume e i loro parenti lavorano alla raccolta delle pesche, l’oro rosa. Sara subisce lo sguardo di chi la considera diversa come accade a loro ma è cresciuta a Bellafonte ed è la nipote del padrone del frutteto. Ma allora da dove viene? Di chi è? Qual è il suo posto? Di fronte a queste domande ricorrenti e sbagliate, apparentemente banali ma profondamente discriminanti, il romanzo ci obbliga ad allargare lo sguardo, a guardare alla complessità dell’esistenza senza pregiudizi e falsi pietismi, a restituire ai giovani il presente e non la vaga promessa di un futuro (“Questi alunni hanno mondi fuori dai fogli da compilare, fuori dai seminterrati”). Attraverso una scrittura efficace e poetica, lieve e profonda, Espérance Haskuswimana ci parla del valore del nostro nome, dell’amicizia e della passione, della voglia di fuga e delle tante declinazione del fare famiglia, della responsabilità degli adulti e della bellezza delle storie. In cui ci immergiamo per capire anche noi stessi e il nostro posto nel mondo.

Lidia Yuknavitch, LA CRONOLOGIA DELL’ACQUA, Nottetempo, 2022 (traduzione di Alessandra Castellazzi)
“Tutti gli eventi della mia vita si intrecciano nuotando. Senza cronologia. Come nei sogni. Perciò se evoco il ricordo di una relazione o dell’andare in bicicletta o del mio amore per l’arte e la letteratura o la prima volta che bagnai le labbra d’alcol o di quanto adoravo mia sorella o del giorno in cui mio padre mi toccò per la prima volta – non c’è un senso lineare. Il linguaggio è una metafora dell’esperienza. È arbitrario quanto la massa di immagini caotiche che definiamo memoria; ma possiamo comporre frasi per narrativizzare la paura”: il romanzo della scrittrice americana Lidia Yuknavitch, LA CRONOLOGIA DELL’ACQUA, finalmente portato in Italia da Nottetempo nella efficace e poetica traduzione di Alessandra Castellazzi, racconta un’esistenza ordinaria e straordinaria insieme ma soprattutto mostra il potere evocativo della letteratura: “Più descrivi un ricordo, più aumenta la probabilità che tu stia inventando una storia che si addice alla tua vita, risolve il passato, crea una finzione con cui è possibile convivere. È quello che fanno gli scrittori...”. Ci sono genitori e figlie, talenti rinnegati, persone danneggiate che crescono pensando di non meritare niente e quindi si autoboicottano tutta la vita, la maternità e la paternità, il rifugio offerto da droga, sesso e alcol, il classismo e il desiderio di appartenere a un mondo che disprezzi, la passione per la lettura e per scrittrici e scrittori che non dànno speranze e per questo sono gli unici appigli rimasti, il corpo che sempre anticipa i pensieri e li mette in scena, che parla e anche sa ascoltare, e l’acqua che ti accoglie come nella placenta e nello stesso tempo ti avvia alla fine perché “nell’acqua, come nei libri – puoi abbandonare la tua vita”. Talento sportivo, legami familiari, amori, desideri e aspirazioni, critica letteraria, incontri di vita si intrecciano in un romanzo dove scrittura e storia si autoalimentano, confermando il talento di una grande scrittrice: “La scrittura, lei è il mio fuoco. Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte”.

Anja Kampmann, DOVE ARRIVANO LE ACQUE, Keller, 2022 (traduzione di Franco Filice)
Non si può non amare Waclaw, il protagonista di DOVE ARRIVANO LE ACQUE, il romanzo di Anja Kampmann, pubblicato da Keller nella traduzione di Franco Filice, che ci porta in giro in mezzo mondo prima sulle piattaforme petrolifere e poi con un vecchissimo fiorino in un viaggio a ritroso nelle sue origini. L’evento scatenante della storia è la morte di Matyas, l’amico con cui divideva la cabina ma anche le speranze per il futuro, che segna un punto di non ritorno, o meglio che costringe il giovane uomo a fermarsi e tornare indietro: “Waclaw se ne stava lì, disteso, e nel silenzio della cabina cominciò a raccontarlo a Milena, come se tutto ciò che diceva confluisse in una stoffa finemente intessuta e la paura fosse solo un filo sottile in quella trama, un solo filo, e non una paura che da quel momento in poi lo avrebbe sempre accompagnato, a ogni maledetto allarme”. Così dopo essersi fatto cucire un completo (“come se i vestiti fossero qualcosa di interiore... Pensò alla tosse del sarto, alla luce della lampada da tavolo. A come si cuce un tessuto, con una delicatezza che non usiamo con noi stessi”), Waclaw lascia Il Cairo per tornare in Europa: prima il paese natale di Matyas, l’Ungheria, poi Malta, l’Italia, la Svizzera e il paese minerario in Germania in cui è nato. Dal carbone al petrolio e in mezzo il sogno di paternità con Milena, gli incontri con uomini di ogni dove illusi e poi delusi da un lavoro estenuante e pericoloso (“non sai mai in anticipo qual è il prezzo da pagare. E soprattutto non sai quanto sei disposto a pagare. Non possiamo più recuperare le cose perdute”) per un romanzo che non ti lascia scampo e ti si insinua dentro in un’alternanza continua di disperazione e esaltazione. Si sente che la scrittrice tedesca è anche una poetessa perché riesce a restituire la poesia delle esistenze più sofferte senza tradirle ma anzi donando loro dignità letteraria, come la colomba che accompagna Waclaw nel suo viaggio: “A volte aveva la sensazione che quegli anni gli fossero stati strappati via come pezzi di argilla dal tornio di un vasaio toccato solo per un attimo mentre il centro rimaneva vuoto”.

Sharon Dodua Otoo, UNA STANZA PER ADA, NNE, 2022 (traduzione di Fabio Cremonesi)
“Almeno una volta nella vita vorrei entrare in una stanza ed essere vista solo come Elle. Capisci? In Ghana i bambini mi urlavano dietro “straniera!”, ricordi? E in Germania mi trattano come una straniera. Cosa vuol dire?”. Il romanzo di Sharon Dodua Otoo gioca tra reale e immaginario per raccontare il mondo in cui viviamo. Ha infatti la capacità di portare chi legge in un fantastico articolato e complesso, che sembra irreale e plausibile insieme. Sempre giocando tra metafora e realtà, la ricerca della stanza per Ada è una denuncia precisa e dolorosa verso la società in cui viviamo e la domanda che di fronte a tratti somatici ritenuti inusuali ci porta subito a chiedere: “Da dove vieni?”. “Tu non hai idea di che merda sia per me questa domanda, vero? ... In Ghana, Ada era diventata donna pian piano, quasi senza accorgersene. In Germania Ada diventò Nera di colpo e se ne accorse subito... Ad Accra, Ada era femminile, certo, ma anche una persona preziosa e amabile. A Berlino, era raro che fuori dal suo mondo qualcuno le mostrasse considerazione. Troppo spesso il suo corpo la tradiva prima ancora che lei riuscisse ad aprire bocca”. Ma il romanzo della scrittrice inglese che qui scrive in tedesco usa le storie per mostrare le radici e l’assurdità di queste discriminazioni e nello stesso ci porta in un viaggio letterario dove alle voci delle protagoniste si alternano quelle degli oggetti, un battente della porta, una stanza e, non a caso, un passaporto inglese. Sharon Dodua Otoo usa la scrittura come una macchina del tempo, trasportandoci dal Ghana del XV secolo alla Londra dell’Ottocento, sino al campo di concentramento di Mittelbau-Dora e alla Berlino dei nostri giorni, senza mai perderci ma anzi facendoci vivere tante esistenze contemporaneamente. Grazie a una scrittura sicura, musicale, multicromatica e a riferimenti letterari più o meno svelati, dalla stanza di Virginia Woolf alle Sdentate che richiamano il coro della tragedia greca. Come sempre magistrale la traduzione di Fabio Cremonesi arricchita dalla nota finale, dove ci illumina sulla lingua di Otoo.

Itamar Orlev, CANAGLIA, Giuntina, 2022, (traduzione di Silvia Pin)
“Lo guardai, osservai quell’uomo, quell’uomo che era mio padre. Un edonista polacco che aveva trascorso la vita scopando, picchiando e uccidendo... Se fosse nato in un ambiente diverso, in uno Stato diverso, in un’epoca diversa, sarebbe potuto essere uno straordinario libertino, chissà, buon amico del marchese de Sade, ma era solo un bandito polacco, che dalle fogne di Majdanek era finito nel lerciume dei quartieri poveri di Wroclaw”: la CANAGLIA del titolo è Stefan, il padre di Tadek, scrittore fallito, che, contro il parere della madre e dei fratelli, che lasciando la Polonia hanno tagliato i ponti con il passato, parte da Israele per ritrovare il padre, ricoverato in una casa di riposo per reduci di guerra a Varsavia. L’incontro è insieme straziante e deludente e Orlev è bravissimo a far dialogare a distanza i racconti e i ricordi del vecchio Stefan con quelli della madre, a cui vengono riportati al ritorno in Israele del figlio. Un espediente narrativo che crea un dialogo a distanza e integra notizie e punti di vista sul passato. “Passiamo tutta la vita a cercare di ottenere un certo qual riconoscimento da parte di nostro padre, e... la maggior parte di noi non riesce ad ottenerlo. Poco importa quanto siano stronzi e riprovevoli, lo cerchiamo ancora, come quando eravamo bambini”: Tadek non riesce a staccarsi da questo meccanismo perverso e sembra cercare le ragioni del suo fallimento nella figura paterna. In realtà torna a casa con una maggiore consapevolezza del peso della guerra e del passato sul presente della sua famiglia, sull’antisemitismo più o meno latente, sui cambi repentini di regime e sul perché servano due bottiglie di vodka al giorno al padre per tirare avanti. “Quando la vita si svuota del suo contenuto, tutto diventa più chiaro. Eppure lo sguardo resta lo stesso, lo sguardo di un bambino sul volto di un adulto che, di notte, in una casa vuota, resta nudo davanti allo specchio dopo essere uscito dalla doccia. Ecco cosa resta. Questo corpo e questo volto nascosto dietro alla barba, il corpo e il volto di un uomo che, d’improvviso, sembra una copia sbiadita di suo padre”.

Adrian Bravi, VERDE ELDORADO, Nutrimenti, 2022
Adrian Bravi ha la capacità di raccontare l’umanità, di fartene sentire parte nel bene e nel male, in romanzi sempre diversi per ambientazione e storia. In VERDE ELDORADO, appena pubblicato da Nutrimenti con una copertina raffinata ed allusiva, ci porta in viaggio sull’ammiraglia di Sebastiano Caboto diretta in Indonesia, ma che alla fine troveremo a risalire il fiume Paraguay. Ma l’ambientazione storica accurata e non casuale rivive grazie ai personaggi della storia e in particolare al protagonista Ugolino, rimasto gravemente ustionato nell’incendio del negozio di preziosi tessuti del padre nella Venezia del 1526. Adrian Bravi riesce con poche pagine a raccontarci il luogo d’origine e la famiglia del giovane protagonista, la preoccupazione del padre per questo figlio rimasto sfigurato che cela il volto con un cappuccio di pelle, tanto da decidere di imbarcarlo appunto nella spedizione di Caboto. Bravi riesce a restituire il clima della spedizione, il senso dell’avventura e la paura dell’ignoto, i sogni, le ambizioni, il desiderio di ricchezza, i legami che si creano tra i marinai, ma anche le dinamiche violente e i soprusi in un ambiente chiuso e spietato. Fino a quando Ugolino non verrà catturato da una tribù di Indios e lì comincia un’altra storia. Quello che fa lo scrittore è raccontare spaccati di Storia, rendendoli vivi e in qualche modo contemporanei, senza tradirli. Che poi è il senso della letteratura. Viviamo la vita di Ugolino e nello stesso tempo riflettiamo sulla civiltà occidentale, su cosa è davvero civile, sul significato profondo della lingua che parliamo, sui linguaggi che non hanno bisogno di parole, sugli sguardi che cambiano anche rispetto a un viso segnato dal fuoco, sulla nostalgia e il senso della famiglia, sul rapporto con la natura, sulla capacità che stiamo perdendo di ampliare i punti di vista e sui pregiudizi assoluti che non riusciamo a scardinare. Come sempre lo scrittore italo-argentino ci regala una lingua musicale, antica e moderna insieme, che sa raccontare la poesia della vita e insieme la sua inevitabile durezza.

Ruth Ozeki, IL LIBRO DELLA FORMA E DEL VUOTO, e/o, 2022 (traduzione di Tiziana Lo Porto)
“Che cos’è una storia prima che diventi parole? Nuda esperienza potrebbe rispondere un monaco buddhista. Pura presenza. La sensazione, fugace e inafferrabile, di essere un ragazzo, di perdere un padre. In quanto libri, non è una sensazione che conosciamo. L’unica cosa che conosciamo sono i pensieri che sorgono sulla scia della nuda esperienza, come ombre, o echi, che danno voce a ciò che non è più. E dopo che questi pensieri diventano parole, e le parole diventano storie, cosa resta della nuda esperienza in sé? Niente, potrebbe dire il monaco. Tutto ciò che rimane è la storia, come un esoscheletro dopo la muta o un guscio vuoto”: un ragazzino, una biblioteca, una casa piena di cose, un tempio buddhista, tante le storie che si intrecciano nel nuovo libro della scrittrice canadese Ruth Ozeki. IL LIBRO DELLA FORMA E DEL VUOTO è infatti un viaggio coinvolgente che trascina il lettore nell’esistenza di Benny, un ragazzino di tredici anni, che ha perso il padre in un incidente paradossale e subisce il disorientamento della madre. A un certo punto percepisce le voci degli oggetti che lo circondano, ne sente sentimenti ed emozioni, non riesce a regolare il flusso dei suoi pensieri. Nello stesso tempo la madre cerca conforto proprio negli oggetti, li accoglie in casa, li accudisce, li colleziona. L’unico luogo in cui Benny sente placarsi il rumore delle voci è la biblioteca pubblica dove incontra i suoi unici amici. Il romanzo di Ruth Ozeki è una ben orchestrata polifonia di voci, un dialogo continuo tra essere e avere, ordine e disordine, reale e immaginario, materialismo e spiritualità. L’autrice racconta il nostro mondo senza drastici giudizi ma con poesia ed ironia insieme, attivando al massimo la sua grande capacità affabulatoria. Sono tantissime le domande e tanti i filoni narrativi, dal valore della lettura al disagio mentale, dai cambiamenti climatici alla rivoluzione del digitale, dalla forza delle parole alla magia dell’innamoramento e dell’amore. Una lettura profonda e appassionante, piena delle voci degli scrittori e dei filosofi, con in sottofondo la musica jazz.

Bianca Pitzorno, DONNA CON LIBRO, Salani, 2022
“Questo libro non vuol essere un saggio sulla lettura né tantomeno sulla letteratura, ma una sorta di memoir, una galoppata tra i ricordi, una serie di riflessioni a ruota libera sui libri che in epoche diverse sono entrati nella mia vita e l’hanno influenzata. Considerato che a sette anni già leggevo correntemente e sto per compierne ottanta, un tempo lunghissimo. Anche se uno dei maggiori rimpianti che mi porterò dietro è quello di non aver potuto leggere tutti i libri che avrei voluto”: in realtà il libro di Bianca Pitzorno DONNA CON LIBRO, appena pubblicato nei saggi Salani, in occasione dei 160 anni della casa editrice, è molte cose come le tante letture che ci offre un’opera letteraria. Così possiamo leggerlo come un romanzo di formazione anche attraverso i libri ma soprattutto il rapporto con i lettori; come la storia di una lettrice e scrittrice di talento; come uno spaccato di storia italiana, a partire dal dopoguerra; come un catalogo ragionato e appassionato di consigli di lettura. Ognuno potrà magari trovare altre strade all’interno di questo autoritratto con libri. Che prende il via da una bambina attratta sin da piccola dalla pagina scritta e che cresce in una famiglia dove non mancano i libri ma soprattutto sono più o meno tutti appassionati lettori. Tanto che la libertà e la condivisione di lettura vissuta in famiglia diventa quasi un ostacolo nel rigido ordinamento scolastico. Via via Bianca Pitzorno racconta i suoi incontri letterari che si intersecano con il suo percorso di vita. Ed è molto interessante vedere il meccanismo di reciproca ispirazione e identificazione che si innesca: da una parte la lettura dà alla giovane Bianca diversi punti di vista e nuove consapevolezze anche riguardo a come relazionarsi con il mondo degli adulti; dall’altra, la visione della realtà serve da cartina di tornasole per il modo in cui scrittrici e scrittori rappresentano il mondo. Così si aprono innumerevoli prospettive, non solo di lettura, perché in questa autobiografia di lettrice non mancano neppure quelli che non amano leggere. Perché, molto probabilmente non hanno scoperto “la bellezza del conoscere e del partecipare, sia pure astrattamente, ad altre vite”.

Narine Abgarjan, SIMON, Brioschi, 2022 (Traduzione di Claudia Zonghetti)
SIMON è il nuovo romanzo dell’autrice pluripremiata di E DAL CIELO CADDERO TRE MELE, come sempre pubblicato in Italia da Francesco Brioschi editore. Narine Abgarjan con una scrittura tersa e intensa, essenziale e ricca insieme, e con una calda ironia che avvolge tutti i personaggi della storia, ci porta intorno alla bara di Simon, il giorno del suo funerale con le orecchie diventate viola e difficili da nascondere. Alla fine della cerimonia rimangono le vere protagoniste del romanzo, le quattro donne della sua vita. Una per una si raccontano e così ricostruiamo i tasselli dell’esistenza di Simon ma anche di Berd, il villaggio armeno dove tutti abitano e via via sullo sfondo ma non purtroppo ininfluenti le vicende storiche, dal genocidio alle guerre mondiali sino all’invasione sovietica. Il romanzo della scrittrice armena è prima di tutto il racconto di quattro grandi storie d’amore, diverse per le circostanze e le stagioni della vita di Simon ma ugualmente uniche. Come uniche sono le donne protagoniste che Abgarjan sa ritrarre magnificamente, dosando poesia e ironia, seguendole nel percorso di vita oltre che in relazione a Simon. Conosciamo così il suo primo amore Susanna con la quale sembrava delinearsi un futuro radioso; poi Eliza che grazie all’amore di Simon ha ripreso a cantare; Sofia da cui ha inaspettatamente avuto una bambina e Silvia, rinchiusa nella sua sofferenza. E sino alla fine, quando il cerchio si chiude, non sappiamo veramente perché ha sposato Melania per poi tradirla ben tre volte. Gli abitanti di Berd sono una sorta di coro greco del romanzo e attraverso i loro commenti e i pettegolezzi veniamo a conoscenza dei legami familiari, delle liti e delle discordie, degli amori e delle amicizie ma soprattutto del ruolo centrale ma non riconosciuto delle donne nella società: “Quanto alla gente di Berd, discuteva spesso con aria mesta dei ricami bizzarri che la provvidenza può tracciare sulla tela della vita. Nessuno dubitava che la breve storia di molti anni prima fra Simon e Sofja fosse intesa a concludersi dopo diverse giravolte con quel finale amarissimo. A nessuno, però, passo mai per la testa di vedere in quel finale amarissimo un qualche giudizio divino. Perché giudizio non può esserci, quando è proprio di questi giorni tristi, felici o pieni di sofferenza che è fatta la vita su questa terra”.

Yewande Omotoso, UN LUTTO INSOLITO, 66thand2nd, 2022 (traduzione di Emilia Benghi)
Dopo LA SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO, l’esordio con cui si è aggiudicata il South African Literary Award, Yewande Omotoso, con UN LUTTO INSOLITO, pubblicato come il precedente in Italia da 66thand2nd nella traduzione di Emilia Benghi, torna a raccontare le complesse dinamiche familiari. Siamo ancora in Sudafrica anche se la protagonista ci vive in realtà da dieci anni, da quando il marito è stato assunto all’ Università di Città del Capo. Lasciando la Nigeria, Mojisola abbandona anche l’ultima speranza di portare a termine il suo incarico di ricerca in ambito botanico e si rassegna a fare la moglie e la madre. La piccola Yinka però, arrivata quasi a sorpresa dopo cinque anni di matrimonio e rimasta figlia unica, non le rende il compito facile. E il marito comincia a tradirla ripetutamente. Eppure la donna si arrende a una quotidianità che sembra inevitabile, da quando ha conosciuto Titus all’università e l’ha sposato. Neppure la scoperta di un segreto ben celato nella sua famiglia sembra scuoterla. Sino a quando la tragedia della morte di Yinka non sconvolge la sua vita e dopo aver corso per ore per cercare di sfuggire al dolore Mojisola va a Johannesburg dove la figlia viveva da alcuni mesi e si rinchiude nel suo appartamento per scoprire cosa abbia spinto la ragazza di 23 anni a togliersi la vita. Qui prima si scontra poi si allea con Zelda la padrona di casa e cerca di ricomporre il complicato groviglio della vita della figlia. Yewande Omotoso è una grande narratrice di esistenze, sa indagare a fondo i suoi personaggi, illuminare gli imperscrutabili e infiniti meandri della maternità, la complessità del rapporto amoroso, le infinite declinazioni del desiderio sessuale, le maschere che volenti o nolenti ci portiamo addosso, l’assoluta imprevedibilità dei comportamenti umani. Anche se poi “... in genere la vita ha un andamento circolare, si torna sempre allo stesso punto per quanti giri si facciano, grandi e piccoli; se si ha la fortuna si procede a spirali, con una certa progressione, e se si ha una sfortuna incredibile si segue una lunga, interminabile, linea retta”.

Anne Pauly, PRIMA CHE MI SFUGGA, L’orma, 2022 (traduzione di Marta Rizzo)
“La vera personalità di mio padre, spogliata dai fetidi stracci dell’alcool, era riemersa: quella di un uomo contemplativo ma goffo, gentile ma rozzo, generoso ma egocentrico, divorato dall’ansia e dalla timidezza, incredibilmente impacciato. Un dilettante della vita”: la protagonista di PRIMA CHE MI SFUGGA si racconta a partire dalla sera in cui muore il padre. Insieme al fratello si ritrova in auto dopo aver lasciato l’ospedale. Da lì iniziano da una parte una serie di incombenze pratiche e burocratiche che devono assolvere, dall’altra il filo della memoria si riavvolge per riguardare all’esistenza di un uomo controverso. Che ha segnato le vite dei due figli ma soprattutto della moglie che viene ricordata soprattutto per l’aura quasi di santità che la circonda: “Lo diceva la panettiera, lo diceva la vicina, lo diceva il prete e persino un’anziana signora di Carrieres a cui avevamo dato uno strappo. Ci saremmo ricordati più di lei che di lui, di colei che aveva portato il fardello più che del fardello stesso”. La scrittrice francese che con il suo romanzo d’esordio ha vinto numerosi premi, ripercorre i giorni che seguono alla morte, mostrando pensieri e sentimenti ma anche situazioni assurde che rasentano il comico. Mettendo in luce le relazioni familiari che non smettono di esistere neppure con la scomparsa fisica dei protagonisti: “Quando una persona cara scompare, di lei resta una materia sottile e impalpabile: un’assenza che possiamo percepire come una presenza e il cui splendore non potrà mai essere offuscato Ma ciò non toglie nulla al dolore che bisogna affrontare per proseguire sulla propria strada. Non esiste un’età giusta per sentirsi orfani”. Il libro breve e intenso di Anne Pauly riesce a raccontare il rapporto tra genitori e figli, la complessità dei rapporti tra fratelli a partire dalla diversa percezione dei limiti dei propri genitori, la perdita ma anche gli oggetti, i ricordi, i racconti di vita che rimangono.

Cara Wall, AMATISSIMI, Fazi, 2022, (traduzione di di Silvia Castoldi)
“Come suo padre, aveva quasi sempre creduto che anche le ferite più profonde potessero rimarginarsi, che Dio guarisse ogni parte di noi come la pelle: per quanto netto sia il taglio, un giorno si richiuderà e lascerà solo una cicatrice”: nel suo romanzo d’esordio la giovane scrittrice americana Cara Wall ci racconta la storia di due ministri del culto e insieme uno spaccato di storia degli Stati Uniti a partire dagli Anni Cinquanta. Da subito quello che colpisce è la scrittura, così precisa e avvolgente, in qualche modo rassicurante, perché già dalle prime pagine ti preannuncia di essere di fronte a una bella storia raccontata bene. La scrittrice americana ci porta al Greenwich Village negli Anni Sessanta, dove nella Chiesa Presbiteriana Charles e James sono i giovani pastori chiamati ad occuparsi insieme dei fedeli proprio perché così diversi per origini e vocazione. Percorriamo le loro storie di vita, il rapporto con la famiglia di nascita, l’incontro con le loro future mogli che dovranno per forza di cose condividere la loro missione. Anche qui due donne quasi agli antipodi: “Era quella la differenza tra loro due, l’architettura fondamentale che Nan non era mai riuscita ad espugnare. Lei era cedevole, Lily inflessibile. Lei oscillava, Lily era un filo a piombo”. Il romanzo gioca molto sul rapporto tra Nan, dall’infanzia felice e da una fede salda e Lily, troppo ferita dalla vita, diffidente anche sull’esistenza di Dio, ma sa ritrarle a tutto tondo, senza fossilizzarle e anzi scoprendo tutte le declinazioni del loro essere nel mondo. AMATISSIMI sa raccontare senza banalità e senza noia due matrimoni diversi ma ugualmente riusciti, l’amicizia che riconosce la diversità come un necessario complemento personale anche se a volte può essere complicato e la fede come una lotta e una conquista quotidiane. Un romanzo dal sapore classico e insieme moderno, che sembra accompagnare chi legge verso un sentiero tranquillo e invece riesce sempre a sorprendere, che sa scrutare nell’intimo più profondo dei quattro protagonisti e nello stesso tempo raccontarti il clima politico e sociale della New York dagli Anni Sessanta in poi.

Freeman’s, CAMBIAMENTO, Black Coffee, 2022
“Dalle cellule del nostro organismo sino alla nazione che chiamiamo patria, il cambiamento definisce i parametri della nostra vita. Ci segna irrimediabilmente e ci definisce anche in base a ciò a cui opponiamo resistenza. A plasmarci è il modo a cui reagiamo agli eventi, in cui ci adattiamo a ciò che siamo costretti ad accettare. Nato tra gli strascichi della peggior pandemia globale dai tempi della crisi di AIDS ancora in corso, il numero di Freeman’s che avete in mano raccoglie saggi, storie, poesie e dispacci da questo fronte in perpetuo movimento”: scorrere i nomi degli autori che compongono la nuova antologia curata da John Freeman, intitolata CAMBIAMENTO e come sempre pubblicata con grande cura dalle edizioni Black Coffee, è come fare un giro del mondo, non solo letterario. Non tanto per la varietà della provenienza geografica delle scrittrici e degli scrittori coinvolti ma anche per la visione del mondo che ci regalano le loro parole. Come sempre il critico e poeta americano costruisce un puzzle composito dove troviamo voci note come per esempio quelle di Ocean Vuong, Aleksandar Hemon, Yoko Ogawa, Kamel Daoud, Lina Merouane insieme a nomi meno conosciuti ma che è necessario leggere e conoscere. Si alternano anche i generi, con una prevalenza del racconto anche nella forma del corto, ma non possono mancare come sempre la poesia, riflessioni politiche e filosofiche, i memoir. La rivista offre la preziosa occasione di ampliare le nostre letture, portandoci a conoscere lo scrittore eritreo Sulaiman Addonia, la poetessa bielorussa Julia Cimafiejeva, l’autrice e traduttrice libanese Lina Mounzer. Ma ci permette anche di avere un punto di vista privilegiato grazie alla letteratura sulla storia e anche sulla situazione attuale di molti paesi tra cui gli Stati Uniti. Possiamo seguire l’ordine in cui John Freeman l’ha composta partendo da sette corti d’autore, uno più coinvolgente dell’altro, ma non è certo proibito seguire un ordine personale, farsi trascinare da spunti momentanei come anche dalle nostre assonanze e curiosità di lettori. Che non verranno deluse.

Hans Tuzzi, MA COS’È QUESTO NULLA?, Bollati Boringhieri, 2022
“Un libro sul Nulla, il mondo delle cose che potrebbero essere e non sono... E del resto pensi ad architettura musica danza canto: il vuoto, il nulla è l’indispensabile atto di sospensione che accompagna il movimento, il flusso. È necessario al tutto. Tutto inizia col Nulla e si conclude nel Nulla. Cosa vi è di più tangibile del Nulla?”: dopo vent’ anni dalla prima inchiesta e diciannove avventure, Hans Tuzzi licenzia Norberto Melis. Ci sono stati molti cambiamenti nella vita del commissario milanese, divenuto poi dirigente. Ora ha addirittura lasciato la polizia e anticipato la pensione anche in seguito alla perdita dei suoi riferimenti affettivi, ma soprattutto profondamente deluso dal sistema e dalla politica. Viene però ingaggiato come investigatore da un influente funzionario statale e facendosi passare per un giornalista sulle tracce di un delitto irrisolto si ritrova in una città di provincia del Triveneto dove otto anni prima è stata uccisa una diciannovenne nella casa dove faceva la babysitter. Al di dell’indagine, come sempre intrigante e precisa, il romanzo ancora una volta conferma come Hans Tuzzi sia un grande scrittore che punta come sempre in alto con tutte le armi letterarie possibili. Il romanzo è un concentrato e una giostra di riferimenti di tutti i generi con una lingua raffinata ed efficace e sembra riassumere la declinazione delle tante anime di Hans Tuzzi, compresa quella umoristica. Tante citazioni e riflessioni, dalla letteratura alla musica, dalla storia alla politica a comporre anche uno spaccato impietoso ma vero del nostro Paese. Che non risparmia le grandi capitali del potere come Roma e Milano ma neppure la provincia. È qui infatti che cade ogni illusione, l’idea del ritorno a un’esistenza idealmente più umana, mentre in realtà potere e sete di denaro non hanno purtroppo confini geografici. Tutto questo in un giallo riuscito dove Tuzzi non trascura nessun personaggio della trama. Che tra loro si nasconda il protagonista di una nuova serie?

Amor Towles, LINCOLN HIGHWAY, Neri Pozza, 2021 (traduzione di Alessandra Maestrini)
Con LINCOLN HIGHWAY Amor Towles ci offre una straordinaria versione del grande romanzo americano con i suoi immancabili ingredienti: il viaggio on the road, l’avventura, gli incontri, il racconto di formazione, il rapporto genitori-figli, la speranza per il futuro e la pesante eredità del passato. Siamo in Nebraska nel 1954 e Emmett torna dal carcere minorile di Salina a causa della morte del padre. Trova il fratello minore Billy, la fattoria ormai persa e l’auto che miracolosamente si è salvata dal fallimento. Decide così di cercare fortuna in Texas con un progetto immobiliare ma Billy non è d’accordo e vuole andare in California per cercare la madre, che li ha abbandonati quando erano ancora piccoli e percorrere così la Lincoln Highway che dagli Anni Dieci collega New York a San Francisco. I loro piani vengono sconvolti dall’arrivo di Duchessa e Woolly, compagni di prigione di Emmett ed evasi da Salina, che li dirottano verso New York, ma in direzione della costa atlantica. Da qui si susseguono incontri, incidenti, peregrinazioni, imbrogli, illusioni, raccontati nell’arco di dieci giorni. Lo scrittore americano orchestra sapientemente tutti i suoi personaggi, dando loro voce a turno, e creando una tensione sempre crescente. Nel romanzo protagonisti sono insieme i giovani e la gioventù, sentita come un’energia e un’occasione di riscatto, con le sue aspirazioni e pulsioni vitali ma anche con la pesante zavorra di infanzie rubate, come sono quelle di Duchessa e Woolly, pur in famiglie di estrazione sociale molto diversa. Poche le figure femminili: una, la madre di Emmett e Billy se ne è andata, un’altra, Sally, la giovane vicina di casa che si è occupata di Billy, non li vuole perdere, ma lasciando la casa del padre cerca anche una sua indipendenza. Sicuramente Towles è un maestro nel raccontare le dinamiche familiari e la difficile eredità che i giovani della storia si trovano ad affrontare, dal padre sognatore dei due fratelli, al delinquente non gentiluomo di Duchessa, a quello assente di Woolly. Padri e figli lontani come le due coste degli Stati Uniti e una strada lunga e accidentata in mezzo.

Antonio Castronuovo, DIZIONARIO DEL BIBLIOMANE, Sellerio, 2021
“Questo libro racconta una nutrita serie di fatti inerenti all’amore per i libri, e tutti comprovano che si tratta di un mondo zeppo di ossessioni, frenesie, capricci e irragionevoli stramberie”: DIZIONARIO DEL BIBLIOMANE di Antonio Castronuovo pubblicato da Sellerio prende il via appunto dalle varie forme di passione per i libri e proprio per questo è quanto mai ampio e imprevedibile. Lo studioso e raffinato traduttore, nonché cultore di storie e scienze anomale, aforistica e patafisica, si e ci diverte con i morbi che colpiscono i lettori e in forma ancora più grave i collezionisti: “un tema scottante è: bisogna vergognarsi della propria malattia? Eserciti di psicologi hanno studiato la questione in relazione ai casi del corpo. Ma come comportarsi se il morbo è librario? L’attrazione per i libri – in qualunque forma patologica s’avveri – è una condizione imbarazzante?”. Scorrendo le tantissime voci del dizionario - per citarne alcune e farsi solo una minima idea, si va dall’apatia libraria al calpestare libri, dalla gravidanza bibliografica al leggere senza leggere, dall’omicidio librario ai romanzi appetitosi – si viene irretiti in una narrazione colta e ironica insieme, dove si passano il testimone scrittori e filosofi famosi, anonimi lettori e autorevoli eruditi, tutti ugualmente colpiti dai morbi legati al possesso dei libri. Antonio Castronuovo ci inonda di storie, manie, indicazioni utili sulla sistemazione, la cura, la conservazione dei libri, senza trascurare gli animali, siano essi amici o nemici delle pagine scritte. Più che un dizionario è un affascinante labirinto dove il lettore si perde in uno strano mondo, insieme paradiso e inferno, tappezzato di libri. Una straordinaria biblioteca dove possiamo incontrare Giuseppe Pontiggia e Umberto Eco, Alberto Manguel e Paolo Albani, Janette Winterson e Hermann Hesse, Carlo Ginzburg e Ezio Raimondi, ma soprattutto aneddoti e avvertimenti che ci illuminano, ma non ci fanno certo desistere, sulla “follia che si coagula intorno a quella cosa, amata e detestata, che si chiama libro”.

Julia Alvarez, ALDILÀ, Black Coffee, 2021 (traduzione di Leonardo Taiuti)
“Che sia questo l’aldilà? Un’eternità passata a rammendare e rammentare?”: la protagonista del romanzo di Julia Alvarez ha appena perso l’amato marito Sam e si ritrova sola nella fattoria nel Vermont dove ci sono tutti i segni lasciati da un’intera e ricca esistenza. Ma Antonia non è sola perché ha 3 sorelle, sparse per gli Stati Uniti, con le quali esiste un legame forte e complesso insieme: la sorellanza, quello strano sentimento dove “capita di sentirsi complete solo quando sono insieme”. In un romanzo breve la scrittrice americana di origine dominicana riesce a mettere tantissimi mondi, che racconta con partecipazione e ironia. A partire dalle quattro sorelle, Antonia, Tilly, Mona e Izzy, che decidono di riunirsi per il compleanno di Antonia. Respiriamo il dolore per la perdita improvvisa dell’amato Sam, ma anche il ritratto profondo e commuovente del loro matrimonio fatto di amore ma anche riti e abitudini che ora segnano la solitudine della vedova. Troviamo il sentirsi sempre straniero per il tuo solo aspetto come accade alle sorelle originarie di Santo Domingo e mai percepite come americane; c’è il racconto dello sfruttamento degli immigrati clandestini per lo più messicani e la loro conseguente vita sempre precaria e a rischio di espulsione. Ma anche il ritratto privo di stereotipi del sovranista bianco americano che non sempre nella quotidianità si comporta come tale. C’è il legame tra sorelle, così articolato tra la conoscenza più intima che può causare ferite profonde e il confortante pensiero di non essere mai sola. Così quando Izzy, la più idealista ma anche la più imprevedibile delle quattro, scompare, le altre tre lasciano tutto per cercarla. Antonia addirittura deve affrontare una situazione complessa che vede coinvolta una ragazzina arrivata clandestinamente dal Messico che sta per partorire e che ha deciso suo malgrado di ospitare in casa sua. E per la quale alla fine dovrà prendere una difficile decisione, soprattutto morale.

Dragan Velikic, IL QUADERNO SCOMPARSO A VINKOVCI, Keller, 2021 (Traduzione di Estera Miocic)
“Cos’è un romanzo se non un tentativo di mettere una serie di sequenze di vita in un rapporto di causa-effetto per farne uscire fuori una storia che, come una scultura di pietra, aspetta di essere liberata dalla materia grezza? Ciascuno di noi porta dentro di sé una biblioteca invisibile, un coro di voci non scritte”. Dragan Velikic parte da un episodio della vita della madre per innestare la miccia dei ricordi. Sul quaderno andato perduto nel 1958 in un vagone ferroviario infatti la madre dello scrittore aveva registrato meticolosamente i fatti e i luoghi della sua vita, e il figlio riprende idealmente la scrittura del quaderno per restituire non solo la storia della sua famiglia ma la travagliata storia dei Balcani. Incontriamo persone e famiglie che non esistono più ma che hanno lasciato le loro indelebili tracce e le tante città (Pola, Spalato, Belgrado, Trieste, Salonicco, solo per citarne alcune), dove hanno vissuto e calpestato i marciapiedi perché “Scrivere non è altro che decifrare i segni di cui è intessuta la vita quotidiana”. Lo scrittore serbo ci fa riflettere sul rapporto tra passato e presente, sul fatto che la nostra storia è fatta anche delle persone che abbiamo incontrato e che hanno incrociato i destini della nostra famiglia: “Grazie al codice genetico, siamo presenti in tutti i luoghi già toccati dai nostri antenati”. Ma soprattutto è un viaggio nei meccanismi della memoria, anche quando sembra scemare a causa della demenza o parlare anche attraverso i silenzi e le storie taciute: “La vita non è altro che un rebus, una collezione di artefatti, di presentimenti e ossessioni, di momenti apparentemente insignificanti, la cui sopravvivenza è frutto di un capriccio della memoria”. Il romanzo ci offre anche una sorta di cantiere in fieri del lavoro dello scrittore che si dipana tra realtà e invenzione, tra seguire la scia dei ricordi e colmare i vuoti della memoria.

Carlo Ginzburg, LA LETTERA UCCIDE, Adelphi, 2021
“Il mondo di oggi è caratterizzato da due fenomeni tra loro connessi: l’enorme espansione della specie umana e la crescente fragilità dell’ambiente naturale. E poiché il mondo è minacciato, la storia del mondo dev’essere scritta, per usare le parole di Walter Benjamin “come ci appare in un momento di pericolo”. Ma anche la “storia” nel duplice significato di res gestae e historia rerum gestarum, sta diventando sempre più fragile”. la raccolta di saggi di Carlo Ginzburg prende il via dalla ricerca storica per offrirci riflessioni che ci aiutano a leggere anche il nostro presente. Attraverso le domande e alcune ipotesi di risposta lo studioso ci mostra il difficile percorso dell’indagine storica, la ricchezza dei materiali e delle loro possibili letture, le testimonianze consapevoli e quelle inconsapevoli e non meno attendibili, il divario culturale tra chi indaga e la cultura dell’epoca presa in esame, e nello stesso tempo ci offre un panorama quanto mai vivo e affascinante della professione storica. Ginzburg come un demiurgo mette in relazione fonti e pensieri, archivi e biblioteche, e fa idealmente dialogare Vico e Marx, Auerbach e Bloch, Antonioni e De Martino, Michelangelo e Machiavelli. Attingendo con grande maestria alla letteratura e alla filosofia, al cinema e all’antropologia, alla scienza e alla teologia. Per esercitare una delle azioni principali del metodo storico: la comparazione. È difficile restituire la complessità e i tanti livelli di lettura dei tredici saggi, di cui due inediti, qui raccolti e scritti tra il 2001 e il 2021, corredati anche da un apparato iconografico, ma alla base c’è il pensiero di come estrarre la vita dalle tracce del passato. Insistendo magari sulla ricchezza dell’anomalia, sul potere della casualità che non è mai tale perché la ricerca storica sempre si basa su dei presupposti (come dice Warburg, “il libro di cui hai bisogno si trova accanto a quello che cerchi”). Quindi leggere, studiare, sperimentare, cercando non solo i grandi sistemi ma anche i casi individuali perché la “microstoria, intesa come storia analitica, lungi dal contrapporsi alla storia del mondo, ne è anzi uno strumento indispensabile”.

Benjamin Myers, ALL’ORIZZONTE, Bollati Boringhieri, 2021 (Traduzione di Simona Garavelli)
Non è facile scrivere una storia di buoni sentimenti senza cadere nell’eccessivo sentimentalismo. Ci riesce lo scrittore inglese Benjamin Myers raccontando dell’amicizia tra un sedicenne che prima di seppellirsi a lavorare in miniera decide di vedere il mare e la donna raffinata e colta che lo accoglie e lo inizia al piacere della lettura oltre che alla consapevolezza delle sue qualità, anche intellettuali. Siamo in Inghilterra nell’immediato dopoguerra e il romanzo racconta anche la seconda guerra mondiale, i sentimenti verso il popolo tedesco, la difficile ricostruzione, la mancanza di cibo, le difficoltà dei ceti più umili. Robert sa che il suo destino, come quello della maggior parte degli uomini della sua cittadina, è segnato dalla miniera di carbone, ma desidera vedere un paesaggio diverso e soprattutto il mare. Nel corso del suo viaggio fa dei lavoretti in cambio di cibo e così conosce Dulcie che abita da sola in un cottage dove la vista del mare è ostruita da una fitta e selvaggia vegetazione. Tra i due nasce un legame fatto del riconoscimento delle loro solitudini ma anche di amicizia, grazie allo spirito dissacrante, originale, giocoso e malinconico insieme della donna: “Ma ancora più forte era il pensiero incrollabile che Dulcie mi avesse visto in un modo assolutamente non pregiudicato dalla familiarità, dalla storia o dalle aspettative. Cioè, mi aveva preso come mi aveva trovato; ... Eppure nel breve tempo trascorso insieme avevo cominciato a sentirmi come se stessi diventando qualcun altro. Mi stavo avvicinando a essere me stesso, e non la persona che fino ad allora avevo interpretato”. Robert così non scopre solo nuovi paesaggi ma un orizzonte illimitato di parole e storie. E regalerà a Dulcie uno sguardo sul futuro e una rinnovata fiducia nell’umanità. Una bella storia, triste e poetica insieme, che riesce comunque a donare anche ai lettori un orizzonte di speranza e pensieri positivi.

Allan Gurganus, IL MIO CUORE È UN SERRAGLIO, Playground, 2021 (traduzione di Anna Tagliavini e Maria Baiocchi)
“Ogni giorno ci concediamo così poca speranza. Nel frattempo, senza quasi accorgercene, siamo già riusciti a fare miracoli”: le storie di Allan Gurganus mettono come sempre in scena eroi per caso nel sempre duro percorso della vita. Perché lo scrittore americano non ci illude con una visione edulcorata della vita ma ci impedisce di concentrarci solo sugli aspetti drammatici. Che ci sono e spesso sono inevitabili come nel caso di una devastante alluvione o di un improvviso tornado ma non cancellano il buono che sempre riesce a farsi strada in ogni situazione. Allan Gurganus ci riporta nella città del suo immaginario, Falls nel North Carolina, così che possiamo ambientarci meglio e conoscere i suoi abitanti. La scrittura ha il ritmo ipnotico e seducente del racconto orale, tanto che ci sembra di avere accanto di volta in volta i protagonisti che ci raccontano la loro storia. E sono tutti ordinari e straordinari insieme, eroi spesso inconsapevoli che non possiamo non amare subito. Come il giovane medico di campagna del primo racconto che salva la cittadina da una pandemia o la bibliotecaria della storia finale che dà il titolo alla raccolta che una volta in pensione emigra in Florida e si ritrova proprietaria di un serraglio di rettili. Il grande scrittore americano non varia solo le voci narranti, ma panorami, case, tempi e soprattutto il tono dei racconti, che coprono un po’ tutti i sentimenti umani, dalla tristezza all’ironia, dalla malinconia al rimpianto, dall’altruismo al rancore. Così assistiamo al commuovente incontro nel centro commerciale nel periodo natalizio tra un simpatico negoziante e una ragazzina incinta e al drammatico incidente di una coppia di coniugi un po’ acciaccati che rischiano di perdere l’amato cane e ancora assistiamo, dopo un’alluvione, ai viaggi in barca del sessantacinquenne Mitch per salvare i suoi concittadini tra cui l’amore della sua adolescenza e insieme ripercorrere e fare un bilancio della sua vita. Personaggi che non sono mai usciti da Falls e che acquisiscono di diritto anche la cittadinanza nella nostra memoria di lettori.

Fabio Stassi, MASTRO GEPPETTO, Sellerio, 2021
“Perché ci sono storie che non ci si dovrebbe mai stancare di raccontare, ognuno ha la sua, e forse è appena questo che vuol dire scrivere: raccontare cento e cento volte la stessa favola, per raschiare il destino che c’è sotto, e non alzarsi dalla sedia finché non si è finito, e dopo tornare a riscriverla ancora, e ancora e quando si è arrivati in fondo cancellare tutto e ricominciare da capo”: MASTRO GEPPETTO, il nuovo romanzo di Fabio Stassi, pubblicato da Sellerio, è in sintesi questo: una stratificazione di significati, un’amplificazione di immaginari, la riscrittura eterna di una storia che poi è quello che fa ogni lettore, tutte le volte che legge. “È una storia da un soldo, e la conoscono tutti...”: ma è davvero andata così? Fabio Stassi sembra unire qui la sua capacità teatrale di mettere in scena luoghi e personaggi, le suggestioni di lettura e di vita, la sfida di scovare le infinite e legittime declinazioni di una storia, ma anche i limiti delle parole di fronte al dolore: “... ogni dizionario per lui si era squadernato per sempre, senza lasciare intatto né un verbo né un vocabolo. Nessuna congiunzione o filo di refe lo legava più alla vita degli uomini”. Lo sguardo dello scrittore si concentra su Geppetto e ne racconta il profondo desiderio di paternità che gli fa credere che il burattino di legno sia suo figlio e lo spinge a cercarlo ovunque, senza mai perdere la speranza di ritrovarlo. Ma cosa ci dice quello che è reale? Forse i notabili della cittadina dove Geppetto sopravvive che lo prendono di mira per divertimento, portandogli via Pinocchio? E a questo proposito: per cosa ridiamo? Qual è il confine tra il comico e il ridicolo, tra deridere e umiliare? Grazie alla scrittura musicale, coinvolgente, quasi atavica, raffinata e colloquiale insieme, il romanzo è un prezioso scrigno di considerazioni, pensieri, emozioni che ci portano a riflettere sulla diversità e sulla solitudine che ne consegue, sulla dignità e la sapienza del lavoro manuale, sull’aggiustare cose e persone, su cosa significa essere spettatori o stare al centro di un palcoscenico. MASTRO GEPPETTO evoca immagini e significati che aprono al lettore infinite e inaspettate strade da percorrere, perché gioca con la storia di Collodi come la fan fiction e sa raccontare il mondo come le OPERETTE MORALI di Leopardi.

E.C. Osondu, QUANDO IL CIELO VUOLE SPUNTANO LE STELLE, Francesco Brioschi editore, (traduzione di Gioia Guerzoni)
“Si capiva subito quali erano le case in cui qualcuno della famiglia aveva attraversato il deserto e l’oceano per andare dall’altra parte del mondo rispetto a quelle in cui nessuno era partito. La prima differenza era che l’esterno non era ricoperto di polvere rossa ma sempre intonacato con cura. I colori non erano mai tenui o discreti ma azzurri, rossi, giallo sole, e urlavano, proclamando che c’era qualcuno al di là dell’oceano che rendeva più giovane la vecchia casa”: QUANDO IL CIELO VUOLE SPUNTANO LE STELLE dello scrittore E.C. Osondu, una delle voci più significative della letteratura nigeriana contemporanea, è un romanzo di case e cammino. La storia è quella di un ragazzo che vive a Gulu Station, un piccolo villaggio dove la stazione è solo una promessa mancata. Qui, dove tutti accettano la vita come viene data, e il nostro protagonista, cresciuto dalla saggia nonna, avrebbe di che lamentarsi con il destino, ogni tanto qualche casa viene rinfrescata, dotata di un generatore affidabile e di una grossa TV grazie ai soldi che arrivano dai giovani “eroici” che hanno raggiunto e fatto fortuna in Europa. Come Bros, che ora viaggia in aereo e racconta della sua vita a Roma, il luogo più vicino a Dio che esiste sulla terra: “la prima volta che ho sentito parlare di Roma pensavo che fosse in paradiso. Sì, come Gerusalemme, Israele, la Siria, la Giordania, l’Abissinia, e quei posti di cui parlano solo i libri sacri”. Così quando il giovane protagonista decide di attraversare il deserto e poi il mare sarà per arrivare a Roma. Lo scrittore nigeriano riesce a creare una voce che può suonare ingenua e che invece ci mette di fronte alla realtà, restituendo semplicemente l’umanità a quelli che sono diventati numeri e oggetti di dibattito. Nasce così un romanzo vivo, fatto di persone e vita quotidiana, di affetti, speranze, scherzi, delusioni, senza indulgere in falsi pietismi e svelando i tanti pericoli e mali che affliggono chi decide di raggiungere l’Europa dal continente africano. Le aspettative e lo sguardo sul mondo occidentale sono raccontati con uno stile vivace e a tratti ironico, dove sembra di sentire il ritmo della musica in sottofondo e dove non mancano proverbi e modi di dire, come dimostra il titolo stesso.

Sasa Stanisic, ORIGINI, Keller, 2021 (traduzione di Federica Garlaschelli)
“La mia famiglia si è disseminata in giro per il mondo. Ci siamo disgregati insieme alla Jugoslavia, senza più riuscire a ricomporci. Ciò che vorrei raccontare riguardo alle origini ha anche a che vedere con questa frammentarità che nel corso degli anni ha contribuito a definire il posto in cui mi trovo: praticamente mai dove c’è la mia famiglia”: il libro vincitore del più prestigioso premio letterario tedesco, il Deutscher Buchpreis, ORIGINI, è scritto da Sasa Stanisic, uno dei più premiati e rappresentativi scrittori di lingua tedesca, arrivato in Germania a tredici anni da Visegrad in fuga dalla guerra dei Balcani. Buona parte del romanzo racconta propria lo stato di rifugiato e la fatica di ricostruirsi un’esistenza accettabile, imparando una nuova lingua e modi diversi di vivere. Ma ORIGINI è soprattutto la dimostrazione del grande talento di Sasa Stanisic, della sua capacità di scrivere un’epopea dal sapore classico usando tutte le declinazioni possibili del romanzo contemporaneo, sino a spingersi al libro game e a dare voce alle eterne domande della nostra esistenza a partire da dove veniamo: “Domanda complessa! Anzitutto bisognerebbe chiarire a cosa si riferisce quel 'dove'. Alla posizione geografica della collina su cui si trovava la sala parto? Ai confini nazionali dello Stato al momento dell’ultima doglia? Alla provenienza dei genitori? Ai geni, agli antenati, al dialetto? Comunque la si giri le origini restano un costrutto! Una specie di costume che ci viene calcato addosso e che siamo poi costretti a indossare per l’eternità. Una maledizione, dunque! Oppure, con un po’ di fortuna, una capacità che non deve dire grazie ad alcun talento e che tuttavia genera vantaggi e privilegi”. Passato e futuro si incontrano e contrappongono, giocando sui fili dei ricordi della nonna Kristina che sta purtroppo perdendo la memoria e la volontà del nipote di recuperarla, grazie alla letteratura, che è fatta di invenzione, percezione e ricordo e che scalfisce gli eventi realmente accaduti.

Lee Durkee, LAST TAXI DRIVER, Black Coffee, 2021 (traduzione di Leonardo Taiuti)
“Stella dice sempre che i tassisti del turno di giorno rappresentano il tessuto che tiene insieme la città e che i taxi sono importanti come qualsiasi azienda pubblica”: grazie al romanzo di Lee Durkee, LAST TAXI DRIVER, tradotto da Leonardo Taiuti per le edizione Black Coffee, viaggiamo per giorni con Lou Bishoff per le vie di Oxford, cittadina del Mississipi, dove incontriamo uno spaccato quanto mai vario di personaggi: “Consegniamo le sigarette ai ricconi e facciamo da badanti agli anziani – vi assicuro che mi è capitato di tutto: ho portato fuori innumerevoli spazzature e inseguito una lunga serie di animali domestici scappati di casa, e una volta ho aiutato un signore a fare pipì. Siamo l’ambulanza del povero, e triste a dirsi siamo anche il suo prete, visto che il taxi si trasforma nel confessionale in cui vengono spiattellati i timori e i pregiudizi più reconditi”. Lou è un uomo di mezza età che si è riciclato alla guida di un taxi per la compagnia più vecchia e più sgangherata della città dopo una serie di fallimenti e una carriera di insegnante di letteratura stroncata sul nascere. Ma non dimenticata, tanto che nell’auto c’è appeso un deodorante con raffigurato William Shakesperare e spesso il nostro protagonista ci parla delle sue letture e dei suoi riferimenti culturali. Ne nasce una voce unica, dolorosamente ironica, vivace, menefreghista e complice insieme, che restituisce una davvero varia umanità e un ritratto mai banale della società americana. Anche perché Lou, nonostante spesso il suo serbatoio della gentilezza sia a secco, non riesce a non rimanere invischiato nelle vite e soprattutto nelle disgrazie dei suoi passeggeri. Che comprendono non solo i colpi del destino ma anche i corpi spesso maleodoranti che depositano sui sedili del taxi e che Lee Durkee sa rappresentare così bene che ti sembra di sentire gli odori, di toccare i sedili macchiati, di respirare il fumo di droghe e sigarette. Come il bellissimo collage di copertina realizzato da Costanza Ciattini, così LAST TAXI DRIVER è un caleidoscopio duro, colorato e sempre in movimento di quello che chiamiamo umanità.

Ivana Šojat, SEGRETI DI FAMIGLIA, Voland, 2021, (traduzione di Valentina Marconi)
SEGRETI DI FAMIGLIA di Ivana Sojat riesce ad essere tanti libri insieme: un'avvincente saga familiare, che procede per lo più attraverso le voci delle protagoniste femminili. Un romanzo che mostra il talento narrativo della scrittrice e poetessa croata arrivata in Italia grazie alle edizioni Voland. Ma anche uno spaccato lucido e spietato di storia recente attraverso tre guerre, dalle trincee in Galizia del primo conflitto mondiale sino alla devastante guerra civile balcanica degli anni Novanta, passando per l’invasione tedesca, seguita da quella sovietica della seconda guerra mondiale, che segnano il destino dei personaggi. La scrittrice croata riesce in particolare a raccontare attraverso la quotidianità come la Storia con la S maiuscola possa cambiare intere esistenze. Come quella della famiglia di Katarina, che essendo di origine tedesca viene deportata subito dopo la sconfitta nazista e mentre è costretta ad abbandonare tutto, già i vicini saccheggiano la casa senza nessuna pietà. Il romanzo prende il via alla fine degli Anni Novanta proprio da Katarina, giovane artista che si occupa per lo più di restauro e che incontriamo sul treno che la riporta a Osijek da Zagabria per la morte della madre con cui aveva interrotto i rapporti. Così scopre la vera storia della sua famiglia che ha fatto del silenzio e del non detto la sua arma di difesa e di sopravvivenza. Ed è quello che la giovane donna non riesce a comprendere e tollerare. Così nella casa di famiglia si ritrova a evocare i fantasmi del passato, a scoprire segreti custoditi gelosamente, a conoscere dolori ma anche gioie della sua famiglia che ha sempre nascosto ma non rinnegato le sue origini. SEGRETI DI FAMIGLIA è anche soprattutto una preziosa opera letteraria grazie a una scrittura intensa e vellutata, capace di raccontare i personaggi nel loro sentire più profondo e di restituire i colori, i panorami, le case, gli odori di una famiglia che diventa teatro dei legami tra le generazioni ma anche mezzo per illuminare i cambiamenti politici e sociali della Croazia e non solo.

Mark Seidenberg, LEGGERE. UNA SCIENZA SOTTOVALUTATA, TRA TEORIA E PRATICA, Treccani, 2021, (Traduzione di Gianbruno Guerriero)
“Leggere è una delle più alte espressioni dell’intelligenza umana... in breve la lettura è interessante. È complessa, è essenziale, e c’è urgente necessità di ridurre il numero di persone che leggono poco o nulla, e di assicurarsi che le generazioni future siano sufficientemente alfabetizzate per prosperare nel mondo in cui vivranno. Da questi fattori è nata la scienza della lettura e questo libro”. LEGGERE. UNA SCIENZA SOTTOVALUTATA, TRA TEORIA E PRATICA, il saggio divulgativo di Mark Seidenberg, “psicologo/psicolinguista/neuroscienziato cognitivo che studia la lettura dai tempi della disco music”, è rivolto in particolare agli insegnanti ma in realtà apre a ognuno di noi molte riflessioni su quella che è un’abilità unica sempre in via di sviluppo e che spesso ci sembra un’azione per lo più banale. Partendo dal rapporto e anche dal fraintendimento tra alfabetizzazione e lettura, lo studioso e lettore americano insiste sull’importanza della fonologia e sui meccanismi del passaggio dal linguaggio parlato alla lettura, perché è dimostrato che la lettura non è solo visiva ma anche fonologica. Lo scienziato americano espone il risultato delle sue ricerche con decisione e chiarezza e anche un pizzico di ironia. Fornendoci anche la traccia per un attestato di lettore esperto certificato. Geniale e anche divertente, il saggio sulla lettura ci permette di scoprire a che velocità leggiamo e la differenza tra i tempi di ascolto e quelli di lettura. E come si può insegnare a leggere e cosa si intende per educazione alla lettura. Come leggere ad alta voce ai bambini non garantisce di farne in futuro dei lettori e quali strategie la scuola deve mettere in atto per far acquisire la lettura esperta, che è una competenza specialistica che andrebbe maggiormente riconosciuta e non solo a scuola. Per non far avverare le parole di Philip Roth secondo il quale “La letteratura richiede una disposizione mentale che è scomparsa”. Non lo è, ma far comprendere che leggere è lo stadio evolutivo massimo raggiunto dal nostro cervello e che è quindi estremamente complesso potrebbe aiutare a non sottovalutarla se non ignorarla. Perché “la lettura è il primo esempio di ausilio tecnologico che ha esteso le nostre capacità oltre i limiti naturali”.

Cynthia Rimsky, IL FUTURO È UN POSTO STRANO, Edicola, 2021 (traduzione di Silvia Falorni)
“Non è spinta tanto dai ricordi quanto dalla curiosità di vedere che cosa è cambiato in quel luogo in quasi trent’anni. Cercando sul suo computer ha trovato una vecchia cartella che a un certo punto ha trasferito da un Floppy Disk da 3.5 a una chiavetta USB, con un curriculum che forse ha scritto prima o dopo il viaggio in Nicaragua. Lì dice che tra il 1985 e il 1986 ha lavorato come consigliera del giornale locale El Portavoz... ma manca da chiarire perché la giovane di vent’anni sia sparita durante la protesta e un anno dopo sia riapparsa facendo l’autostop per andare a conoscere una rivoluzione”: il passato è un posto strano si potrebbe parafrasare il titolo del romanzo di Cynthia Rimsky, appena pubblicato da Edicola. IL FUTURO È UN POSTO STRANO, infatti, è un viaggio nella memoria personale di una donna e insieme in quella collettiva del suo paese, il Cile. Protagonista del romanzo è La Cardini – solo alla fine scopriremo il suo nome di battesimo - giornalista ed ex militante di sinistra, che insegna scrittura in un piccolo istituto di Santiago. Sposata a uno scrittore in crisi, che le ha nascosto il baratro, anche economico, in cui sta precipitando, riceve dal marito una richiesta di separazione per colpa che rischia di lasciarla senza soldi e senza il suo unico bene, l’appartamento che le ha lasciato il padre. Per dimostrare la sua innocenza e soprattutto il contributo che ha dato al mantenimento e agli scritti del marito, deve scavare nel suo passato. Rappresentato spesso nella narrazione da un grande baule di cui però non trova la chiave. Questa immagine è metaforicamente il senso del romanzo: aprire i ricordi alla luce di quello che siamo diventati. Così La Cardini torna ad essere la ventenne che manifesta e poi combatte contro la dittatura, rivede le compagne e i compagni di lotta e quello che è rimasto di quella lotta per la libertà e la democrazia.

William Kent Krueger, Questa terra così gentile, Neri Pozza, 2021, (traduzione di Alessandra Petrelli)
Autore pluripremiato di romanzi epici, tra cui Tamarack County e Windigo Island, William Kent Krueger si era già fatto apprezzare dai lettori italiani con il bellissimo LA NATURA DELLA GRAZIA (Neri Pozza, 2017) che è stato vincitore nel 2014 dell’Edgar Award per il miglior romanzo. Nel nuovo libro QUESTA TERRA COSÌ GENTILE pubblicato sempre da Neri Pozza con la traduzione di Alessandra Petrelli ritroviamo la grande capacità narrativa dello scrittore americano e la vividezza con cui descrive i suoi personaggi con cui abbiamo la sensazione di percorrere un pezzo di vita. E in giro andremo tantissimo grazie ai fratelli Odie e Albert che si ritrovano orfani e affidati a una scuola residenziale per giovani indiani in Minnesota, dove sono gli unici ragazzi bianchi. E dove vengono sfruttati e maltrattati per lavorare duramente per gli agricoltori confinanti con la scuola e puniti severamente se solo osano ribellarsi. Albert riesce in qualche modo a guadagnarsi la fiducia della terribile direttrice Thelma Brickman, soprannominata la Strega Nera ma Odie finisce spesso nei guai e passa molte notti in una minuscola cella buia. I ragazzi riescono comunque a crearsi dei legami e in particolare con Mose, un ragazzino indiano che non è in grado di articolare le parole perché a quattro anni gli è stata tagliata la lingua, e con la piccola Emmy Frost, la figlia dell’insegnante di economia domestica, una bambina con un dono speciale. Saranno proprio loro quattro a fuggire dalla scuola per raggiungere Saint Louis, dove i due fratelli hanno scoperto di avere una zia che potrebbe occuparsi di loro. Così seguiamo il loro viaggio verso il Missouri, avventuroso quanto doloroso, e la varia umanità che incontrano. Ne nasce un ritratto vivo degli Stati Uniti degli Anni Trenta e Krueger riesce a unire la forza e la scorrevolezza del romanzo americano tradizionale che non può che ricordare Mark Twain e una voce sempre distinguibile e originale. Mentre scorre il fiume Gilead e cambiano i paesaggi anche i nostri giovani protagonisti si avviano a diventare grandi.

Pierre Jourde, L’ora e l’ombra, Prehistorica, 2021 (traduzione di Gabriella Bosco)
L’ORA E L’OMBRA di Pierre Jourde è un romanzo senza tempo: è estremamente contemporaneo con riferimenti precisi alla società in cui viviamo e insieme ha il sapore di un classico che ci rimanda a Marcel Proust, tra l’altro citato dal protagonista del libro ma anche a Gerard de Nerval e a certe atmosfere noir e a personaggi che possiamo definire inetti che sarebbero piaciuti a Simenon. Sicuramente un romanzo coinvolgente e mai scontato, pieno di storie, luoghi, riflessioni, colpi di scena, supportati da una scrittura raffinata ma mai autocompiaciuta e che anzi trasuda rispetto per il lettore. Perché Jourde usa una lingua ricca, articolata, musicale che Gabriella Bosco, la traduttrice scelta dalle edizioni Prehistorica che hanno il merito di aver fatto conoscere l’autore in Italia, ha reso in maniera sublime. Pierre Jourde racconta una storia d’amore che ha le radici nell’infanzia del protagonista che rimane legato al ricordo di Sylvie, incontrata durante le vacanze estive nella piccola cittadina balneare di Saint-Savin. Lo scrittore francese orchestra un romanzo dove si alternano voci, narratori, destinatari, e in cui i fili della trama sembrano allontanarsi per poi intrecciarsi in un disegno preciso che mantiene aperti tantissimi percorsi di lettura. Abbiamo detto della storia d’amore che più che l’innamoramento sembra rappresentare la nostalgia dell’infanzia, scevra di preoccupazioni e scelte obbligate. L’ORA E L’OMBRA racconta anche di incontri, amicizia, strane coincidenze, casualità che forse non sono tali, contrasti tra la vita di paese e quella parigina, sempre con un sottile e insieme spietato filo di lieve ironia. Non mancano precisi riferimenti politici e sociali, la perdita del lavoro del padre del protagonista, case che non si aprono a persone di classe sociale inferiore, vocazioni mancate e delusioni causate dalle idee preconcette che ci siamo costruiti. Lo scrittore francese gioca molto sul confine tra il reale e l’immaginario di futuro che ci costruiamo, tra il tangibile e quello che abbiamo sperato, tra le nostre aspirazioni giovanili e quello che siamo diventati. Tanto che anche Sylvie alla fine diventa una sorta di fantasma che il protagonista si è lui stesso creato.

Sabina Minardi, IL GRANDE LIBRO DEL VINTAGE, il Saggiatore, 2021
“Il fenomeno che qui si sta esaminando sembra far leva piuttosto su una 'low nostalgia', una nostalgia a bassa intensità: un sentimento di recupero di esperienze emotive positive per affrontare meglio il presente. Così è per il vintage che ci circonda in Italia: sintomo più di vulnerabilità sociale che strenua strategia difensiva. Tentazione di andare incontro a oggetti familiari, che si saldano facilmente al nostro immaginario, con il compito di riequilibrare i radicali cambiamenti della contemporaneità”: IL GRANDE LIBRO DEL VINTAGE della giornalista Sabina Minardi ammicca al mondo nostalgico del passato per offrirci in realtà una convincente e a tratti spietata analisi sociologica e antropologica sul nostro presente, piena di riflessioni e pensieri che attingono alla filosofia e alla letteratura. Nello stesso tempo il volume, estremamente curato anche nella scelta delle immagini, è uno spaccato unico di storia del costume ma anche di storia politica e sociale del nostro paese. Certo ci sono Carosello, il mito degli anni Cinquanta, il vinile, il buondì, Goldrake, gli Swatch e tutti gli oggetti di culto che fanno rimpiangere il passato ma l’operazione della giornalista siciliana parte da lì per toccare molti temi che riguardano il nostro vivere e offre tantissimi spunti di riflessione che spaziano dalla scienza al cinema, dalla moda alla cucina, dagli adolescenti al collezionismo, dai mercatini delle pulci alle strategie di marketing. Fornendo anche precise notizie di siti, fiere, pubblicazioni, manifestazioni legate al mondo del vintage. Un grande lavoro di ricerca e una profonda capacità di restituzione in un linguaggio preciso e raffinatamente narrativo. Che riesce con la stessa efficacia a farci comprendere i rischi del vintage in ambito politico e i sentimenti che suscita un oggetto che racchiude i segni di precedenti proprietari. Unendo la capacità poetica di restituire la magia di un fenomeno che non è solo di costume e insieme il valore del lavoro giornalistico di ricerca e controllo delle fonti, approfondimento e analisi, a cui purtroppo non siamo più abituati. Forse che anche il giornalismo è diventato vintage? Il libro di Sabina Minardi non ce lo fa rimpiangere perché dimostra che si può parlare di un fenomeno anche popolare con strumenti intellettuali elevati.

Marco Petrella con Filippo Golia, IL BACIO FANTASMA, AMORI, POESIE E FOLLIA DI RICHARD BRAUTIGAN, Mattioli 1885, 2021
“Non c’è inferno peggiore che ricordare intensamente un bacio mai dato”: dal verso del grande autore americano Richard Brautigan Marco Petrella e Filippo Golia traggono il bel titolo BACIO FANTASMA per un graphic novel, pubblicato in un giusto grande formato da Mattioli 1885, che ci guida in tanti sentieri di lettura. Intanto ritroviamo i colori e le immagini dell’illustratore e fumettista romano che siamo abituati a vedere sull’inserto del Corriere, La Lettura. Insieme alla sua capacità di svelare in poche vignette un libro e soprattutto il suo effetto sui lettori. Qui ci racconta un autore intero, la sua vita attraverso le sue opere e in particolare le poesie giovanili. IL BACIO FANTASMA è anche un viaggio nella letteratura americana, che Richard Brautigan ha così ben rappresentato nei suoi romanzi a partire dall’indimenticabile PESCA ALLA TROTA IN AMERICA. Ma soprattutto le immagini di Marco Petrella e la sceneggiatura di Filippo Golia ci raccontano la giovinezza non facile di un talento unico che ha rappresentato la sua passione per la pesca e la lettura nei suoi scritti. E che aveva già da ragazzo la consapevolezza di essere uno scrittore anche se a un certo punto ha dovuto addirittura vendere la sua macchina da scrivere. Marco Petrella ci riporta ai paesaggi di Brautigan, all’Oregon della sua infanzia, al fiume pieno di trote, alla vita libera, all’amicizia con Peter e la sua famiglia che segnerà gran parte della sua esistenza. Con i toni ora caldi ora acidi dei verdi e dei marroni crea una perfetta integrazione tra persone e oggetti, tra i luoghi e i ritratti dei personaggi. Compresa Linda, sorella di Peter di cui Richard si innamora perdutamente e disperatamente e non ricambiato. IL BACIO FANTASMA è così un omaggio al grande autore americano, un invito a leggerlo e rileggerlo ma anche il racconto intenso di un’infanzia e una giovinezza che devono fare i conti con un talento unico e insieme con una famiglia difficile e il rischio di perdere il poco equilibrio di vita conquistato anche grazie alla pesca e alla scrittura. Ma come dice lo stesso Brautigan ne IL SOGNATORE DISOCCUPATO: “compiango le persone che non sono impegnate a sognare”.

Reni Eddo-Lodge, PERCHÉ NON PARLO PIÙ DI RAZZISMO CON LE PERSONE BIANCHE, e/o, 2021 (traduzione di Silvia Montis)
“Il lato assurdo dell’attuale struttura razziale è che il compito di cambiarla spetta sempre a quelli che la subiscono. Eppure il razzismo è un problema bianco. Rivela le ansie, le ipocrisie e i doppi standard morali della bianchezza. È un problema della mentalità bianca che i bianchi devono assumersi la responsabilità di risolvere. Dall’esterno non si può fare granché”. Il libro nasce da un post con l’omonimo titolo che nel 2014 l’allora giovane blogger postava per ammettere e denunciare l’incapacità di discutere di razza e razzismo con chi non si era mai misurato con le discriminazioni legate al colore della pelle. Da lì nasce un saggio lucido, documentato, accurato e sentito che la scrittrice e giornalista britannica ha saputo costruire grazie anche al suo talento letterario. PERCHÉ NON PARLO PIÙ DI RAZZISMO CON LE PERSONE BIANCHE è un esempio di ottimo giornalismo narrativo, indaga, argomenta, pone questioni e possibili soluzioni utilizzando le fonti storiche, le visioni politiche, la sociologia e anche l’esperienza personale, partendo dal presupposto che “Dobbiamo riconoscere il razzismo come strutturale per capire quanto può essere insidioso. Dobbiamo renderci conto di come riesca a penetrare ovunque, proprio come un gas nocivo”. Reni Eddo-Lodge articola quindi un’analisi coerente, piena di riferimenti culturali e senza rinunciare al contraddittorio, ospitando anche opinioni convintamente razziste. Sottolineando come l’ingiustizia del privilegio, il peso dei pregiudizi e delle discriminazioni, supportati sempre da dati oggettivi e verificabili, qualificano il nostro stare al mondo ed essere cittadini. Una lettura illuminante e necessaria con cui forse contribuire a un futuro migliore: “Ma creatività, passione ed entusiasmo sono le tre cose di cui abbiamo in assoluto più bisogno se vogliamo porre fine a quest’ingiustizia. Dobbiamo lottare contro lo scoraggiamento, il senso di impotenza. Dobbiamo tenerci stretta la speranza”

Björn Larsson, NEL NOME DEL FIGLIO, Iperborea 2021 (Traduzione di Alessandra Scali)
“La letteratura non dovrebbe quindi competere con la scienza e con il giornalismo – che motivo avrebbe di esistere, altrimenti? – ma mettere in discussione la realtà e le verità che diamo per scontate, immaginando come avrebbero potuto essere, e come potrebbero essere nel presente e nel futuro”: il libro di Björn Larsson, NEL NOME DEL FIGLIO, come sempre pubblicato da Iperborea, prende il via dal passato per stilare una sorta di bilancio, costruito con ipotesi e interrogativi di un’esistenza personale e professionale. Il libro dello scrittore svedese è infatti un catalogo quasi infinito di domande, a partire da quelle che si fa Il figlio, così viene sempre chiamato il protagonista del racconto, sulla morte del padre per annegamento quando lui aveva sette anni e mezzo. Che ricordo è rimasto del padre? Perché nessuno ne ha più parlato? Perché ai bambini si vuole risparmiare la visione della morte? Può il padre vivere ancora nel figlio o grazie alle pagine che scrive? E come funziona la memoria? “E perché per il figlio è importante cercare di ricordare quel poco che ricorda del padre e metterlo nero su bianco?”. E soprattutto è così importante conoscere da dove veniamo?: “L’affermazione 'dobbiamo sapere da dove veniamo per sapere chi siamo' nasconde in realtà un sottotesto morale o ideologico, che di rado viene espresso: una persona non è 'autentica' o 'completa' se non ha quello che alcuni definiscono 'contesto', che si tratti di una fede, una famiglia, una discendenza, un’etnia o una nazionalità. Tecnicamente questa persona può 'vivere' anche senza conoscere le sue origini biologiche e culturali, ma in forma più o meno velata si lascia intendere che la sua vita è incompleta, se non addirittura priva di significato e di valore”. Björn Larsson indaga la sua vita con gli strumenti della letteratura, raccontando, immaginando, costruendo ponti di parole tra il passato e il futuro. Usando le infinite possibilità del linguaggio e offrendo così al lettore un viaggio questa volta senza imbarcarsi ma navigando tra i ricordi, gli incontri, le passioni, i sogni, gli amori, i libri. Un libro vero e intenso, da leggere e pensare.

Anne Griffin, ANCORA IN ASCOLTO, Blu Atlantide, 2021 (traduzione di Bianca Rita Cataldi)
“Una scrittrice che ha il dono della poesia” dice John Boyne di Anne Griffin, autrice dublinese come lui, che dopo il successo di QUANDO TUTTO È DETTO, tradotto in più di venti paesi, ritorna a raccontare una storia di famiglia, questa volta nell’Irlanda di oggi in ANCORA IN ASCOLTO, pubblicato in Italia sempre dalle edizioni Atlantide con la traduzione di Bianca Rita Cataldi e la bellissima copertina con l’immagine di Emiliano Ponzi. Mentre nel primo romanzo c’era un uomo che ripercorreva la sua vita per redigerne un doloroso bilancio, in questa nuova opera convivono passato e presente grazie a Jeanie Masterson, trentaduenne che lavora nell’impresa funebre del padre, dal quale ha ereditato la capacità di sentire la voce di chi è appena morto. L’agenzia Masterson fornisce questo servizio unico: poter ascoltare le ultime volontà del morto per riferirle a chi è rimasto. Per Jeanie non è sempre facile perché è un dono difficile da spiegare ma, soprattutto, essere il tramite tra chi ha lasciato la vita e ne è appena diventato consapevole e chi lo sta piangendo comporta reazioni e scelte dolorose. Bisogna sempre dire la verità sulle parole del morto che però alla fine solo Jeanie può sentire? La giovane donna comincia a riflettere su come il dono abbia condizionato la sua vita, soprattutto quando il padre le annuncia di aver deciso di andare in pensione e lasciare a lei e al marito Niall la gestione dell’impresa funebre. Anne Griffin ci regala un romanzo caldo, intenso, dove il confine tra vita e morte non è definito, mostrando come si scompare veramente solo con il corpo, mentre il resto di noi rimane nella memoria di chi ci ha amato e conosciuto. Con uno stile avvolgente come una calda coperta nelle serate invernali la storia si dipana sino a un colpo di scena finale e ci fa riflettere sui legami familiari, sulle scelte che abbiamo fatto, sulla comprensione e condivisione che spesso cerchiamo, su cosa significa innamorarsi e far durare una relazione. E su come un talento possa diventare una pesante responsabilità e un’inevitabile condanna e indirizzare così la nostra vita verso una direzione che comporta la rinuncia magari a un grande amore.

Walter Dean Myers, MONSTER, Marcos y marcos, 2021 (Traduzione di Paolo Ippedico)
“... francamente non è ancora emerso nulla a sostegno della tua innocenza. Metà di quei giurati, malgrado quello che hanno detto quando li abbiamo interrogati nella fase di selezione, ha creduto che tu fossi colpevole nel momento in cui ha posato gli occhi su di te. Sei giovane, sei nero, e sei sotto processo. Che altro hanno bisogno di sapere?”: Steve è finito in galera perché ritenuto complice di una rapina finita con la morte del proprietario del drugstore preso di mira. Eppure viene da una famiglia onesta, frequenta con successo la scuola, non ha mai avuto problemi con la giustizia. Forse si è solo trovato nel momento sbagliato nel luogo sbagliato e quelli che lo accusano sono poi dei veri delinquenti. Per sopravvivere al carcere Steve prosegue idealmente il progetto che stava realizzando per il laboratorio di cinema della scuola e ci racconta la sua storia proprio come la sceneggiatura di un film ed è così che lo leggiamo. La cronaca del processo si alterna ai pensieri di Steve e al racconto di quello che è accaduto. Un libro incredibile per la storia e per la scelta narrativa ma soprattutto perché restituisce la complessità della giustizia e il labile confine tra il bene e il male che non è difficile attraversare. e come spesso la presunzione di colpevolezza sia difficile da scardinare e un’etichetta impossibile da togliersi di dosso. Un classico della letteratura americana che non ha perso niente del suo profondo valore e sa raccontare e parlare ai giovani lettori.

Giorgio Ghiotti, ATTI DI UN MANCATO ADDIO, Hacca, 2021
“... la paura appartiene all’infanzia, e la nostalgia all’adolescenza. La sostituzione avviene rapidamente... È una delle grosse fregature di questa cosa vertiginosa e incontrollabile che chiamiamo crescere”. Riesce proprio a raccontare questo Giorgio Ghiotti insieme agli anni universitari, ai luoghi che sono solo periodi di passaggio e alle città che entrano invece nel nostro flusso di vita come Roma, che è una sorta di coprotagonista della storia e Bologna: “Camminavamo insieme ad altre cento persone. Un flusso continuo che ti investe e pure sembra accompagnarti. A Bologna, anche quando ci sono tornato, non mi sono mai sentito solo. C’è sempre almeno un altro in quella città, che rema nella tua stessa direzione, è una città fraterna”. E poi l’amicizia e come cambiamo anche grazie o nonostante le nostre relazioni elettive: “Aspettavamo qualcosa, speravamo in un segno. Uno specchio nel quale vedere prendere forma il futuro, indovinare visi. Quello di Massi, quello di Trottola e Vea e Mastino, quello di Giulio. Chissà che fine avremmo fatto a quarant’anni, a cinquanta, pensavo a occhi chiusi, ora che già eravamo nel decennio fatidico che ci avrebbe condotti come un nastro trasportatore, come cibo in scatola, verso la trentennificazione”: alla fine del romanzo sapremo dove sono finiti tutti meno uno. È la misteriosa scomparsa di Giulio che segna un confine, un passaggio di non ritorno tra la spensieratezza che guarda sempre avanti e la spietata consapevolezza che esiste l’irrimediabile. Giorgio Ghiotti racconta con grande maestria e una scrittura viva e mai banale, giocando anche con le citazioni colte, spesso poetiche ma senza nessuna nota di presunzione, il labile confine tra passato e futuro, i sentimenti che fanno un gruppo e che poi lo disperdono, la memoria comune che è insieme conforto e fastidio: “sento di non aver mancato l’appuntamento con la mia vita di prima... esiste un passato comune che non ci va più di guardare, ma grazie al quale sappiamo di essere davvero esistiti, esposti a tutte le correnti, nel pieno della tempesta, rondini in collisione, vivi dentro la pioggia come non saremo mai più”.

Gaia Manzini, A MILANO CON LUCIANO BIANCIARDI, Giulio Perrone editore, 2021
“Rileggere Bianciardi ora ha un sapore profetico. Con 'L'integrazione' e 'La vita agra' ha saputo mostrare l’anelito di futuro di questa città, qualcosa che Milano ha nel DNA; ne ha svelato l’incessante tensione verso l’alto e il limite di questa tensione che per procedere si dimentica del passato e si innalza nella notte come le Torri di Kiefer. Con qualcosa di bellissimo e decadente al tempo stesso”: A MILANO CON LUCIANA BIANCIARDI di Gaia Manzini, pubblicato nella bella collana Passaggi di dogana di Giulio Perrone editore, permette di fare tanti viaggi più o meno letterari: tornare alla Milano degli anni '60 e '70, viaggiare tra le opere dell’autore de LA VITA AGRA ma anche di importanti reportage giornalisti a partire dalle condizioni dei minatori della sua Maremma e di valenti traduzioni letterarie, tra tutte quelle delle opere di Henry Miller e anche sbirciare nell’incubatrice di una scrittrice che ha vissuto la Milano da bere e che sin da giovanissima ha coltivato il desiderio di scrivere. Così il libro ti invita a ripercorrere vie e quartieri toccati dai piedoni dello scrittore maremmano per guardarli con i suoi occhi, seguire i suoi pensieri e imbattersi magari nello stuolo di artisti, solo per citarne alcuni: Jannacci, Cochi e Renato, Piero Manzoni, Mario Dondero, che facevano sembrare la città meneghina una nuova Montmartre. E insieme ti accende il desiderio di rileggere i suoi libri alla luce del ritratto che Gaia Manzini, da scrittrice acuta e sensibile quale è, gli dedica, eleggendolo a suo maestro e mai prevaricando la sua voce. In un alternarsi di sguardi guardiamo anche a un pezzo di storia del nostro paese e all’eterno conflitto tra città e provincia. Un libro prezioso e curato che con ammirazione e rispetto ci restituisce un Luciano Bianciardi uomo e scrittore, anarchico e sempre inquieto, innamorato di Maria Jatosti e quasi esterrefatto del successo de LA VITA AGRA. Sempre con un rapporto conflittuale con la città che gli ha dato tanto ma lo ha anche deluso: “Dentro Milano c’è questo paradosso: è una città che respinge, ... però respingendoti ti tiene con sé, corteggia la tua solitudine, non la giudica, ma non ti inganna, non ti volta la faccia”.

Giorgio Camuffo (a cura di) IMAGO 1960 – 1971 UNA RIVISTA TRA SPERIMENTAZIONE ARTE E INDUSTRIA, Corraini, 2021
“E dunque che cos’è Imago? Non è facile dirlo: una rivista, un house organ, un campionario di eccellenza grafica, un repertorio di immagini, un luogo d’incontro, un laboratorio di sperimentazione tecnica e creativa o anche altro?”. IMAGO 1960 – 1971 UNA RIVISTA TRA SPERIMENTAZIONE ARTE E INDUSTRIA, pubblicato da Corraini fornisce innumerevoli spunti a seconda anche dello sguardo di chi osserva e delle idee di chi ci ha lavorato. Giorgio Camuffo, graphic designer, professore associato di Comunicazione visiva presso la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano e curatore di molte mostre e cataloghi dedicati al design, spiega nella puntuale introduzione il perché di una mostra e di un libro dedicati a una rivista pubblicata dal 1960 al 1971. E il piacere e la soddisfazione che ha provato quando è riuscito a rimettere insieme tutti e quattordici i numeri pubblicati, è la stessa che prova chi si addentra in questo reticolo creativo dove parola e immagine giocano e si rimpallano di pagina in pagina. Anche per chi non ha una formazione specifica l’avventura di questa rivista è affascinante perché si respirano il genio e la creatività degli artisti coinvolti – solo per citarne alcuni: Bruno Munari, Pino Tovaglia, Max Huber - chiamati a dialogare liberamente tra loro e con la loro arte. Vale la pena scoprire le firme che via via la rivista coinvolgeva, ì materiali utilizzati, gli elementi spesso strabilianti che la componevano. Il catalogo restituisce l’anima di quell’operazione e lo spaccato di un periodo storico florido dove l’arte trovava sostegno e comunanza con l’impresa. Non mancano poi le voci letterarie con inediti di Umberto Saba, Giovanni Arpino, Dino Buzzati, Giuseppe Pontiggia e altri. Una grande e precisa operazione di recupero storico ma soprattutto di slancio per il futuro, di testimonianza su quello che il design e in generale la cultura produce e sul valore assoluto dell’immaginazione. Sfogliare le pagine di IMAGO è un’esperienza estetica, un gioco, un corso di storia del design, insomma le infinite declinazioni che probabilmente l’ideatore Michele Provinciali intendeva lasciare agli artisti e ai destinatari della rivista. Una scatola magica dove immagini, colori, fotografie, oggetti dialogano con le parole dei poeti e degli scrittori sullo sfondo di una Milano viva e vitale. Un volume che ogni biblioteca dovrebbe possedere.

Gilberto Severini, LA SARTORIA - IL PRATICANTE, Playground, 2021
“Come se i giorni della vita si consumassero superflui, giustificati solo dall’attesa di un raro evento memorabile da riepilogare continuamente per darsi la forza di aspettarne un altro”: ecco le storie di Gilberto Severini, che racconta In LA SARTORIA - IL PRATICANTE, pubblicato come sempre da Playground, vite ordinarie e straordinarie insieme, luoghi e tempi che non ci sono più ma che abitano dentro di noi. Siamo negli Anni Sessanta e la sartoria del signor Guglielmo, nobile d’animo anche se non di natali, è il crocevia dei personaggi dei due romanzi brevi riuniti e legati strettamente tra loro, ma anche l’occasione per ragionare sul senso della vita, su cosa ci rende nobili, su quale sia il nostro posto nel mondo. Con lo stile unico che lo contraddistingue Gilberto Severini incanta il lettore che si trova catapultato dentro la storia, tanto che sembra di vedere e sentire Rita la pantalonaia, il ferro da stiro in funzione, Carletto che imbastisce, i clienti che vengono per le prove, il nobile e ricco per nascita signor Aldino, ospite fisso e abitudinario della sartoria, il nipote dodicenne del sarto Guglielmo che ci fa da guida in questo piccolo mondo antico. Quello dello scrittore è uno sguardo acuto e profondo, tenero e affettuoso senza diventare complice grazie a una raffinata ironia. Sono tante le strade di lettura del libro, dal senso di comunità al valore del lavoro artigianale, dall’amore all’attrazione fisica, dalle differenze sociali al desiderio di ribellione a convenzioni radicate e spesso ipocrite. “È questa la differenza tra gli abiti di sartoria e quelli di fabbrica. Noi adattiamo i vestiti alle persone, con gli abiti già confezionati sono le persone che devono cercare di somigliare ai vestiti”: così Gilberto Severini rende omaggio a un mondo che sta cambiando, a un'Italia che si sta risollevando dopo la guerra e vede cambiare in fretta tanti suoi riferimenti. Il tutto attraverso un luogo e un modo di vivere e lavorare che non esiste più, che segna il passaggio di consegne non sempre facile tra le generazioni, e che ci lascia infine il sapore dell’inevitabile nostalgia del tempo che, giustamente, passa.

Caleb Azumah Nelson, MARE APERTO, Atlantide, 2021 (traduzione di Anna Mioni)
“... il battito del suo cuore quasi impercettibile, prima che dica 'Ti amo, lo sai'. Si è buttata in mare aperto, e non manca molto perché tu la raggiunga”: il primo romanzo di Caleb Azumah Nelson, uno dei più premiati fotografi inglesi, racconta la storia d’amore tra un giovane aspirante fotografo e una ballerina nella Londra di oggi. Entrambi hanno la pelle nera e non è un dettaglio. Lo scrittore inglese non ne fa un manifesto, ma te la appiccica letteralmente addosso: “Nascondi tutto te stesso perché a volte ti dimentichi che non hai fatto niente di male. A volte ti dimentichi che non hai niente in tasca. A volte ti dimentichi che essere te stesso equivale a non essere visto né ascoltato, o a essere visto e ascoltato in modi non richiesti. A volte ti dimentichi che essere te stesso è essere un corpo Nero, e non molto altro”. Senti cosa significa girare soprattutto col buio nelle strade londinesi, sei quasi lacerato dagli sguardi, tremi al suono della sirena della polizia, usi il cappuccio della felpa come uno scudo. Respiri la paura e la violenza. Ma anche essere in qualche modo un simbolo e un alibi nella scuola frequentata quasi solo da bianchi o oggetto di ammirazione per presunte doti che non ti rappresentano, come saper giocare a basket. Con la stessa forza narrativa con cui racconta cosa significa avere la pelle nera in Europa oggi, Nelson rende viva la storia d’amore, illumina il desiderio, rende tangibili la seduzione e la passione. MARE APERTO è un romanzo di corpo e sguardo (“Un conto è essere guardati, un altro è essere visti”), pieno di libri e musica, strade e letti condivisi. Considerato uno dei migliori esordi del 2021, tradotto in numerose lingue e in Italia dalle raffinate edizioni Atlantide con l’ottima traduzione di Anna Mioni, il libro di Nelson suona di diversi toni narrativi, e alterna parti di estremo lirismo e di una veridicità quasi fisica che riguarda tutti noi e precise citazioni letterarie e musicali che ci immergono nel clima sociale e culturale della storia: “come dice Baldwin, si comincia a credere di essere gli unici a provare certe emozioni, finché non si comincia a leggere”.

Marco Gasparini e Noemi Pederneschi, BRUNO IL BIBLIOTECARIO, Editrice Bibliografica, 2021
In biblioteca si va per i libri, ci si può fermare a leggere, consultare materiali, navigare in internet, partecipare a incontri e letture ad alta voce, ritrovarsi con il gruppo di lettura. Questo e molto altro in tutte le biblioteche di pubblica lettura ma in quelle dislocate in paesi di piccole dimensioni, professionalmente chiamate 'one persone library', in realtà succede molto di più. Le piccole biblioteche gestite da un unico operatore sono spesso un catalogo di varia umanità, dove chi ci lavora non deve conoscere solo i libri ma soprattutto i lettori. Lo sanno bene Marco Gasparini e Noemi Pederneschi, bibliotecari mantovani che da anni animano con le loro strisce a fumetti una pagina facebook dedicata a Bruno, il gatto bibliotecario di Rocca Vibrissa. Ora dalla rete le storie per immagini di Bruno sono diventate un libro grazie a Bibliografica, un editore nazionale che si occupa proprio di biblioteche e che inaugura così una collana di fumetti, “Bibliographic novel”, dedicata ai mestieri del libro. I due autori riescono a svelare il lato comico della vita quotidiana in una piccola biblioteca di provincia: i frequentatori abituali con le loro varie manie, la rivalità con la biblioteca del paese vicino; le strategie per far rientrare i libri a prestito; la selezione dei libri di autori locali da presentare; la precarietà della struttura tra caldo d’estate e gelo d’inverno. Ma anche le piccole conquiste di ogni giorno: l’arrivo dei libri appena usciti, la conquista di nuovi lettori, i riconoscimenti da parte dell’amministrazione, i sorrisi dei bambini. Marco Gasparini, bibliotecario precario e grafico per diletto, condivide con Noemi Pederneschi fumettista autodidatta, illustratrice e bibliotecaria, la meraviglia per il regno animale nonché una naturale inclinazione alla rappresentazione umoristica del reale, e la accompagna nell’avventura editoriale scrivendo i testi e curando la grafica. Noemi Pederneschi con il suo tratto così riconoscibile e i suoi animali antropomorfi - oltre a Bruno ci sono anche il topo Walter e il ragno mascotte Giobbe - riesce a rappresentare movimenti, contraddizioni, equivoci, lotte, della vita quotidiana in una biblioteca.

Jenny Jägerfeld, LA MIA VITA DORATA DA RE, Iperborea, 2021 (traduzione di Laura Cangemi)
È veramente dura la vita dei dodicenni! Come sa bene Sigge, il protagonista di LA MIA VITA DORATA DA RE di Jenny Jägerfeld, pubblicato da Iperborea nella precisa e vivace traduzione di Laura Cangemi. Sigge è il primogenito di due sorelline abbastanza pestifere, non ha mai conosciuto suo padre e ora ha perso anche la figura maschile con cui è cresciuto perché la madre ha lasciato il compagno. Per di più Sigge è strabico e cerca di nascondere l’occhio con un ciuffo di capelli. Ma il trasferimento dalla nonna, che vuole essere chiamata Charlotte e conduce una vita un po’ stramba, tra auto d’epoca e animali impagliati, apre nuove opportunità per il nostro eroe: “Il trasferimento mi dava infatti la possibilità di resettarmi. Trasformarmi in una persona diversa. Il piano era diventare popolare. Superpopolare. Volevo che la gente gridasse e svenisse al mio passaggio, volevo che tutti mi chiedessero l’autografo, volevo che si facessero i selfie con me... volevo che mi ascoltassero quando parlavo e scegliessero di sedersi vicino a me alla mensa scolastica”. E il nostro giovane amico ha ben 59 giorni prima dell’inizio della scuola per diventare famoso ed essere accettato. Purtroppo il primo incontro con una coetanea, che gestisce oltretutto un sito di notizie sul quartiere, non è dei migliori e Sigge si vendica rubandole il nano da giardino. Che diventerà però la chiave di volta per diventare famoso. Il romanzo della nota scrittrice svedese per ragazzi, spesso considerata l’erede di Ulf Stark, è spassoso, ironico, vero e regala tanti punti di vista sulla genitorialità, l’amicizia, la ricerca di un posto nel mondo, senza falsi moralismi ma con allegria e profondità. I personaggi sono spesso eccentrici e fuori dalle righe ma non sono mai macchiette: sono densi, articolati, imprevedibili e non puoi non affezionarti a loro. Così anche a noi sembra di vivere in questa casa dove è difficile trovare la solitudine se non arrampicandosi sul tetto e dove alla fine però si trova sempre qualcuno che ti ascolta. Fosse anche un cane che si chiama Einstein.

Anna Osei, SOTTO LO STESSO SOLE, Mondadori, 2021
“Si chiamano figli di due terre, e nascono col sole sulla pelle. Crescono tra mondi complessi, tanto diversi, quanto avversi. Sognano in grande, non hanno confini, questo capiscono sin da bambini. Astratti in tempo di legge, ma visibili poiché fuori gregge, sono inguaribili estranei, nonostante i pensieri simultanei”. Più che dibattiti, scontri politici e sociali, prese di posizioni, è la narrativa che sa, come sempre, rappresentare la realtà. Così le nuove voci italiane hanno la pelle nera e sanno raccontare cosa significa crescere e essere una minoranza immediatamente visibile nel nostro paese. Uno di questi talenti è sicuramente Anna Osei, nata e cresciata a Mantova, appena laureata in Diritto internazionale a Coventry, che in SOTTO LO STESSO SOLE, appena pubblicato da Mondadori, racconta una storia d’amore tra due giovani che non potrebbero essere più diversi ma che a uno sguardo esterno invece sembrano appartenere allo stesso mondo. Perché Marlene e Steven hanno entrambi la pelle nera ma mentre la ragazza ventenne afrodiscendente è stata adottata da piccola da una famiglia dell’alta borghesia romana, Steven è dovuto fuggire dalla Nigeria perché rischiava di venire ucciso in una guerra civile. Così seguiamo le loro due esistenze praticamente contrapposte: Marlene ha frequentato le migliori scuole, ha visto esauditi tutti i suoi desideri ed è una promettente ballerina classica; Steven vaga per l’Europa, viene espulso dalla Francia e in Italia si arrabatta con vari lavoretti ed è accolto e aiutato da un sacerdote che gestisce un piccolo negozio etnico. Ma viene derubato dei documenti e la discesa è sempre più profonda. I due giovani si incontrano alla mensa della Caritas dove Steven cerca, pieno di dignità, un pasto caldo e Marlene, disobbedendo ai genitori, conduce interviste per un progetto scolastico. Sono due ragazzi pieni di talenti e fiduciosi verso il mondo, che però continua a deluderli e non corrisponderli. Anna Osei riesce a unire in un romanzo fresco e scorrevole, che ha il sapore del diario, la storia d’amore tra due giovani alla ricerca di se stessi e il racconto di un mondo che discrimina e ipoteca sempre più il loro futuro.

Alessandro Zaccuri, LA QUERCIA DI BRUEGEL, Aboca, 2021
“Qualche artista, ogni tanto, ricorda e allora lascia una traccia, dispone indizi che non sono la chiave di un enigma, ma la condivisione di un destino”: il romanzo di Alessandro Zaccuri, LA QUERCIA DI BRUEGEL, si muove tra l’arte e la realtà, tra lo straordinario e la quotidianità. Prende il via in un albergo di catena a Bruxelles nel 2016, nei giorni dell’attacco terroristico alla città. Protagonista del romanzo è uno scrittore di cui non conosciamo il nome anche perché in realtà ne usa diversi, secondo i libri che scrive. Dietro i vari pseudonimi si nasconde un cinico e malinconico autore che, viste fallite le sue ambizione letterarie, costretto a riconsiderare le sue aspettative, si è adattato a scrivere biografie romanzate di basso consumo ma di un certo successo. Si trova a Bruxelles proprio per scrivere di Bruegel e dei suoi figli. Ma intanto, prigioniero nell’albergo, osserva e fa congetture sugli altri ospiti e in particolare sull’altra italiana, una dottoressa di mezza età a suo modo affascinante. Ma quando la conoscerà meglio, durante una cena in cui si faranno compagnia, quasi come Joseph Conrad nelle bettole che frequentava per cercare storie, la donna gli aprirà le porte di una vicenda incredibile che riguarda insieme il cervello e il cuore umano. Ed è qui che troveremo la quercia del titolo. Alessandro Zaccuri ci apre tante strade narrative e si diverte a farlo: ci racconta della scrittura ma anche del mondo editoriale e di noi lettori; ci parla in maniera colta e precisa di arte e viene voglia di fare la valigia per andare ad ammirare Bruegel dal vivo; ci immerge nei misteri del nostro cervello, nelle tante percezioni che aprono continuamente nuovi punti di vista sulla realtà. Perché la vita, come ammette anche il cinico protagonista del romanzo, riesce, per fortuna, sempre a sorprenderci.

Nadeesha Uyangoda, L’UNICA PERSONA NERA NELLA STANZA, 66than2nd, 2021
Appartenenza, pregiudizi, razzismo, colorismo, intersezionalità, migrazioni, cittadinanza, colonialismo, rappresentanza, minoranze, privilegio: questo libro è pieno di parole. Beh per forza, direte voi, è un libro. Invece non è così scontato perché l’autrice ragiona sulle parole e ce le mostra in qualche modo amplificate, nelle loro massime espressioni, nelle conseguenze che causano, nei preconcetti che innescano ma anche nei significati che si portano dietro. Raccontando anche la sua storia di italiana con genitori di origine cingalese, la giornalista Nadeesha Uyangoda ci fa riflettere sul valore delle parole e sull’importanza di una corretta narrazione. O meglio sui rischi di una storia unilaterale. E lo fa percorrendo anche la sua esistenza, dal suo arrivo in Brianza a sei anni dallo Sri Lanka agli studi universitari sino alla sua famiglia allargata e insieme raccontando episodi del suo lavoro, e attingendo a letture, incontri, ricordi, dibattiti, fatti di cronaca, scambi sui social. L’UNICA PERSONA NERA NELLA STANZA è un libro pieno di voci, pareri, sguardi, punti di vista. Perché da ottima giornalista qual è l’autrice non trascura nessuna presa di posizione e anche quando afferma le sue convinzioni, sempre documentate e sentite, non ignora obiezioni e punti di vista diversi. Nadeesha Uyangoda dimostra una grande capacità di analizzare i fatti e di riportare parole ed esperienze alla loro essenza e insieme di allargare l’analisi oltre il singolo avvenimento. E ci regala uno sguardo profondo e vero sul nostro paese e un prezioso strumento per leggere la realtà in cui viviamo. Per provare magari a cambiarla, partendo da noi, qualsiasi sia la nostra situazione, dalle parole che usiamo, dai pregiudizi che alimentiamo, dagli incontri che facciamo, dal tipo di cittadini che vogliamo essere.

Sally Bayley, LA RAGAZZA CON LA COLOMBA, Clichy, 2021 (traduzione di Giada Diano)
I memoir ci regalano spesso ottima letteratura e questo libro non ha deluso le mie alte aspettative. La vita della giovane protagonista viaggia su due binari apparentemente lontani: la sua quotidianità in una casa popolare di una cittadina inglese sul mare, abitata da cugini e fratellini, la madre, la nonna, la zia e nessuna traccia dei padri e il mondo senza confini dei libri che legge. Il regalo più grande che le fa la madre è portarla a cinque anni alla biblioteca pubblica e farle la tessera che le aprirà mondi desiderabili e inaspettati, e le farà trovare le sue “simpatie naturali”. Che sono le persone scomparse nei libri, sono parenti che non hai mai saputo di avere ma che hai sempre desiderato. Per Sally sono Miss Marple perché vorrebbe abitare il suo mondo ordinato e prevedibile e Jane Eyre in cui invece ritrova il pessimo rapporto con la zia e con il suo aspetto. Poi entra in scena David Copperfield e il gioco tra realtà e immaginazione prosegue; intanto Sally cresce e decide di esplorare luoghi meno ristretti del suo, fosse anche lo studio di un medico. Ma la famiglia matriarcale si sente tradita e Sally sarà costretta a decidere se fuggire o tornare. Così come Jane Eyre. Il romanzo di formazione di una lettrice e scrittrice di grande talento.

Mario Desiati, SPATRIATI, Einaudi, 2021
C’è chi resta e c’è chi se ne va e non è un caso che dei due personaggi principali del romanzo di Mario Desiati sia quello femminile, Claudia, che lascia appena può la natia Martina Franca. Anche se poi gli spatriati del titolo non sono solo quelli che abbandonano la provincia per la grande città, l’Italia per l’Europa delle grandi possibilità, perché tutti in qualche modo siamo stati estranei a qualcosa se non a noi stessi. Il libro di Mario Desiati gioca sul doppio: due protagonisti apparentemente molto diversi ma che non si staccheranno mai; la totale anarchia e la cieca religiosità; l’amore vero e i matrimoni falliti; l’aspetto esteriore e i sentimenti che cuociono dentro; ricchezze antiche e povertà moderne, innegabili talenti compresa la capacità o la volontà di non usarli. Il valore del romanzo è anche in questi sguardi duplici, non c’è mai un unico punto di vista, un’unica possibilità di svolta, un unico desiderio sessuale, alla fine un’unica visione della vita. Per fortuna. E poi c’è l’Italia come neanche un trattato di sociologia saprebbe raccontare; non solo la generazione di chi, come l’autore, si è affacciato ai quaranta, ma in realtà tutti noi ritroviamo una parte della storia recente che abbiamo vissuto. Del resto Desiati è un abile narratore di luoghi, riesce a restituirne il clima, gli odori, gli umori, la vera essenza ma sempre in relazione alla storia e ai suoi personaggi. Così alla fine Spatriati riesce ad essere un inno alla giovinezza ma anche al tempo che passa e ai segni che ci lascia addosso.

Sorj Chalandon, IL GIORNO PRIMA, Keller, 2021 (traduzione di Silvia Turato)
CHIEDERÒ PERDONO AI SOGNI è uno dei libri che ho amato di più in questi anni e ritrovare Sorj Chalandon è stato insieme emozionante e doloroso. Il nuovo romanzo ha molto in comune con quello ambientato in Irlanda durante la guerra civile. Qui siamo in Francia e il racconto prende il via dall’incidente alla miniera di Lievin nel 1974 che ha causato 42 vittime. In realtà per il protagonista del romanzo sarebbero 43 perché l’amato fratello Jojo, rimasto gravemente ferito, muore un mese dopo. Michel cresce senza il fratello e poi senza il padre, lascia la provincia per Parigi dove trova lavoro, si sposa, prosegue la sua esistenza. Finché, dopo la morte dell’amata moglie Cecile decide di tornare al paese natale per vendicarsi della miniera. Come sempre Chalandon sa raccontare i pensieri e le emozioni più intime dei suoi personaggi e insieme il contesto sociale in cui vivono. Qui c’è una precisa denuncia del lavoro nelle miniere e insieme una riflessione intensa sulla colpa. Si racconta di giustizia, destini, scelte e di prigioni fisiche e mentali. Con uno sguardo lucido, empatico e uno stile avvolgente e quasi spietato nel ritmo sempre sostenuto. Da leggere.

Ron Rash, UN PIEDE IN PARADISO, La nuova frontiera, 2021 (traduzione di Tommaso Pincio)
Sicuramente, come dice Irvine Welsh nel risvolto di copertina, colpisce da subito la capacità narrativa di Ron Rash. È davvero un grande narratore di storie. Sembra che ti si sieda di fianco, cominci a racontare e non puoi non ascoltarlo. Così conosci lo sceriffo Will che ha scelto di non lavorare nella fattoria paterna, chiamato a indagare sulla scomparsa di Hollande, giovane uomo attaccabrighe ma anche reduce di guerra. Lo sceriffo ha capito cosa può essergli successo ma la vicenda serve a dare il via al ritratto inesorabile, spietato e insieme affettuoso di una piccola comunità del Sud degli Stati Uniti negli Anni Cinquanta che rischia di scomparire a causa della costruzione di una grande diga. Si alternano cinque voci nel racconto ma in realtà il romanzo mette in scena uno spaccato quasi doloroso nella sua veridicità di una vasta umanità impegnata a trovare e poi cercare di ottenere uno scopo di vita. Che può essere diventare genitori come lasciare un destino segnato; onorare il lavoro del padre o ottenere un ruolo nella comunità. E poi c’è la diga che cancellerà il passato e che rischia di travolgere non solo la terra ma anche il futuro degli abitanti di Oconee, che è già un luogo letterario. Così succede che i personaggi del romanzo sono diventati dei nostri parenti acquisiti e non possiamo non preoccuparci per loro. La traduzione di Tommaso Pincio mantiene il ritmo serrato e denso del romanzo, lo sguardo desolante e insieme partecipe dell’autore verso le donne, gli uomini, il cavallo che racconta.

Chaim Grade, FEDELTÀ E TRADIMENTO, Giuntina, 2021 (traduzione di Anna Linda Callow)
Se dovessi rileggere questo libro partirei dalla postfazione di Anna Linda Callow che è anche la traduttrice e di Tommaso Bellini che forse avrei messo all’inizio. Per quelli come me a cui mancano molti riferimenti culturali e sopratutto filosofici che in realtà non sono necessari nel primo racconto ma che mi sono molto mancati invece nel secondo. Il tema dei due racconti è quello che dice il titolo: fedeltà o tradimento? Cioè la scelta, forse però non sempre necessaria, tra studi religiosi e studi profani, tra la tradizione e la partecipazione al mondo, tra seguire i dettami della religione e la visione laica della vita. Il primo racconto GIURAMENTO è uno dei più belli che ho letto, non solo della letteratura ebraica. Racconta la tensione tra le aspirazioni dei figli e i desideri che in punto di morte diventano quasi dogmi del genitore. I due giovani non vogliono mantenere la promessa fatta in punto di morte al padre anche rischiando di deludere la madre ma Chaim Grade riesce quasi a dipingere, con uno stile avvolgente e poetico, tutte le complesse sfumature dei rapporti e dei sentimenti dei suoi protagonisti. Dove spiccano le figure di Rabbi Zelikman, il negoziante rabbino e di Bat Sheva, la giovane ed elegante vedova di Shlomo Rapiport. Dal microcosmo dello shtetl lituano ci spostiamo a Parigi per seguire la vivace diatriba filosofica e non solo tra due amici divisi dall’ideologia. Uno è rimasto legato all’ortodossia e all’intransigente studio della Torà. L’altro è affascinato dalla cultura e filosofia europea. Sicuramente Chaim Grade, considerato uno dei più grandi scrittori yiddish del XX secolo, con le sue storie, apre a interrogativi che riguardano tutti noi.

Gabriele Romagnoli, COSA FARESTI SE, Feltrinelli, 2021
COSA FARESTI SE, il nuovo romanzo di Gabriele Romagnoli, è un vario catalogo di umanità, ritratta nella sua straordinaria quotididianità. Incontriamo così quelli che potrebbero essere i nostri vicini di casa, i compagni di viaggio, i volti familiari che incrociamo ogni giorno. Raccontati però nel momento in cui si trovano di fronte a un bivio, a una scelta che può cambiare il resto della loro esistenza. Così Laura e Raffaele devono, in una notte, decidere se diventeranno genitori; Adriano se denunciare il figlio; Gigi Mazzoni se aiutare il suo piccolo compagno di volo; Giovanni e Sara se mettere in gioco le loro vite. Tanti personaggi di cui via via scopriami i legami, grazie a una costruzione del libro, diviso in sette giorni, che sembra un labirinto circolare, dove tutto vive di incroci e ritorni. È quasi un gioco teatrale ma in realtà rappresenta bene il palcoscenico della vita, la casualità che diventa destino. Il romanzo è un caleidoscopio di relazioni umane: racconta di incontri casuali, riconoscimenti, intese fortuite, solitudini, matrimoni, genitori e figli, soffermandosi sui rapporti tra le generazioni, senza trascurare nessuna stagione della vita. Gabriele Romagnoli ci fa entrare all’interno dei luoghi e delle case che diventano il dietro le quinte della vita di coppia, il ring dei contrasti familiari, i rifugi dal mondo di fuori. Grazie a una scrittura letteraria, efficace, quasi poetica, che non spiega ma mostra e racconta, ci sembra di partecipare alle scelte dei personaggi, di dover rispondere alle tante domande che ci si susseguono nel racconto, di interpretare i silenzi che avvolgono i momenti cruciali. COSA FARESTI SE sembra anche dialogare con gli altri libri di Gabriele Romagnoli: ci sono allusioni alla cronaca recente, riflessioni sulla giustizia, passeggeri di un volo aereo, andate e ritorni, punti di vista, ultimi amori, sguardi indietro per vedere cosa eravamo e cosa siamo diventati e trame di futuro che non si sono avverate perché “La fantasia è un treno che sparisce nella luce”.

Rye Curtis, TUTTO IL BENE CHE SI PUÒ, Bompiani, 2021 (Traduzione di Francesca Gatti)
Gli strilli in copertina di due autori così diversi come Roddy Doyle e Jennifer Egan mi avevano incuriosito e convinto ad aprire le pagine del romanzo di esordio di Rye Curtis che mi ha da subito inghiottito come i Monti Bitteroot hanno catturato la protagonista della storia. Cloris Walprid, infatti, vivace e sana settantenne texana, bibliotecaria per quarant’anni, un matrimonio sereno e complice, il rimpianto ormai accettato per la mancata maternità che le ha fatto però lasciare l’insegnamento, si ritrova dispersa in mezzo alle montagne. Unica sopravvissuta al volo per raggiungere una baita affittata per le vacanze, Cloris lascia l’aereo con i cadaveri dell’amato marito e del giovane pilota e si mette in cammino nella natura selvaggia per cercare di salvarsi. Il viaggio della nostra tenera, tenace e anche ironica protagonista si alterna alla storia di Debra Lewis, la ranger che si ostina a non interrompere le ricerche dell’unica superstite. Tra litri di scadente Merlot che ingurgita ad ogni ora del giorno e della notte, che fanno ubriacare anche noi solo leggendo, e tristi vicende sentimentali ci affezioniamo anche alla seconda protagonista del romanzo, raccontata in terza persona. Ma è la voce di Cloris, diretta, vera, senza falsi pudori, comica e drammatica insieme che ci entra dentro e fa della bibliotecaria settantenne uno di quei personaggi indimenticabili che ricordiamo con affetto pensando alle nostre letture. Perché da una parte Cloris è una di noi, con un’esistenza anche ordinaria, dall’altra, di fronte al rischio di soccombere, scopre e sa sfruttare inaspettate risorse fisiche e mentali. E poi sa raccontare la vita in generale, non solo la sua, con profondità e semplicità e con sguardo acuto, affettuoso e ironico, senza ovvietà. Un libro che fa sorridere e pensare.

John D. MacDonald, FACILE PREDA, Mattioli 1885, 2021 (traduzione di Nicola Manuppelli)
Come ci comporteremmo di fronte alla possibilità di entrare in possesso di tantissimi soldi e tenercerli senza che nessuno venga a reclamarli? Fino a che punto può arrivare la nostra insoddisfazione e la voglia di cambiare vita? E una volta innescato il meccanismo, sapremo tornare indietro? Ci risponde Jerry Jamison, il protagonista di FACILE PREDA di John D. MacDonald, pubblicato dalle sempre curate edizioni Mattioli 1885 ed efficacemente tradotto da Nicola Manuppelli. Quando alla sua porta bussa Vince Biskay, un vecchio compagno dell’esercito, che gli propone un furto molto facile e senza rischi, Jerry, una moglie bella, ricca e viziata, ormai alcolizzata e un lavoro di poca soddisfazione nell’impresa edile del suocero, trova la proposta assurda e impossibile da accettare. Poi però il pensiero comincia a scavare nella sua mente e l’idea di ricominciare magari con l’amata Liz, sua segretaria nonché amante segreta e recuperare i sogni e le ambizioni di quando era giovane diventa sempre più convincente. Tanto da rischiare tutto e seguire la proposta di Vince, ma anche scoprire dei lati di sé che non pensava di avere. FACILE PREDA è un romanzo avvincente, dal ritmo incalzante, con colpi di scena continui e farà la felicità di chi ama l’azione anche in narrativa. Ma offre anche uno sguardo non banale sulla società americana e sui condizionamenti sociali che ci portano a tradire convinzioni e ambizioni personali. C’è poi una profonda riflessione sul fallimento, non solo economico e sullo status che regala una grande villa, una moglie attraente, l’ampia possibilità economica. Sì, ma quale prezzo? Così Jerry diventa facile preda del piano di Vince ma anche testimone del labile confine tra giusto e sbagliato. John Dann MacDonald (1916 – 1986) è stato uno scrittore di romanzi gialli e di suspense, molti dei quali ambientati in Florida. Autore di CAPE FEAR - IL PROMONTORIO DELLA PAURA (1958), da cui sono stati tratti due film, è anche l’unico scrittore di thriller ad aver vinto il National Book Award. Kurt Vonnegut e Stephen King lo considerano un maestro e uno dei grandi autori della letteratura americana, al di là di ogni confine di genere.

John Freeman, FREEMAN'S AMORE, Black Coffee, 2021
C’è sempre grande attesa per la periodica uscita di FREEMAN’S, la rivista letteraria del critico e poeta americano John Freeman, pubblicata in Italia da Black Coffee. La varia e ricca antologia è infatti un’occasione indispendabile per scoprire nuove voci letterarie internazionali o leggere racconti, poesie, brevi saggi degli scrittori che già conosciamo e amiamo. Come sempre infatti John Freeman ha chiesto ad autori più o meno noti di cimentarsi con un tema quanto mai ampio e ci regala quindi una grande varietà della declinazione della parola amore. Troviamo così l’amore giovanile lasciato a Parigi e condito di rimpianto raccontato dalla scrittrice argentina Mariana Enriquez, pubblicata in Italia da Marsilio, o l’amore coniugale, forgiato dal tempo al centro del romanzo del bosniaco Semezdin Mehmedinovic che possiamo leggere intero grazie a Bottega Errante. Di un drammatico controllo in un aereoporto italiano ci racconta Maaza Mengiste che traccia la mappa dei legami familiari tenuti insieme anche da un fragile braccialetto. Amore per la famiglia anche nel racconto della scrittrice cinese An Yu che rivede il suo recente passato attraverso la figura di una vecchia ciabattina che si è rifiutata di lasciare la sua bottega. Daisy Johnson indaga l’amore tra sorelle e come cambia un rapporto conflittuale di fronte alla malattia. Il primo autore italiano ad essere presente nella rivista è Marco Rossari che racconta gli uomini ma soprattutto il sesso con gli occhi di una tredicenne che crescendo si fa meno tonta e riesce a evitare situazione pericolose. Ma certo gli uomini non ci fanno una gran bella figura. Ma sono moltissimi i percorsi possibili e che ognuno può seguire all’interno delle pagine perché c’è, come sempre, una grande varietà di generi, voci, punti di vista, lingue, provenienze geografiche. Ci sono nomi affermati come il premio Nobel Olga Tokarczuk o il Pulitzer Richard Russo, ma anche grandi scoperte, tra tutte la scrittrice norvegese Gunnhild Oyehaug, che ancora non è tradotta in italiano. E poi ancora Anne Carson, Sandra Cisneros, Mieko Kawasaki, Daisy Johnson... insomma, una fonte inesauribile di belle letture.

Teresa Ciabatti, SEMBRAVA BELLEZZA, Mondadori, 2021
“Ma rimanere impresse era desiderio comune. Generazione che non voleva essere dimenticata (perché hai cominciato a scrivere, scrittrice? Quale traccia volevi lasciare? Quale messaggio a voi che venite dopo? Ma poi: tu sei in grado di lasciare un messaggio?)”: SEMBRAVA BELLEZZA è un concentrato di domande, e oltre a queste che la voce narrante rivolge a se stessa, sono tante quelle che il lettore via via si pone. A partire dall’attendibilità della protagonista, scrittrice e giornalista affermata, che ripercorre, grazie anche a un recente incontro con un’amica del passato, la sua giovinezza, vissuta a Roma nel quartiere Parioli negli Anni Ottanta. Da allora sono passati molti anni ma l’adolescenza è ritratta come il detonatore della nostra vita futura, come una raccolta di episodi più o meno verosimili che però non ci hanno insegnato niente. SEMBRAVA BELLEZZA è un giro sulla ruota panoramica - quella che la voce narrante cerca appena arrivata a Roma dalla provincia con il viso troppo truccato e lo zainetto sbagliato - uno stravolgimento di episodi, fatti, pensieri, sentimenti, punti di vista. Il lettore viene quasi preso per i capelli, evocato, cercato, desiderato, provocato ma soprattutto diventa un personaggio del romanzo. Teresa Ciabatti non lesina il suo talento e la sua capacità narrativa e grazie a un’ironia sottile, che gioca anche su se stessa, non risparmia niente e nessuno, dalla percezione del corpo al disagio mentale, dal rapporto genitori-figli al bilancio di una vita sino al confronto tra chi eravamo e le persone che siamo diventate. La scrittura, apparentemente colloquiale è in realtà colta, raffinata, chirurgica, musicale. E lo stile che alterna storie, cronaca, incisi, considerazioni sembra prendersi gioco e portare all’estremo anche la forma romanzesca, facendoci credere di trovarci di fronte a un tradizionale memoir. Ma neppure della memoria possiamo fidarci: “oggi io dico che la memoria va a caso. Così come l’immaginazione”.

Amity Gaige, LA SPOSA DEL MARE, NNE, 2021 (Traduzione di Laura Noulian)
“Per un po’ mi ero chiesta se ciò che ero diventanta negli ultimi anni – scettica, ansiosa, arrabbiata – fosse il mio vero io o piuttosto la distorsione prodotta da una storia deformante. Ma in mare, come la studiosa che verga il suo ultimo appunto, non avevo nulla che mi impedisse di rispondere a questa domanda, nulla che ostacolasse la mia conoscenza di me stessa. C’era solo un orizzonte sempre più vasto, vuoto in ogni direzione, un’assenza di interferenze, una prospettiva senza mediazioni: il puro, terrificante, io”: la protagonista di LA SPOSA DEL MARE di Amity Gaige, studiosa di poesia e mamma di Sybil sette anni e George due e mezzo, si lascia convincere dal marito Michael a trascorrere un anno in giro per i Caraibi in barca a vela. Juliet non ama particolarmente il mare, non ha dimestichezza con le barche ma soprattutto teme che le diversità tra lei e il marito diventino insostenibili in uno spazio così ridotto. Il romanzo di una delle maggiori scrittici americane suscita molte suggestioni e pensieri e ci accompagna in un viaggio che prima di essere quello in barca a vela è all’interno del matrimonio della giovane donna con la testa piena di poesie e con un trauma infantile mai superato e di Michael, metodico e preciso ai limiti della noia che però manda all’aria la sua vita ordinata per vestire i panni del sognatore, desideroso di tagliare i ponti con la quotidianità e le sue regole. Così partiamo anche noi, avvolti dalle cronache del preciso diario di bordo di Michael e dalle allusive, poetiche, contrastanti, ironiche parole di Juliet. Fino a ritrovarci sulla terraferma, chiusi in un armadio a muro, a difenderci dal mondo. E via via assorbiamo sempre più il senso della complessità delle relazioni umane e ci chiediamo cosa sappiamo davvero delle persone che ci vivono accanto. Anche se non navighiamo su una barca a vela: “È questo. La vita è questo. Un viaggio senza indicazioni. I mari si stendono in ogni direzione”.

Claudio Piersanti, QUEL MALEDETTO VRONSKIJ, Rizzoli, 2021
“Mi piaceva il mio lavoro. A quarantasei anni ero già estinto. Io venivo dal piombo. Trent’anni di lavoro... Sono entrato in una tipografia a diciotto anni. Il piombo era il martirio dei tipografi! Martiri della stampa a piombo, la stampa più bella mai realizzata nel corpo vivo della carta, ma voi lettori di fotocopie non potete capirlo e non lo capirete mai. I tipografi sono i martiri della libertà!”: il nuovo libro di Claudio Piersanti, QUEL MALEDETTO VRONSKIJ, vede al centro del racconto Giovanni, che ha, dopo un doloroso licenziamento, aperto una piccola tipografia, grazie anche all’eredità ricevuta da uno zio. La sua vita è segnata da riti e incontri più o meno rassicuranti: il bar di fianco, il pranzo con l’amico Gino, le visite della cugina e soprattutto il matrimonio riuscito con Giulia. La storia prende il via dalla malattia che colpisce questa unione riuscita sino a quando, una volta guarita, Giulia non scompare lasciando a Giovanni un laconico biglietto. Il racconto si concentra sull’uomo cinquantenne e sulle strategie più o meno riuscite per riempire l’improvviso vuoto accanto a lui e tentare di trovare una risposta all’abbandono dell’amata moglie. Tutto sembra perdere di senso e la solitudine è alleviata più dal lavoro che dalla sollecitudine degli amici, rimasti ugualmente sorpresi dalla decisione di Giulia. Una delle idee per rimanere in qualche modo vicino alla moglie che Giovanni si inventa ruota intorno a una copia di Anna Karenina ed è legata all’ironico titolo del libro. Il romanzo di Claudio Piersanti è anche un preciso e raffinato spaccato del nostro paese, a partire dalla lenta estinzione dei mestieri artigianali e del piacere e della relativa fatica delle cose fatte a regola d’arte e con la maestria e la precisione di cui necessitano. È un libro insieme antico e moderno, ma non diventa mai nostalgico perché è soffuso di un’ironia così sottile e raffinata che ti porta a pensare e sorridere insieme. E così ogni lettore ritrova sé stesso perché Claudio Piersanti, da maestro indiscusso della letteratura italiana, ci accompagna per mano attraverso la vita, che è per tutti segnata da sogni, incontri, intralci, amori, amicizie, abitudini e lo scorrere inesorabile del tempo.

Damir Karakas, MEMORIE DELLA FORESTA, Bottega errante, 2020 (Traduzione di Elisa Copetti)
Dello scrittore croato avevo amato IL POSTO PERFETTO PER L’INFELICITÀ, ma in questo nuovo romanzo ci porta in un luogo molto diverso da Parigi e soprattutto ci racconta un’infanzia. Ci troviamo negli Anni Sessanta in un villaggio rurale della Lika e il nostro protagonista nasce con un misterioso problema cardiaco. Seguiamo la sua crescita attraverso 33 brevi episodi che vanno a formare il mosaico della sua esistenza, ma anche della storia della sua famiglia e del suo paese. Damir Karakas ha raccontato che per scrivere spesso si immerge nella foresta e il romanzo sembra proprio un uomo in cammino che ricorda il suo passato. In fondo anche le nostre vite, se ci pensate, sono segnate da episodi anche minimi che la memoria ha conservato e rielaborato e che dicono chi siamo stati e cosa siamo diventati. Ci sono tantissime considerazioni da fare sulla lettura di questo libro che ha una capacità quasi infinita di amplificazione. Episodio per episodio.

Alberto Manguel, MOSTRI FAVOLOSI. DRACULA, ALICE, SUPERMAN E ALTRI AMICI LETTERARI, Vita&Pensiero, 2020 (Traduzione di Giovanna Baglieri)
“I lettori hanno sempre saputo che i sogni narrativi danno vita al mondo che chiamiamo reale” e “... i personaggi inventati più riusciti spesso sembrano più vivi dei nostri amici in carne e ossa”. Il libro di Alberto Manguel, paladino di tutti noi lettori, è un catalogo di personaggi letterari che induce pericolosamente a letture compulsive e insieme anche la sua autobiografia letteraria. Perché in realtà ogni biblioteca è un’autobiografia e qui conosciamo molti episodi dell’esistenza del grande studioso, facendo un viaggio in mezzo ai libri che hanno segnato la sua vita. Possiamo anche leggerlo non di seguito ma scegliendo i personaggi che racconta o anche come un breviario di suggerimenti di lettura. Perché di ogni personaggio, da Alice a Heidi, da Dracula a Frankenstein, Manguel ci racconta i suoi “cugini” letterari, passati e futuri. In un intreccio di storie, echi, parole, immagini, considerazioni non solo letterarie ma anche politiche e sociali che è la magia e la dannazione che ci regala la lettura.

Elisa Ruotolo, QUEL LUOGO A ME PROIBITO, Feltrinelli, 2021
“Tutto è cominciato prima di me. Vorrei poter vantare un inizio solo mio, invece mi rendo conto che di privato possiedo ben poco. Ogni cosa che mi riguarda è stata eternamente condivisa, fatta in brani e poi sparita. Forse per questo ho accumulato come un ritardo sul resto, e un giorno mi sono ritrovata a incolonnare le cifre del mio vivere mentre gli altri tiravano la linea del bilancio”: leggere QUEL LUOGO A ME PROIBITO è come aprire un vecchio album di foto e scoperchiare un formicaio di ricordi. La protagonista lo dice infatti da subito: non nasciamo nudi ma avvolti dalle vite di quelli che ci hanno generato e sono vissuti prima di noi. Quindi uno sguardo al passato, a una famiglia ossessionata dalla vergogna e dal finire sulla bocca degli altri ma anche poco generosa soprattutto verso i propri figli e un presente dove tentare di sfuggire a un destino predefinito che può avere anche il fascino languido del rifugio. La voce narrante troverà a più di quarant’anni in un incontro fortuito un appiglio per uscire dalla morsa in cui sono imprigionate le sue decisioni ma anche il suo corpo ma non sarà facile neppure aprirsi e affrontare i rischi della libertà. Il romanzo di Elisa Ruotolo sa raccontare il piccolo mondo antico e insieme il condizionamento che la protagonita subisce e che le impedisce di prendere consapevolezza del suo corpo e dei suoi desideri: ”Ma al mondo non si sta composti, si sta vivi: questo avevano sempre evitato di dirmelo”. A causa di un’educazione così castrante, che incombe come una catastrofe sulle vite delle giovani donne raccontate nel racconto, accade che la protagonista vive sempre con il freno a mano tirato e, al contrario, l’amica Nicla si butta nell’esistenza a tutta velocità, rischiando di finire in un uguale burrone di infelicità. Sono tanti i sentimenti e i pensieri che nascono da questo romanzo insieme timido e spudorato dove si parla di amore, sesso, scelte, luoghi, fughe, libri, educazione, colpe, eredità morali e non solo fisiche. Una voce autentica e letteraria dove la scrittura raffinata e preziosa amplifica ancora di più i dissidi e le contraddizioni vissute dalla protagonista.

Benjamín Labatut, QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO, Adelphi, 2020 (traduzione di Lisa Topi)
“Questa è un’opera di finzione basata su fatti reali”: saggio, romanzo, biografia, trattato scientifico, racconto storico e tanto altro, il libro di Benjamín Labatut QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO è difficile da definire ma non è necessario farlo. È infatti sufficiente aprirlo per essere immersi in un libro unico, estremamente interessante e seduttivo. Lo scrittore cileno ci guida in un viaggio dove ognuno di noi può seguire i fili narrativi che più gli corrispondono ma in realtà il libro ci invita anche a lasciarci sorprendere e addentrarci così in alcuni racconti che insieme ci illuminano sulla nascita della scienza moderna e sul rapporto tra scienza e etica. Così Labatut racconta la scoperta e l’utilizzo dei gas letali, la guerra per l’azoto, il concetto di buco nero, la fisica quantistica in una riflessione che unisce la scienza alla storia ma soprattutto racconta uomini che hanno cambiato nel bene e nel male il mondo, cercando prima di tutto di leggerlo e interpretarlo: “... era la matematica – non le bombe atomiche, i computer, la guerra biologica o l’apocalisse climatica – che stava cambiando il nostro mondo, al punto che, nel giro di vent’anni al massimo, non saremmo più stati capaci di capire cosa significa essere umani”. In questo modo Labatut ci racconta cos’è il genio, il talento che riesce ad esprimersi anche nelle condizioni più disagevoli perché al di là di un ricco principe, gli scienziati di cui segue l’esistenza sono tutti vittime di condizioni di vita disagevoli se non disastrose. QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO è anche un ritratto dell’umanità e del suo incessante tentativo non solo di indagare il mondo, ma anche di cambiarlo perché “anche la scienza, se vista da una certa prospettiva, è una forma particolare di follia: la follia di pensare che possiamo capire il mondo”. Mentre forse più che le formule matematiche sono le storie che possono aiutarci a capire la complessità delle leggi della natura e che il genio si manifesta anche attraverso la scrittura, come dimostra il talento di Benjamín Labatut.

Hala Kodmani, LA SIRIA PROMESSA, Francesco Brioschi Editore, 2020 (traduzione di Elisabetta Bartuli)
“Non c’è niente di immaginario in questo racconto di immaginazione” scrive Hala Kodmani, l’autrice di LA SIRIA PROMESSA, che unisce davvero la fiction alla realtà. Perché prende il via da un’impossibile email mandata dalla protagonista al padre scomparso nel 2008. Comincia così il 15 novembre 2010 un’immaginaria corrispondenza tra Hala, reporter di origine siriana che vive a Parigi e il padre Nazem, avvocato e diplomatico siriano, esiliato in Francia dal regime degli Assad. Ripercorriamo così la storia ma anche la cultura della Siria in uno scambio tra generazioni che è il grande valore del libro. Nella seconda parte infatti leggiamo il racconto in diretta dei fatti salienti della rivoluzione araba del 2011 e della conseguente sanguinosa repressione proprio nel paese con capitale Damasco. Ma LA SIRIA PROMESSA è anche un racconto di famiglia, una grande famiglia colta, poliglotta e cosmopolita che si impegna contro l’ingiustizia e per la democrazia, e il ritratto di un uomo che ha sempre perseguito il bene del suo paese. Così questo romanzo in forma di dialogo ci permette di conoscere meglio la storia e la situazione attuale della Siria ma anche di riflettere sui meccanismi della giustizia, sul colonialismo passato e su quello presente, sulle dinamiche economiche e politiche che causano povertà e guerre, sulla mancanza di istruzione, sui fragili equilibri in Medio Oriente, su chi è costretto a lasciare il proprio paese per dare ai figli un futuro migliore e sulle dinamiche culturali che influenzano la nostra vita. Come scrive Elisabetta Bartuli che ha curato e tradotto il libro: “questi tre punti – la promessa di sincerità, il dovere di memoria e la richiesta di modificare lo sguardo – sono la chiave di lettura de LA SIRIA PROMESSA, un’opera narrativa che si inventa un genere letterario ibrido e lo dispiega con successo, riuscendo a tessere un racconto che risulta intimo e distanziato al tempo stesso, che riordina i capisaldi di una storia movimentata, che mette in luce la parte migliore di più generazioni di siriani riservando una cura particolare ai rapporti interpersonali”.

Francesca Mannocchi, BIANCO È IL COLORE DEL DANNO, Einaudi, 2021
“È l’altro che ci vede e vedendoci ci racconta, è l’altro a suggerirci chi siamo. È lo sguardo, dunque, la gabbia?”: BIANCO È IL COLORE DEL DANNO, il memoir della scrittrice e giornalista Francesca Mannocchi prende il via dalla diagnosi di una malattia cronica che rischia di avere conseguenze invalidanti in un fisico per ora apparentemente integro. In realtà il racconto è molto di più e racchiude le varie anime di un’autrice che è lucida e coraggiosa inviata in molte zone di guerra, dalla Libia ai Balcani, dall’Egitto allo Yemen, ma anche abile artista della parola, raffinata fotografa, appassionata e competente lettrice, in particolare di poesia e filosofia. E molto altro perché il libro declina tanti sguardi e su tutti l’eterna amplificatrice di sguardi che è la letteratura. Francesca Mannocchi anche qui mantiene e anzi quasi esaspera la sua capacità di aprire punti di vista, di spostare i nostri occhi, di farci abbandonare i facili stereotipi o i confortanti riti sociali. Lo fa raccontando la sua vita, il rapporto con i genitori, gli anni dell’adolescenza, le scelte lavorative, in un percorso a ritroso che via via allena e sollecita il muscolo del ricordo, e che così diventa anche voce collettiva di una generazione e testimonianza profonda del nostro paese. Ci riesce scrivendo un libro tanto intimo quanto politico, indagando i sentimenti intorno alla malattia (paura, vergogna, rabbia, dolore, ribellione) con le parole scritte ma anche con le tante non dette e insieme rappresentando la società che viviamo tra sanità pubblica e privata, voci inascoltate, privilegi e conquiste, ingiustizie e sconfitte. Tanti e quasi infiniti i percorsi di lettura come il bianco che contiene in sé tutti i colori: si racconta di crescita, talenti, lavori più o meno scelti, amore, maternità, amicizia, desiderio di essere guardati, in uno stile che unisce l’efficacia e quasi la crudeltà della cronaca a riflessioni profonde che non scadono mai nel didascalico ma che si alimentano di dubbi e domande. Tanto che le parole di Francesca Mannocchi diventano respiro e entrano a far parte del nostro flusso sanguigno e quindi di vita.

Lulu Miller, I PESCI NON ESISTONO, ADD, 2020 (traduzione di Luca Fusari)
“Che senso ha la vita?” chiede una bambina di sette anni al padre scienziato. “Nessuno” risponde lui: la bambina in cerca invano di certezze è Lulu Miller, ideatrice e conduttrice di Invisibilia, uno dei podcast di divulgazione scientifica più amati dagli americani, e autrice di I PESCI NON ESISTONO pubblicato da ADD nella efficace traduzione di Luca Fusari. Il romanzo si gioca tra memoir e biografia, tra la vita della giovane protagonista e il racconto della carriera e delle vicende personali di Starr Jordan (1851-1931), uno dei più importanti tassonomisti del mondo. Quando Lulu viene a conoscenza della sua esistenza durante gli studi universitari lo elegge a suo maestro, anche di vita: “Caos è l’unica sicurezza di questo mondo. Il padrone che tutti domina. Mio padre, scienziato, mi insegnò presto che dalla Seconda legge della termodinamica non si scappa: l’entropia può solo aumentare, nessuno potrà ridurla, non esiste un modo per farlo. Un essere umano accorto accetta questa verità. Un essere umano accorto non si oppone. Eppure, un giorno di primavera del 1906, un americano alto con baffi da tricheco osò sfidare il nostro sovrano. Si chiamava David Starr Jordan, e per molti versi il suo lavoro era combattere contro Caos”. Seguiamo così parallelamente la vita personale della protagonista, dal padre scienziato, spietato razionalista, alla sorella maggiore che mostra segni di fragilità psichica, e insieme il lavoro di Starr Jordan che ha il merito di avere catalogato migliaia di pesci, ma che, come scoprirà Lulu Miller in seguito, è stato anche un sostenitore convinto della eugenetica. Il libro dell’autrice americana è un memoir intelligente e sentito, che vince la scommessa di declinare insieme un romanzo di formazione e un saggio di filosofia della scienza, senza fare rimpiangere nessuno dei due. Ma soprattutto è una fonte di domande sul mondo che ci circonda e sul senso della nostra vita, domande ugualmente necessarie e necessariamente senza risposta. Se non forse la certezza che non tutto è catalogabile e men che meno gli esseri umani e che i pesci davvero non esistono, come si scopre leggendo.

Federica Manzon, IL BOSCO DEL CONFINE, Aboca, 2020
“Mio padre era un pacifista... che credeva nel libero scambio delle persone e delle merci, nelle lingue straniere mescolate senza regole e nelle camminate nel bosco”: la giovane protagonista di IL BOSCO DEL CONFINE, l’intenso romanzo di Federica Manzon pubblicato da Aboca nella collana “il bosco degli scrittori” ci porta nel mondo del padre, fuggito dal suo piccolo paese di montagna in Jugoslavia per rifugiarsi infine a Trieste dove educa i figli all’amore per i boschi e i monti. Sarà la figlia a seguirlo per sentieri impervi e piste innevate anche nella parte di là, più a est, oltre il confine italiano, dove la foresta pare più selvaggia ma anche più controllata e misteriosa a difesa di un mondo imperscrutabile e per questo temuto dalla gente di qua. Mondo che Schatzi conoscerà e sentirà suo, quando, per il sedicesimo compleanno, il padre le regalerà il biglietto per le Olimpiadi invernali di Sarajevo del febbraio 1984. È qui che si sposta la seconda scena del racconto, segnato dalla grande festa olimpica, dal riconoscimento che la giovane donna sente per la città, così vivace, accogliente e cosmopolita, anche grazie all’incontro con il coetaneo Luka, ma anche da segnali che solo dopo faranno presagire la guerra meno compresa dal mondo occidentale eppure così vicina a noi a livello spaziale e temporale. Shatzi proseguirà con la sua vita, appoggiata dall’educazione libera e per così dire senza confini dei genitori ma non abbandonerà il legame con Sarajevo prima con il pensiero e la scrittura e poi tornando nel 2015 nella città, quasi trent’anni dopo le leggendarie Olimpiadi. Il bosco del confine racconta di eredità morali e culturali, di guerra e confini, della grandezza della natura e del rispetto che le dobbiamo, di legami che segnano la nostra vita anche se cerchiamo di sfuggire loro. “E poi c’è il camminare nel bosco, quello a cui ci dedichiamo noi, quello che ha fondato la nostra civiltà, diceva. Qualcosa di più simile a un errare, perdersi quasi subito nel sottobosco seguendo la traccia di un animale, disertare il tempo raccogliendo mirtilli in un prato che si spalanca all’improvviso tra una cerchia di abeti rossi, lasciare che i passi vaghino senza regole fuori dalla strada maestra”.

Bernardine Evaristo, RAGAZZA, DONNA, ALTRO, Sur, 2020 (traduzione di Martina Testa)
“Quando Roland ha cominciato a scrivere il primo volume del suo magnum opus in tre parti, aveva già deciso che non si sarebbe fatto accettare dall’Etablissement, l’avrebbe conquistato/ i suoi fratelli e sorelle potevano pure difendersi da soli, che cazzo/ perché doveva accollarsi il peso della rappresentanza collettiva, quando gli avrebbe solo fatto da zavorra?/ ai bianchi si chiede soltanto di rappresentare se stessi, non un’intera razza”: romanzo vincitore del Man Booker Prize, RAGAZZA, DONNA, ALTRO di Bernardine Evaristo è sicuramente ricco di temi di grande attualità, dal femminismo alla situazione politica e sociale in Inghilterra, dall’identità di genere al valore delle radici culturali, ma è soprattutto una grande opera letteraria. La costruzione del racconto è geniale: come su un palcoscenico sfilano dodici protagoniste e man mano scopriamo la fitta rete dei loro legami a comporre un mosaico perfetto, sostenuto da una scrittura poetica e quasi provocatoria. Tante le considerazioni, i sentimenti, le piste narrative che però non prevaricano mai la pura narrazione e il piacere di leggere. Si intersecano innumerevoli spunti, a creare un romanzo politico, sociale, sperimentale ma insieme classico dove viene rappresentato in modo magistrale il rapporto tra le generazioni. Si racconta di immigrazione, del contrasto tra città e piccole realtà rurali, di razzismo e discriminazione, di classi sociali, scuola, università, teatro, legami culturali, identità di genere ma soprattutto è una rappresentazione sentita e mai banale dell’umanità. Si pensa, si ride, si sogna, si soffre, si spera e sembra quasi di sentire il respiro dei personaggi. Si riflette sul proprio ruolo nel mondo e sulla difficoltà di mantenere la propria identità e i propri principi in una società sempre più competitiva e votata al successo personale. Successo che Bernardine Evaristo si è conquistata con il suo talento letterario e la capacità di dare voce a personaggi vivi e stratificati, e a chi raramente si sente rappresentato. Un libro assolutamente da leggere.

Luiz Ruffato, LA TARDA ESTATE, La nuova frontiera, 2020 (traduzione di Marta Silvetti)
LA TARDA ESTATE di Luiz Ruffato, uno dei più rappresentativi scrittori brasiliani contemporanei, ci accompagna in un viaggio o meglio in tanti viaggi fisici e mentali. Seguiamo il percorso di sei giorni di Oseisas, il protagonista, da San Paolo alla cittadina rurale dove è nato e che ha lasciato per cercare lavoro. Capiamo che non sta bene e che deve chiudere in qualche modo i conti con il passato. Così tra strade polverose e sempre accaldate, tavole calde sudicie e rumorose, bagni puzzolenti, autobus dove si alterna una varia umanità, appuntamenti mancati, incontri spesso deludenti, Zezo, come viene affettuosamente chiamato dai familiari, ripercorre la sua vita e quella della sua famiglia segnata dalla morte della sorella quindicenne. Quello che è accaduto a Ligia è uno dei percorsi narrativi del romanzo, insieme a uno spaccato del Brasile contemporaneo e dei cambiamenti che ha subito nell’arco di pochi decenni, al preciso racconto di quello che eravamo da giovani e quello che siamo diventati e alle riflessioni sul passato e su come ancora condiziona il nostro presente. Lo scrittore brasiliano tira le fila delle vicende ma soprattutto dei sentimenti con un’abilità da grande tessitore, - e il riferimento non è casuale perché il cucito fa parte della storia della famiglia - e avviluppa il lettore in una rete fitta di emozioni che rendono praticamente necessaria la lettura. Grazie a una scrittura poetica, ritmica, malinconica, ipnotica ma anche ironica che fa delle ripetizioni una cifra narrativa. Così l’insistenza sui gesti della quotidianità (“pulisco gli occhiali con il lembo della camicia”) ha pieno senso e non diventa mai un mero esercizio di stile. Anzi, fa sentire ancora di più il lettore all’interno della storia e partecipe delle vicende del protagonista e di tutti i personaggi incontrati, evocati, ricordati come “nomi che lampeggiano, volti come insegne luminose di motel anonimi lungo la strada”.

Lois Lowry, ALL’ORIZZONTE, 21 lettere, 2021 (Traduzione di Dylan Rocknroll)
“Il 7 dicembre 1941, una domenica mattina sul presto, aerei giapponesi bombardarono Pearl Harbor, nelle Hawaii... Fu inflitto un danno tremendo e la nave da guerra Arizona affondò in pochi minuti, con una perdita di millecentosettantasette uomini. Il bombardamento di Pearl Harbor di quel giorno segnò l’inizio per gli Stati Uniti della seconda guerra mondiale. Sono nata a Honolulu nel 1937. Anni dopo, guardando un filmino girato da mio padre nel 1940, notai che mentre giocavo sulla spiaggia di Waikiki, era possibile scorgere la nave Arizona attraverso la foschia, sullo sfondo all’orizzonte”. Lois Lowry, pluripremiata autrice di più di trenta romanzi tra cui il celebre THE GIVER, nel suo ultimo libro, ALL’ORIZZONTE, pubblicato in Italia grazie al nuovo editore 21 lettere, parte da un episodio della sua infanzia per raccontare l’inizio della seconda guerra mondiale per il suo paese e la bomba atomica su Hiroshima, che ne sancisce la drammatica fine. Conducendoci quasi per mano tra gli episodi della sua infanzia: la tata hawaiana, la scuola giapponese, le visite della nonna, una bicicletta verde e parallelamente raccontando le vittime dei due devastanti bombardamenti. Lo fa costruendo una sentita Spoon River dove, grazie alla poesia, incontriamo i gemelli Jake e John, solo uno sopravvissuto, i musicisti della banda, tutti morti, i medici che prestano servizio sulle navi tra cui il padre dell’autrice. Poi lo sguardo si sposta in Giappone, dove Lois Lowry raggiunge il padre all’età di undici anni, e, anche qui, la poetica carrellata di nomi ed esistenze, a partire dal bambino sepolto con il suo triciclo rosso, sottolinea la tragedia della guerra e il sacrificio di vite giovani e innocenti. ALL’ORIZZONTE è un piccolo libro prezioso e sentito, perfetto anche da leggere ad alta voce, magari in classe, per pensare, ricordare e non dimenticare: “Ho impiegato molti anni per rimettere insieme questi pezzi, per provare a trovare qualche significato nel modo in cui le vite si intersechino — o come non riescano a farlo. Credo che la cosa importante sia anche la più semplice: ... onorare il passato promettendo in silenzio ai nostri compagni umani che ci adopereremo per un migliore e più pacifico futuro.”

Rumer Godden, NELLA CITTÀ UNA ROSA, Bompiani, 2020 (traduzione di Marta Barone)
Libro per adulti o libro per ragazzi? Uscito originariamente in una collana per adulti, NELLA CITTÀ UNA ROSA di Rumer Godden, pubblicato da Bompiani nella impeccabile traduzione della scrittrice Marta Barone è in realtà un grande romanzo di bambini e adulti e del loro rapporto, spesso non facile. Ambientato in un quartiere popolare della Londra degli Anni Cinquanta, con ancora le ferite della guerra e la speranza della ricostruzione, il romanzo ritrae in particolare i bambini che lo abitano o meglio che lo rendono vivo. Così conosciamo Stanley, debole e malaticcio figlio della giornalaia, i nove bellissimi fratelli Malone, tutti mori con gli occhi azzurri e soprattutto Lovejoy Mason, figlia di una cantante ormai sulla china del tramonto, che affida la figlia undicenne alle cure di una gentile affittacamere, che gestisce con il marito Vincent un piccolo ristorante. Lovejoy è stata educata alla bellezza e anche con i pochi soldi che ha tiene in ordine i suoi pochissimi abiti e a un certo punto sogna di creare un piccolo giardino all’italiana. Ma il quartiere ha solo macerie e la poca terra buona è chiusa nei giardini della piazza a cui è proibito l’ingresso, soprattutto ai bambini. Ma la ragazzina con l’aiuto di Tip riesce a far fiorire un piccolo appezzamento abbandonato fino a quando non vengono accusati del furto della terra. Il romanzo della scrittrice inglese ha il sapore del classico e soprattutto sa raccontare la vera essenza dell’infanzia: “Le vennero in mente tutte le cose che si dicono ai bambini. 'Fa’ quello che ti si dice'. 'non rispondere'. 'vieni qui'. 'Sta’ buona'. Lovejoy strinse i denti. Silenziosa. Docile. Riconoscente. Tutte le cose detestabili che i bambini erano costretti a essere, e tutte le cose meravigliose e libere, pensò Lovejoy, che non potevano essere. Cocciuti. Impertinenti... 'Ave Maria, disse tra i denti, ti prego, fammi diventare impertinente e indipendente'”. Così NELLA CITTÀ UNA ROSA è un piccolo gioiello da leggere magari insieme bambini e adulti ma è soprattutto un invito a non dimenticare lo sguardo infantile, i sogni di chi si è affacciato da poco al mondo, il desiderio di bellezza che può colmare anche una piccola rosa e... un po’ di terra.

Régis Jauffret, PAPÀ, Clichy, 2020 traduzione di Tommaso Gurrieri
“Il romanziere come un neonato che trova normale disporre dell’universo. Dei genitori si deve dire solo la verità. Appariamo nelle incisioni, sono stati loro a modellarci. Non invento qui nessun ricordo anche se l’immaginario mi sottomette alla tentazione. Non ero un bambino bugiardo, per raccontarmi cerco di mostrarmi degno di lui”: il memoir del grande scrittore franceee Régis Jauffret, tradotto per Clichy da Tommaso Gurrieri, prende il via da un’immagine che per un istante occupa lo schermo del televisore. In un documentario dedicato alla Francia di Vichy, ai collaborazionisti, ai rastrellamenti della Gestapo lo scrittore riconosce Marsiglia, il palazzo dove è nato e cresciuto, e l’immagine sconvolgente di suo padre ammanettato e portato via da due agenti nazisti. Da qui da una parte inizia la ricerca di Régis per scoprire i dettagli di un episodio che mai il padre aveva raccontato di aver vissuto e dall’altra un’analisi spietata e insieme partecipe sul rapporto tra Alfred Jauffret e il figlio. Lo scrittore veste insieme i panni dello storico, dell’investigatore, dello psicologo ma soprattutto dello scrittore per chiedere al passato le risposte alle domande del presente: “Il passato, questa necropoli. Manipolare i resti degli istanti, semplici ricordi di cui si cerca di servirsi come di chicchi di grano per far rifiorire una realtà da tempo sbiadita”. Ma PAPÀ è anche una grande dimostrazione del talento dello scrittore francese che immerge il lettore in una storia insieme estremamente realistica e immaginifica, perché è l’immaginazione che deve colmare i vuoti della memoria e delle fonti dirette, ormai quasi tutte scomparse. Sono solo i traumi che seppelliamo. Scrivere del proprio passato può servire a resuscitare momenti di felicità”. Tanto che alla fine sembra di avere letto di tanti papà, o meglio delle tante versioni di uno stesso padre, con le sue azioni reali e le speranze e i sogni del figlio. Sembra di abitare un caleidoscopio grazie allo stile efficace e sorprendente, elegante e sottilmente spiegato e a uno sguardo che non perdona nulla al padre ma neppure a se stesso: “Come se tu non sapessi che scrivere di se stessi è una forma di incontinenza”.

Sophie van Llewyn, BOTTIGLIETTE, Keller, 2020 (traduzione di Elvira Grassi)
“Alina pensa a come sarebbe bello riemergere... in una realtà diversa, una realtà in cui Liviu non viene più perseguitato dalle autorità per via della fuga del fratello, in cui lei non si ritrova più a tremare ogni volta che torna a casa per paura che due agenti dei servizi segreti siano lì ad aspettarla, in cui lei e Liviu siano allegri e spensierati com’erano l’anno prima. Pensa anche a come si sia capovolta la sua vita, al pari dei bicchieri di zia Theresa, e a come non ci sia nessun padre Toma a cui può rivolgersi per esorcizzare gli spiriti maligni che hanno preso il controllo della sua vita”. Alina la giovane protagonista di BOTTIGLIETTE il romanzo di Sophie van Llewyn pubblicato da Keller nella bella traduzione di Elvira Grassi, vive nella Romania degli Anni Settanta, sotto la dittatura del regime comunista di Ceausescu. E da lì vuole fuggire perché lei e il marito sono entrati nel mirino dei servizi segreti per colpa del fratello di Liviu che è fuggito in Francia, tradendo la sua patria e perché Alina non ha denunciato una bambina sua allieva che smerciava fumetti occidentali, proibiti dal regime. Le loro carriere, le loro vite cambiano di colpo: vengono puniti, isolati, sorvegliati, disprezzati, nonostante la zia Theresa, moglie di un importante esponente del partito cerchi di difenderli al contrario della madre di Alina, fervente comunista che si vergogna del passato borghese della sua famiglia, che addirittura arriva a denunciare il loro tentativo di fuga. BOTTIGLIETTE è un romanzo spietato ed estremamente realista sugli anni del regime comunista in Romania e nello stesso tempo quasi una fiaba intrisa di magia come suggerisce la bella copertina. Perché l’unico modo per sopravvivere all’ingiustizia è affidarsi a riti più o meno magici e ai sogni. Il racconto è anche una riflessione non banale sulla famiglia, il matrimonio, il rapporto madre-figlia: “Non mi piace mentirle, ma lei ha questa orrenda abitudine di usare tutti i rifiuti che ricevo come un attizzatoio rovente che emana bagliori bianchi e che lei torce nelle mie ferite aperte”. La scrittura di Sophie van Llewyn che vive ora in Germania ma scrive in inglese, forse anche per mettere una distanza dalla storia che racconta è evocativa e ironica e nell’alternanza della prima e terza persona ci porta a vivere la delusione, le speranza, la disperazione di Alina e a riflettere su come i diritti vanno sorretti e non dati per scontati.

Maruša Krese, TUTTI I MIEI NATALI, Besa, 2019 (traduzione di Lucia Gaja Scuteri)
“Tutti i miei Natali, tutta la mia vita, tutti i miei figli, tutte le notti trascorse a infornare dolci e a cucire a mano i regali. Tutto quel gioire dei regali e tutti quei piccoli dolori una volta scartati, tutte quelle attese accanto all’albero di Natale illuminato con candele e tutto quel chiedersi con lo sguardo perso nel vuoto: 'E ora cosa si fa?'. Sto nella casa di Berlino, da sola. Dovrei forse partire, macinare i mille chilometri e passa che mi separano dalla mia famiglia? Non voglio tornare indietro. Un tempo non desideravo altro che restare finalmente sola”: l’inizio di TUTTI I MIEI NATALI, il memoir della poetessa e scrittrice slovena Maruša Krese pubblicato da Besa nella precisa e intensa traduzione di Lucia Gaja Scuteri, sembrerebbe una rivolta contro le feste natalizie, ma in realtà è quanto di più autentico sul vero spirito del Natale si possa leggere. Il romanzo racconta la vita della protagonista attraverso alcuni Natali della sua esistenza, in particolare quelli passati lontano dal paese di origine o i lunghi viaggi fatti a ridosso delle feste per raggiungere dalla Germania Lubiana, dove si riunisce tutta la famiglia. Così passiamo da racconti di ricette tradizionali a un Natale passato con una pizza da asporto e un budino, dalla triste consapevolezza della fine di un matrimonio alla gioia per una nuova vita, da una vigilia in viaggio sotto una tormenta di neve a un presepe che bisogna tenere segreto. In mezzo scorrono i rapporti familiari, la nostalgia per il paese d’origine e i riti del ritorno, le rivendicazioni femministe e gli oggetti portatori di storie, i continui traslochi e le passioni artistiche, uno sguardo spesso spietato ma sempre ironico e affettuoso a comporre un mosaico di vita in cui ognuno può ritrovarsi, per pensare, commuoversi, sorridere e magari apprezzare di più e recuperare il vero spirito del Natale. E anche scoprire una delle voci letterarie europee più interessanti, tradotta per la prima volta in Italia. Poetessa, scrittrice, giornalista, psicoterapeuta, femminista, hippie, operatrice umanitaria e attivista, Maruša Krese infatti ha un indubbio talento narrativo ma anche uno sguardo acuto, irriverente e profondo sul nostro mondo. Da non perdere.

Jesmyn Ward, NAVIGA LE TUE STELLE, NNE, 2020 (traduzione di Alessio Forgione)
“Voglio raccontarvi una storia”. Comincia così NAVIGA LE TUE STELLE, il breve discorso che Jesmyn Ward ha tenuto per l’inaugurazione dell’anno accademico alla Tulane University, pubblicato dal suo editore italiano NN con la traduzione di Alessio Forgione e le bellissime immagini di Gina Triplett. La storia che racconta la scrittrice americana è la sua: donna afroamericana cresciuta in Mississippi in una comunità povera e rurale, da adolescente decide che a lei non toccherà il destino della sua famglia, fatto di lavoro duro e spesso umiliante: “Ma io avrei fatto scelte migliori. Non avrei vissuto il resto dei miei giorni in una cittadina di campagna, lottando per andare avanti, ammazzandomi di lavoro. Pensavo di aver imparato la lezione più importante di tutte: le decisioni prese nell’adolescenza sono determinanti per la vita intera. Così ho studiato... facevo il possibile per entrare in una buona università, la via di uscita dal futuro limitato che sentivo stringermi il collo, che minacciava di soffocarmi”. Poi la giovane Jesmyn si rende conto che nonostante il nostro impegno e la forte volontà, il destino può impedirci di perseguire i nostri obiettivi e magari metterci davanti altre strade da percorrere e farci guardare alla nostra famiglia con occhi diversi: “da giovane consideravo la sua vita un fallimento... da adulta compresi che non potevo liquidarla con parole superficiali, che la vita tutta era un mare tumultuoso e che mia nonna aveva vissuto su una zattera, remando e togliendo l’acqua dal fondo, e leggendo, in cielo, la mappa delle costellazioni per trovare terra, sollievo e sopravvivere”. Così NAVIGA LE TUE STELLE, il piccolo gioiello illustrato dell’autrice della Trilogia di Bois Sauvage, prima donna a vincere due volte il National Book Award, si inserisce nella tradizione dei grandi discorsi d’autore rivolti alle nuove generazioni, ma fonte di riflessione e monito anche per gli adulti. Perché cercare il senso della vita, usare i talenti che abbiamo e capire come ci inseriamo nella storia della nostra famiglia e del nostro paese appartiene a tutti noi.

Jakob Wegelius, LA SCIMMIA DELL’ASSASSINO, Iperborea, 2020 (traduzione di Laura Cangemi)
Un libro senza tempo, insieme classico e contemporaneo, una storia senza età, un romanzo per tutti come capita raramente di incontrare: LA SCIMMIA DELL’ASSASSINO dello scrittore svedese Jakob Wegelius, pubblicato da Iperborea nell’ottima traduzione di Laura Cangemi, accontenta davvero ogni lettore. È un romanzo di avventura che ci riporta alla memoria il mitico Sandokan raccontato da Emilio Salgari, vi farà vivere una Lisbona affascinante e misteriosa, tra strumenti musicali, bettole e fabbriche di scarpe; vi porterà per mare sull’orma de L’ISOLA DEL TESORO di Stevenson; vi vizierà nel palazzo di un ricchissimo maharaja, facendovi anche alzare in volo, ma soprattutto vi regalerà un’amica straordinaria a cui non potrete non volere bene. Sally Jones, una scimmia antropomorfa molto speciale che non parla ma sa comunque esprimere i suoi sentimenti, capace di leggere, lavorare e giocare a scacchi, vive con il capitano Koshela che l’ha salvata dalla morte su una nave dove si era introdotta come clandestina. Quando l’uomo viene ingiustamente incarcerato e condannato a venticinque anni di detenzione per omicidio, Sally Jones viene accolta da Ana, giovane operaia che possiede una voce sublime che incanta e seduce chiunque e dal burbero liutaio Luigi Fidardo, di orgine italiana. Subito tentano di scagionare Henry che è assolutamente innocente e da lì prendono il via colpi di scena, viaggi, inseguimenti, strane coincidenze, fughe rocambolesche tra i tetti, incontri con una varia umanità, sempre descritta con verosimiglianza e profondità. LA SCIMMIA DELL’ASSASSINO è un romanzo intenso e coinvolgente, dove si intersecano vari generi, dall’avventura al giallo, dalle storie di mare al romanzo sociale. Ma è soprattutto un catalogo vivo e mai scontato di grandi sentimenti: amicizia, desiderio di giustizia, rispetto e accettazione delle diversità, potenza del talento, amore sincero e forza delle donne sono solo alcuni di quelli che troverete leggendo. Un libro da regalare e farsi regalare.

Simona Baldelli, VICOLO DELL’IMMAGINARIO, Sellerio, 2020
“Ci sono i rimpianti, spiega la donna, e i rimorsi. Le persone morte giovani e quelle mai nate, coloro che se ne sono andati da vecchi ma è come se non ci fossero mai stati. E le domande a cui avremmo voluto risposta, e le parole mai dette”: VICOLO DELL’IMMAGINARIO, il romanzo di Simona Baldelli, pubblicato da Sellerio con una bellissima e allusiva copertina, racconta anche di sensi di colpa, sentimenti taciuti, lunghi silenzi ma anche parole furiose, frasi uscite di getto e poi difficili da ritirare. Il libro si sviluppa su due piani temporali e tra Italia e Portogallo. Al centro, come il perno delle giostre che costruisce nella fabbrica in cui lavora da quando si è diplomata, c’è la protagonista, Clelia, bella, brillante, talentuosa ma a cui la madre fa sentire come una colpa le sue qualità a fronte della sorella minore rimasta lesa dalla poliomelite. Così Clelia si autoboicotta ed è lacerata tra il senso di colpa e l’astio verso la madre e Marisa che riceve tutte le attenzioni. Ritroviamo poi Clelia, che si fa chiamare Amalia, dopo quindici anni a Lisbona, dove lavora per un’anziana nobile decaduta e alla sera in un bar con una strana proprietaria che sostiene di parlare con i morti. Qui la giovane donna cerca di barcamenarsi tra gli echi del passato e la voglia di rimettersi in gioco in una vita libera da condizionamenti. Il romanzo di Simona Baldelli ha tanti percorsi di lettura tenuti insieme da una scrittura equilibrata e allusiva. Che ci porta da un piccolo paese del reggiano nella Milano degli anni Sessanta e dell’attentato di piazza Fontana, per poi superare i confini italiani, sull’onda di un sogno o meglio di un fado per arrivare in Portogallo. Dove ci regala anche uno sguardo del nostro paese negli anni Settanta dall’esterno. Alla fine la sensazione che rimane è quella di aver viaggiato su una grande giostra, dove passato e presente si alternano in un crescendo sempre più frenetico della storia.

Sema Kaygusuz, LA RISATA DEL BARBARO, Voland, 2020 (traduzione di Giulia Ansaldo)
“Le storie si raccontano quando è il momento. Voglio dire che una storia appartiene al tempo in cui viene raccontata. Non ci si mette a raccontare una storia tanto per parlare, così di punto in bianco”: pieno di storie e personaggi è LA RISATA DEL BARBARO, il più recente libro di Sema Kaygusuz, una delle maggiori rappresentanti della letteratura turca, pubblicato da Voland nella traduzione di Giulia Ansaldo. Il romanzo ci porta in un lussuoso albergo sull’Egeo in piena stagione e con tutti i bungalow occupati. Quando una mattina una cameriera trova tutta la bianchera da letto custodita in una stanza dove ha accesso solo il personale, macchiata di urina, si scatena tra i villeggianti una caccia alle streghe che causa anche un’aggressione gratuita verso uno degli ospiti. Mentre la direttrice fatica a riportare la calma e convincere i più a non lasciare la struttura, il “barbaro” colpisce ancora segnando gli asciugamani da spiaggia di una numeroosa famiglia che si è riunita per la vacanza. In mezzo a questi attentati urinari conosciamo la varia umanità che abita l’hotel Colomba Blu: Ozan, il ragazzino assassino di animali, assillato dalla madre; la famiglia numerosa dove tutti parlano e nessun ascolta; una coppia gay male assortita; Turgay che da più di vent’anni custodisce un segreto; Alika, il cameriere, che doveva diventare imam; Simin, un’anziana donna che sempre scrive su un quaderno e di cui poi scopriremo la storia; Eda, bella e libera sessualmente che non esita a esprimere le sue opinioni sul corpo delle donne e la sessualità anche ad alta voce durante i pasti comuni. Un bellissimo romanzo, divertente, intelligente, lieve e profondo insieme dove attraverso i vari personaggi Sema Kaygusuz riesce a ironizzare sul matrimonio, sull’educazione dei bambini, sul sesso, su aspirazioni e occasioni mancate e anche sulla politica: “Ma tu lo sai quanto è difficile essere turchi? E prima l’indipendenza ai curdi, e poi il genocidio degli armeni, ora l’ultima moda è il massacro di Dersim! Non passa giorno che non ci diano degli assassini. Certo nessuno racconta le atrocità patite dai turchi migranti dai Balcani”.

Shaun Tan, PICCOLE STORIE DAL CENTRO, Tunué, 2020 (traduzione di Omar Martini)
“... Perché abbiamo combattuto così tanto? Perché siamo stati così crudeli, spietati, così egoisti e divisi, così soli su questa lunga striscia di roccia? Solo ora, troppo tardi, ricordiamo in silenzio le cose che rendono tutti fratelli e sorelle nel sedimento, gusci e ossa con gli stessi carbonati degli altri: squali, orsi, coccodrilli, gufi, maiali, dipnoi, pesci re, pappagalli, piccioni, farfalle, api, tigri, cani, rane, lumache, gatti, pecore, cavalli, yak, orche, aquile, ippopotami, rinoceronti, volpi... almeno abbiamo dato loro le nostre parole più belle”. Shaun Tan, uno dei più grandi artisti al mondo, con PICCOLE STORIE DAL CENTRO ha conseguito il prestigioso premio Kate Greenway Medal 2020 come miglior illustratore nel Regno Unito ed è diventato così anche il primo autore di origine malese della storia a vincere questo premio. Già molto premiato e seguito, l’artista austrialiano, figlio di immigrati malesi, in questo nuovo libro mette in relazione l’uomo e la natura in 25 ritratti e racconti che sono un atto di accusa contro la frattura che si è creata tra l’uomo, e con lui i luoghi dove vive come le città, e l’ambiente naturale. PICCOLE STORIE DAL CENTRO è anche un bestiario artistico dove gli animali sono protagonisti e si raccontano nel loro rapporto con la loro natura originaria e i cambiamenti del mondo che li circonda che li ha costretti a continue mutazioni. Assistiamo a un gioco intenso e quasi magico di relazione tra parole e immagini che sempre cambia da animale a animale: il cane accompagna la vita di una persona attraverso una lunga successione anche cromatica dei quadri; l’ultimo rinoceronte vede la sua fine in un’unica immagine sull’autostrada; il pesce re, essendo finita l’acqua, ora abita il cielo, i coccodrilli occupano l’ultimo piano di un grattacielo. Il libro è una galleria di sguardi degli animali sulla città e su noi umani e insieme un catalogo di tecniche artistiche e scelte cromatiche sempre molto immaginifiche e coinvolgenti. Spesso poi gli animali sono raccontati in relazione a bambini e ragazzi, come per esempio i cavalli, il pesce re, il maiale e questo oltre alla dedica al mondo animale è forse un messaggio di Shaun Tan per il futuro. Bambini e animali salveranno il mondo?

Michele Cocchi, US, Fandango, 2020
“Con Us hanno inventato qualcosa di unico: scarichi il gioco, lo installi, ti iscrivi, fai il colloquio preliminare, ti spediscono per posta il braccialetto e poi iniziano le campagne, ma ciò che scegli di fare durante le missioni non modifica soltanto l’esito della partita, ha a che fare anche con te, e soprattutto coi tuoi compagni, che non sono più pixel, ma persone in carne e ossa. Intende questo il Grande Saggio quando dice che l’eroe del gioco in fondo sei tu, con le tue scelte e le tue azioni? Oppure c’è qualcosa di più complicato che ancora non è riuscito a capire?”: il romanzo di Michele Cocchi, US, ci fa entrare nel mondo dei videogiochi ma soprattutto ci racconta cosa significano per i ragazzi e come sono portatori di storie. Il romanzo racconta di Tommaso, 16 anni che non esce da mesi dalla sua camera e trascorre la maggior parte delle sue ore di autoreclusione giocando ai videogiochi. Che gli permettono di lasciare fuori dalla porta il mondo con il quale ha deciso di tagliare i ponti, anche se questo chiaramente sconvolge la sua famiglia. Ma in realtà è nel mondo virtuale che scorre la vita vera grazie a Us, un videogioco a squadre di tre giocatori sorteggiati non a caso dal Grande Saggio, che prevede per arrivare al premio finale di superare cento campagne. Ispirate a guerre contemporanee come la campagna di colonizzazione dell’Etiopia da parte dell’Italia, la sconfitta della Germania di Hitler, le rivolte contadine in Colombia, la guerra dei Balcani. Leggendo sembra davvero di essere davanti allo schermo ma soprattutto di dover decidere in un attimo cosa fare e con chi schierarsi. Poi certo c’è una riflessione profonda su come siamo protagonisti o eroi della nostra vita, su quello che è giusto, sul disagio che può colpire anche un ragazzo circondato da una famiglia affettuosa e presente ma è tutto raccontato con grande onestà e senza fornire facili risposte. Un libro perfetto anche per confrontarsi adulti e ragazzi sulla storia recente, sui videogiochi, sul mito dei campioni e degli eroi, sulle dinamiche familiari e sul ruolo del supporto psicologico: “vincere non è tutto. Credo che Us volesse darci una lezione... metterci alla prova... ho imparato più cose sulla storia del Novecento in due mesi che in dodici anni di scuola. Us ci costringe a essere vittime, carnefici, militari o ribelli, violenti o pacifici. All’inizio ti sembra uno sparatutto come gli altri, sei forte perché hai un fucile ma poi capisci che avere un’arma non è decisivo, che nella vita si può scegliere, si deve scegliere”.

Martin Michael Driessen, FIUMI, Del Vecchio, 2020 (traduzione di Stefano Musilli)
“Sto solo cercando i fatti essenziali. Troppi dettagli ostacolano la mia immaginazione. Non voglio sapere, voglio inventare”: così scrive Martin Michael Driessen all’inizio di FIUMI, la sua raccolta di racconti pubblicata da Del Vecchio nella sapiente traduzione di Stefano Musilli. Potremmo girare la frase dal punto di vista del lettore: “Non voglio sapere, voglio immaginare” ed è quello che accade con le storie dello scrittore olandese. FIUMI raccoglie tre racconti, accomunati da un corso d’acqua, che però creano un immaginario infinito tanto che alla fine rimane come la sensazione di avere letto tre lunghi romanzi. Nella prima storia seguiamo la discesa del fiume in canoa di un attore fallito, e anche per questo collerico e alcolista. Così insieme alle acque scorre anche molto alcool. È un racconto duro, stremato come il suo protagonista, la cui grettezza sembra contrapporsi alla bellezza dei luoghi che attraversa e dove si accampa. Ma alla fine la natura prende il sopravvento. Il racconto centrale ci riporta a un mondo scomparso, al duro e pericoloso lavoro degli zatterieri che traghettavano lungo il fiume i tronchi tagliati nelle foreste per arrivare alle seghierie delle città olandesi e non solo. Uno di questi lavoratori è Konrad cresciuto con il sogno di seguire il fiume sulla zattera e poi magari andare lontano. Ma c’è anche il legame con Julius, il figlio del padrone, che sembra possedere tutte le qualità, dal coraggio alla bellezza, dal fascino al senso degli affari. Li seguiremo per tutta la loro vita sino all’ascesa del nazismo. La terza storia sembra un racconto epico, che ci riporta al medioevo e che vede contrapporsi due famiglie che lottano ormai da secoli per il confine tra le loro proprietà, segnato da un torrente dispettoso che ogni tanto devia dal suo corso per regalare a uno o all’altro terreno nuovo. Noi conosciamo gli ultimi eredi delle due famiglie, divise anche dalla religione. Cerca di fare da arbitro un avvocato ebreo, che sembra uscito da un romanzo di Isaac Singer. Viaggiamo sempre via acqua, ascoltiamo lo scorrere di un fiume, che diventa anche metafora del fluire sicuro e ammaliante della scrittura di Martin Michael Driessen.

Helen Humphreys, BILL, Playground, 2020 (traduzione di Chiara Brovelli)
Il nuovo romanzo di Helen Humphreys, tradotto sapientemente da Chiara Brovelli e pubblicato come sempre da Playground, è la storia di un legame che va al di là dell’età, delle condizioni sociali, delle circostanze di vita: è la storia del riconoscimento tra un dodicenne, vittima dei bulli e di un padre violento, e un uomo che vive ai margini, in una grotta sotto una collina e che si mantiene vendendo zampe di coniglio portafortuna. È il giovane Leonard che sceglie Bill come amico (“Perché vuoi essere amico di un vagabondo? Mi chiede mio padre e io non so cosa rispondere. Non so spiegare la sensazione che provo quando corro con Bill sotto lo sterminato cielo azzurro della prateria. È come se mi guidasse fuori dal buio, fuori da un senso di solitudine che nemmeno sapevo di provare”) ma alla fine è l’incontro tra due solitudini e due anime ferite. Sino al primo drammatico epilogo che li separerà. Ma il destino o forse il senso della vita li metterà dopo dodici anni uno di fronte all’altro: Leonard, che, segnato dall’incontro con Bill si è laureato in medicina per fare lo psichiatra e aiutare le persone con disagio psichico, viene assunto nell’istituto di igiene mentale dove è proprio ricoverato Bill e dove vengono portati avanti esperimenti con l’LSD. Leonard si rende conto di come l’uomo sia ancora una parte essenziale e irrisolta di lui e di come vederlo lo abbia riportato al passato, dove torna a essere quel ragazzino intimorito che l’aveva incosciamente scelto come figura paterna. Ma oltre al rapporto tra Leonard e Bill il romanzo di Helen Humphreys ci mette di fronte alla complessità della nostra mente e alla difficile definizione di cosa sia la normalità. La storia ci illumina anche sul rapporto tra ragazzi e adulti, sul percorso di crescita e sugli incontri che segnano la nostra esistenza. Con la sua scrittura incisiva e poetica la scrittrice canadese accarezza e insieme ferisce il lettore, facendo di Bill un’opera letteraria di grande valore, le cui atmosfere rimandano alle migliori opere di John Irving e a FOLLIA di Patrick McGrath.

Milena Agus, UN TEMPO GENTILE, Nottetempo, 2020
Chi ha amato il successo internazionale che è stato MAL DI PIETRE, ma anche gli altri libri di Milena Agus, nel suo nuovo romanzo UN TEMPO GENTILE, sempre pubblicato da Nottetempo, da una parte ritroverà la capacità narrativa, l’ironia, la sensualità della scrittrice sarda, dall’altra una scrittura più consapevole e densa e una storia che riesce ancora una volta a unire commedia e tragedia. La storia ci porta in un piccolo paese dell’entroterra sardo dove un giorno arriva un gruppo di migranti accompagnati dai volontari che li seguono. Per un errore o forse per una truffa si trovano a dover essere per così dire ospitati in un vecchio casolare chiamato “il rudere”. Sconcerto e diffidenza da parte dei locali che li additano subito come “invasori” e uguale rabbia e stupore da parte dei migranti che pensavano di essere arrivati in Europa e non in un posto anche peggiore del luogo da cui sono fuggiti. Milena Agus riesce a portare avanti il ritratto di questa varia umanità con grande abilità e senza falsi moralismi, mostrando le dinamiche di un piccolo paese ormai morto anche perché sacrificato alle politiche agricole che ne hanno snaturato il territorio; la disperazione e la voglia di riscatto di chi emigra, il complesso meccanismo di sentimenti e logiche anche astruse e discutibili di chi sceglie il volontariato. Come è normale i due fronti contrapposti cominciano prima a osservarsi e per così dire annusarsi e poi a venire in contatto, soprattutto grazie alle donne del paese, mosse più da curiosità che da spirito di carità ma poi più aperte a superare i loro pregiudizi. Che, badiamo bene, ci sono da entrambe le parti. UN TEMPO GENTILE è insieme un racconto epico e un romanzo estremamente contemporaneo, un fedele ritratto di una regione che vede ancora i suoi giovani emigrare e una ferma e gentile critica politica e sociale. Così siamo fatti da subito partecipi delle vicende narrate grazie alla leggerezza, calvinianamente intesa, di Milena Agus, alla sua acuta ironia che non diventa mai sarcasmo e non è fine a se stessa, alla sfacciata ed empatica sensualità che percorre i rapporti tra i personaggi, a una lingua insieme dolce e rocciosa. Un grande omaggio alla letteratura.

Frédéric Pajak, MANIFESTO INCERTO, L’Orma, 2020 (traduzione di Nicolò Petruzzella)
MANIFESTO INCERTO è un libro impossibile da definire, così originale e ricco di percorsi. Un libro, un album, un diario per immagini, un taccuino pubblico e privato insieme, due storie di vita e insieme la Storia con la S maiuscola. È un memoir dell’autore e insieme di Walter Benjamin e le due esistenze si incrociano continuamente. Frédéric Pajak, scrittore e disegnatore inclassificabile, alla deriva per l'Europa inseguendo l'opera di una vita, “un libro fatto di parole e immagini, scene d'avventura, ricordi sparsi, aforismi, fantasmi, eroi dimenticati, alberi, la furia del mare”. Mescolando episodi autobiografici e affondi sulla straordinaria figura di Walter Benjamin, Pajak ricostruisce con passione critica alcuni momenti fatali del Novecento europeo, tavola dopo tavola, frase dopo frase, muovendosi tra Parigi, Capri e una desolata Sicilia d'aprile, come dice bene il risvolto di copertina. È un libro da avere, leggere ogni tanto, anche senza seguire un percorso cronologico, solo per ammirare l’intelligenza e il talento di Pajak.

Gianni Rodari-Alessandro Sanna, CODICE RODARI, Einaudi ragazzi, 2020
Alessandro Sanna ci regala un omaggio a Gianni Rodari in occasione del centenario della nascita del grande scrittore. L’idea è quella di restituire la voce del grande autore e intellettuale e insieme mostrarne l’infinita ricchezza tematica ed espressiva e come le sue parole continuino ad ispirare il lavoro di artisti e illustratori. Così con Melania Longo, esperta di educazione all’arte, Alessandro Sanna ha realizzato una sorta di antologia rodariana attraverso le parole chiave (solo per citarne alcune: disegno, fiabe, indovinelli, inventare, nascere, passione) che caratterizzano il pensiero e l’attività del grande pedagogo, precursore di una letteratura per l’infanzia che ne rispetta le potenzialità e la capacità di leggere il mondo. Spaziando da “La grammatica della fantasia”, “Filastrocche in cielo e in terra”, “Il libro degli errori”, “Favole al telefono” ai meno noti contributi su “Il giornale dei genitori” ci viene restuita la magia e l’inventiva della scrittura di Rodari e insieme la lettura che ne ha fatto un artista molto seguito e premiato come Sanna sempre capace di sorprendere e giocare con le parole. Nasce così un libro con molte chiavi di lettura: da una parte un’antologia pensata e interpretata che è anche un sentito omaggio a Rodari, dall’altra un viatico unico per cominciare a entrare nel mondo narrativo dello scrittore di Omegna. Così CODICE RODARI è un libro per tutti: per la famiglia, da leggere insieme adulti e bambini; per insegnanti e bibliotecari per la lettura ad alta voce ma anche per inventare, disegnare, costruire rime e storie; per chi già ama e conosce Rodari per scoprirne le infinite vie interpretative e la capacità di raccontare ancora, e non solo ai bambini, il nostro mondo. Come dice lo stesso Rodari la lettura è infatti l’innesto di un nuovo senso: “il senso del libro, le capacità di usare il libro come uno strumento per conoscere il mondo, per conquistare la realtà, per crescere”.

Guadalupe Nettel, LA FIGLIA UNICA, La nuova frontiera, 2020 (traduzione di Federica Niola)
Ines, la piccola protagonista del nuovo romanzo della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, non ha fratelli e sorelle e come dice il titolo è la figlia unica. Ma in realtà, arrivati alla fine del libro, pubblicato con cura e con una bellissima copertina da La nuova frontiera e tradotto come sempre da Federica Niola, si scopre che con “unica” Guadalupe Nettel voleva raccontare l’unicità della nascita e l’essere unico di ognuno di noi. Nel romanzo infatti viene declinata in una storia toccante e sentita, mai banale e scontata, un’ampia serie di sentimenti umani, in particolare legati ai rapporti familiari. Come dice Gadalupe Nettel siamo unici ma nasciamo come un capitolo di un romanzo già iniziato che è la nostra famiglia. Così LA FIGLIA UNICA è un catalogo delle tante declinazioni della parola “madre”: Laura decide che non avrà figli, ma a un certo punto scopre che la maternità può essere anche occuparsi del figlio di un’altra. Alina, l’amica del cuore di Laura, desidera un figlio che non arriva; Doris fatica a occuparsi del figlio segnato da un padre violento; la mamma di Laura non riesce a relazionarsi con una figlia che la tiene a distanza e apparentemente non la stima; una coppia di ostinati piccioni si trova nel nido un uovo non suo. Tutto questo mette in luce la complessità dei rapporti umani, anche attraverso il confronto con il mondo animale (cifra narrativa molto cara a Guadalupe Nettel), grazie a un linguaggio insieme preciso ed evocativo, dove ogni parola sembra essere portata al suo massimo livello espressivo. Ma l’ambito familiare è il caleidoscopio con cui la scrittrice messicana, che ha vissuto a lungo in Francia e ama confrontarsi con luoghi e culture diverse, guarda anche alla situazione politica e sociale del suo paese e in particolare al modo in cui le donne vengono sistematicamente svalutate e sono spesso vittime di intimidazioni e violenze. LA FIGLIA UNICA, grazie al potere della letteratura, ci restituisce così uno sguardo acuto sulla nostra contemporanietà e insieme ci fa riflettere sugli eterni, universali e complessi sentimenti che caratterizzano l’essere umano.

Lana Bastasic, AFFERRA IL CONIGLIO, Nutrimenti, 2020 (traduzione di Elisa Copetti)
“Una volta mi disse che gli scrittori scrivono perché non hanno delle memorie proprie e quindi le inventano. Era successo prima, quando il coniglio era ancora vivo, e noi avevamo appena cominciato a leggere i libri. Ma non aveva ragione, almeno non del tutto. Per me la memoria forse era un lago ghiacciato, opaco e scivoloso, e sulla sua superficie di quando in quando compariva una fessura attraverso la quale riuscivo a infilare una mano e afferrare un dettaglio, un ricordo nell’acqua fredda”: la stessa sensazione la prova il lettore immergendosi nelle pagine di AFFERRA IL CONIGLIO di Lana Bastasic appena pubblicato da Nutrimenti nella efficace traduzione di Elisa Copetti. Il romanzo racconta un’amicizia: Sara e Lejla sono diverse ma si attraggono in una commistione di affetto, rispetto, invidia, ammirazione, gelosia. Si conoscono e si riconoscono il primo giorno di scuola, una, figlia del capo della polizia, l’altra, orfana del padre e presto anche del fratello maggiore Armin, che scompare misteriosamente. Siamo a Banja Luka, in Bosnia e le due amiche vivono bambine, con più o meno consapevolezza, la guerra dei Balcani. Poi, dopo l’università, i loro destini si dividono dolorosamente: Lejla rimane e Sara lascia il suo paese per trasferirsi a Dublino. Ma anche se sono passati dodici anni di silenzio quando sente la voce di Lejla al telefono prende subito un volo per accompagnarla in auto da Mostar a Vienna dove forse possono ritrovare Armin. Il bellissimo romanzo della giovane scrittrice bosniaca racconta attraverso un viaggio diversi modi sentire e vivere la vita, la guerra, l’Europa, i destini a cui non si riesce a sfuggire, l’amicizia nel suo senso più devanstante e profondo. Lana Bastasic scava a fondo nel rapporto tra le due protagoniste alternando abilmente i piani temporali, e mostrando come la memoria ce la costruiamo e ricostruiamo, caricandola dei nostri desideri e delle nostre più segrete aspettative. Nella memoria di entrambe c’è sicuramente Armin, che, con la sua assenza, è il personaggio più presente del libro. Vincitore dell’European Union Prize for Literature 2020, AFFERRA IL CONIGLIO è un libro pieno di storie, colori, immagini, suoni, abilmente orchestrato con uno stile raffinato e musicale che risveglia anche la memoria di ognuno di noi.

Maxi Obexer, LA PRIMA ESTATE DELL’EUROPA, edizioni Alphabeta Verlag, 2020 (traduzione di Cristina Vezzaro)
“Può esserci Europa solo se le immigrazioni diventano visibili, se le storie degli immigrati entrano a far parte del patrimonio narrativo comune. Solo se l’Europa si riflette in loro”: Maxi Obexer, drammaturga, scrittrice, saggista ha scritto LA PRIMA ESTATE DELL’EUROPA, tradotto magristralmente da Cristina Vezzaro, nel 2015 quando è diventata cittadina tedesca e Angela Merkel ha deciso di aprire le frontiere del suo paese ai profugi siriani. Due storie di immigrazione sicuramente molto diverse ma che condividono sentimenti comuni: “Per stabilirsi bisogna aver percorso una strada, dal tuo paese di origine verso un altro. E ogni strada che percorri ti cambia, a ogni passo. In più non la percorri in una sola direzione, la percorri avanti e indietro. Ogni volta perdi qualcosa, ma quello che perdi resta con te e ti diventa caro. Certo, tutto ciò che ti è caro ti rende vulnerabile”. Nata a Bressanone, Maxi Obexer racconta infatti il suo percorso di immigrata nella UE e il conseguimento della sua seconda cittadinanza. Lo fa attraverso un viaggio in treno che la porta alla cerimonia ufficiale per ricevere appunto lo stato di cittadina tedesca. La sua vicenda personale diventa occasione per riflettere sul concetto di Europa ma soprattutto su quello di immigrazione nelle sue tante e spesso ingiuste declinazioni. Il suo è un racconto lucido, efficace, pieno di storie, ora ironico ora più provocatorio ma sempre deciso a sottolineare e mettere in scena i valori imprescindibili dell’umanità. LA PRIMA ESTATE DELL’EUROPA è un libro breve ma che contiene un mondo e può essere letto e riletto in tanti modi diversi: come un memoir, come un saggio politico, come una raccolta di storie, come un intenso monologo, come uno spaccato di storia europea, come uno sguardo che ci proietta in un orizzonte più ampio. La scrittrice italo-tedesca riesce con poche precise parole a parlare di identità, del rapporto con la lingua di adozione e quella materna, dei meccanismi psicologici che governano la decisione o la necessità di cambiare paese, della burocrazia priva di ogni umanità: “Per la maggior parte degli immigrati, l’immigrazione assume la forma di un eterno esame che solo altri sanno come si supera – ovvero mai”. Dimostrando come l’unico modo per l’Europa di sopravvivere è riconoscere e accogliere le diversità, senza dimenticare le pesanti responsabilità del passato, ancora gravide di conseguenze: “Se si vuole che a difenderla siano le persone giuste, non c’è che una possibilità per questa Europa: deve appartenere a quanti ne sono stati un tempo le vittime”. Un libro denso e utile anche per scoprire una voce non ancora tradotta in Italia e che merita di essere conosciuta e letta.

Susan Minot, SCIMMIE, Playground, 2020 (traduzione di Bernardo Anselmi)
È impressionante pensare che SCIMMIE, il romanzo di esordio di Susan Minot, riproposto da Playground nella nuova traduzione affidata a Bernardo Anselmi, sia datato 1987. Dopo più di trent’anni mantiene intatto il suo valore letterario e anzi la storia sembra acquisire ancora più significati. Al centro della scena è sicuramente lei: Rosie Vincent, nata Rose Maeie O’Dare. Sposata ad Augustus Paine Vincent, una casa elegante a Marshport nel Massachusetts, una su un’isola nel Maine e vacanze all’isola di Bermuda. E, cosa non trascurabile, sette figli, le scimmie - soprannome affettuoso - del titolo. Da una parte Susan Minot ci racconta una famiglia dell’alta borghesia americana ritratta in nove episodi dal 1966 al 1978, che ci riporta al clima di molti film glamour degli Anni Sessanta e anche alle antiche, colte e potenti famiglie americane sul modello dei Kennedy. Dall’altra parte SCIMMIE sembra un romanzo ottocentesco, ricorda le atmosfere descritte da Henry James e anche quelle più europee di William Somerset Maugham. Susan Minot ha una scrittura efficace e sempre elegante, non esplicita gioie, lutti, sofferenze ma li trasmette al lettore attraverso le azioni e le voci dei suoi personaggi: “La madre era seduta sul letto, nella sua vestaglia più graziosa, con i cuscini dietro la schiena, orlati di fleurs-de-lis, e teneva in braccio il suo nuovo tesoro... Poi è venuto il momento della poppata... E Caitlin e Sophie l’hanno rivisto, quel suo sguardo folle, febbricitante, con qualcosa in più. Era rivolto a loro e diceva: al mondo non c’è nulla di paragonabile a questo”. Rosie è sicuramente il personaggio più complesso e interessante del romanzo: affascinante, ironica, empatica, ammirata, capace di mediare tra i figli e il marito depresso e tendente all’alcolismo, sempre disponibile e garbata, senza annullarsi nel ruolo di moglie e madre, tanto che si sospetta anche di una sua relazione extraconiugale. La scrittrice americana inoltre dimostra una grande abilità nel raccontare bambini e ragazzi e descrive con precisione quasi chirurgica le relazioni e le contrapposizioni tra il mondo dell’infanzia e quello degli adulti. Un libro, o meglio, un’autrice da riscoprire.

Nava Ebrahimi, SEDICI PAROLE, Keller, 2020 (traduzione di Angela Lorenzini)
Sedici parole per raccontare una storia, sedici parole per percorrere uno o meglio due paesi, sedici parole per parlare di amore, vita, famiglia: Nava Ebrahimi nel suo romanzo d’esordio ci accompagna nell’esistenza di Mona, giovane donna nata in Iran ma cresciuta in Germania, che torna nel paese di origine per la morte della nonna. Il romanzo prende il via proprio dalle parole e da come il modo in cui le usiamo dice in realtà chi siamo: “Non riuscivo a difendermi, le parole tornavano sempre di nuovo a impormi il loro messaggio: qui c’è ancora un’altra lingua, la tua lingua madre, non credere che quella che parli sia davvero la tua”. Allora Mona comincia a declinare attraverso le parole del suo paese d’origine il ritorno in Iran, i racconti della sua infanzia, la figura straordinaria della nonna, il viaggio con la madre all’antica città di Bam dove scopre di essere in realtà nata, la relazione con Ramin, lo spazio non solo linguistico che ha messo tra i suoi due paesi. Noi viaggiamo con lei e grazie a uno stile che si potrebbe definire speziato, ricco di toni e sfumature, dal malinconico al poetico, dal polemico all’ironico scopriamo cosa significa abitare un’altra lingua: “Dopo essere immigrati in Germania avevamo inventato una lingua con cui si potevano regolare magnificamente faccende pratiche come udienze scolastiche, regali di Natale o periodi da trascorrere con il genitore non affidatario. Ma per una conversazione nella stanza 0034 del reparto di oncologia della clinica universitaria di Colonia, la nuova lingua era inadatta. E quella vecchia l’avevamo smarrita. E anche se avessi inventato in fretta un nuovo mezzo, raccogliere tutte le risposte ora, alla fine, come gli alcolizzati che all’ultimo giro ordinano ancora più birre insieme, mi sarebbe sembrato meschino. Non ero passato-dipendente”. Un romanzo con molte voci femminili che ci raccontano un Iran diverso dalle immagini stereotipate e spesso ingannevoli che ritraggono il paese mediorientale.

Sarah Savioli, GLI INSOSPETTABILI, Feltrinelli, 2020
Se piante e animali potessero parlare... In GLI INSOSPETTABILI succede proprio questo. Anna infatti, quarant’anni ben portati, un marito e un figlio entrambi irresistibilmente nerd, un ficus dormiglione, un gatto filosofo, un criceto dispettoso e distruttore, ha la capacità di comunicare con il mondo vegetale e animale. Un incidente le ha lasciato in eredità un piccolo ematoma celebrale, innocuo secondo i medici, ma che regala ad Anna questa sorta di superpotere, che naturalmente tiene ben nascosto. Ne sono a conoscenza il marito e il figlio e il suo irascibile datore di lavoro, il proprietario di un’agenzia investigativa di alto livello. Che però, a causa della crisi economica, si vede costretto ad accettare anche incarichi minori, come gli eterni sospetti di tradimento. Anna si rifiuta di aiutarlo in queste indagini e i battibecchi tra loro sono parte del divertimento che regala il libro. GLI INSOSPETTABILI infatti è un giallo ma anche un romanzo umoristico e sociale che riesce anche a darci uno sguardo insieme critico e partecipe verso il nostro paese, ritratto nella sua quotidianità. Seguiamo Anna nelle sue incombenze familiari, dagli orari della scuola del figlio alla spesa, al tentativo di coltivare una minima vita sociale. Poi entriamo in una sorta di doppia vita dove la giovane donna si trova a indagare su un omicidio e su uno strano commercio di stupefacenti. E a utilizzare i suoi insospettabili informatori che via via hanno le sembianze di innocue tartarughine o ostinati asini. Ma ci sono misteri anche nella famiglia di Anna, in particolare legati alla sua intelligente e seducente sorella, non molto fortunata con le storie d’amore. Sarah Savioli è brava a unire commedia e indagine, in un equilibrio che non scontenta né gli amanti del giallo, né chi ha bisogno di sorridere un po’. Grazie a un romanzo leggero e intelligente che ti strappa ad ogni pagina un sorriso e un moto di vicinanza e di condivisione con la protagonista. Che aspettiamo di vedere coinvolta in altre indagini, ma anche di seguire nella sua vita di moglie, madre e sorella. Per venire così aggiornati sulla salute del ficus e scoprire con quali altri insospettabili scambierà dialoghi più o meno inaspettati.

Emanuela Canepa, INSEGNAMI LA TEMPESTA, Einaudi, 2020
“Non occorre pensarla allo stesso modo per aiutare qualcuno. Può esserci amore anche nella furia. Può esserci amore nella distanza”. Emanuela Canepa dopo L’ANIMALE FEMMINA torna con INSEGNAMI LA TEMPESTA, un altro romanzo che si concentra sulle dinamiche delle relazioni che sperimentiamo ogni giorno. La scrittrice romana, infatti, possiede la capacità di indagare, raccontare, svelare i rapporti familiari e non solo. Come la lanterna della copertina, con la sua scrittura densa e incalzante, mette in luce ombre e anfratti dei rapporti umani, senza mai banalizzare la complessità dei sentimenti e degli accadimenti della vita ma anzi illuminandola di nuovi sguardi: “Prendere in considerazione la vita e la sua trama intricata, invece di allestire sempre un campo di battaglia per affermare un principio”. INSEGNAMI LA TEMPESTA racconta la storia di Emma che rimane incinta ancora studentessa di Matilde, e rimedia per così dire alla tetra ostilità dei suoi genitori sposando Fausto che non è il padre biologico della bambina. Gli anni passano e Matilde entra nell’adolescenza e si allontana sempre più dalla madre, mantenendo una grande complicità con il padre. Emma è un personaggio intenso e complesso, fragile e volitiva nello stesso tempo, affettuosa e impositiva. Con Matilde si innesta un classico meccanismo di ricatto affettivo che Emma non riesce a riconoscere e quindi a sciogliere. Ci vuole uno sguardo terzo, che sarà quello di Irene, la cui figura però si porta dal passato il suo carico di sofferenza e incomprensione. In realtà ogni lettore troverà rappresentati i grovigli emotivi che vive o che ha vissuto, perché Emanuela Canepa sa mostrare le infinite vie del contrasto ma anche dell’amore. Così essere madre, padre, figli si può declinare in tanti modi: nell’amicizia, in una scelta sofferta, in una decisione consapevole e coraggiosa, nel non rinunciare a se stessi, nel rispetto delle diversità. E maternità e paternità si arricchiscono di nuovi e anche inattesi significati perché INSEGNAMI LA TEMPESTA è anche un bel ritratto di incontro/scontro generazionale, dove a insegnare non sono solo gli adulti.

Ivan Doig, L’ULTIMA CORRIERA PER LA SAGGEZZA, Nutrimenti, 2020 (traduzione di Nicola Manuppelli)
“Forse tra simili ci si intende, giusto? E in quel momento la mia testa sempre piena di fantasie, tra le nuvole o comunque si voglia definire la capacità di vedere le cose in modo più ampio e intenso di come sono in realtà, dovette riconoscere che quello strano occhialuto giardiniere che rispondeva yah ad ogni domanda, quel marito che viveva oppresso dalla moglie e aveva cinque volte i miei anni, possedeva una dannatissima, strabiliante immaginazione”. Anche noi grazie all’immaginazione e soprattutto al talento narrativo di Ivan Doig viviamo una grande avventura leggendo L’ULTIMA CORRIERA PER LA SAGGEZZA, pubblicato da Nutrimenti nell’ottima traduzione di Nicola Maluppelli. Lo facciamo grazie a Donal, senza la d finale, undici anni, una zazzera di capelli rossi, una parlantina che lo mette nei guai o lo aiuta a tirarsene fuori a seconda dei casi, un prezioso libro delle dediche e un pungente talismano, una camicia da rodeo e un nome indiano ma soprattutto tanta fantasia e il gusto e il piacere di raccontare. Che gli serve per apprezzare la vita, nonostante sia rimasto orfano di entrambi gli amati genitori e debba lasciare la nonna che non può occuparsi di lui per alcuni mesi. Così è costretto ad abbandonare la fattoria del Montana dove la donna è impiegata come cuoca per raggiungere nel Wisconsin due prozii che non ha mai conosciuto. Siamo negli anni ’50 e anche noi ci accomodiamo sull’enorme corriera Greyhound e seguiamo la traversata ovest degli Stati Uniti, fatta di immersi paesaggi, piccoli incidenti, scoperte, stazioni di sosta, ma soprattutto incontri con una varia umanità in viaggio. Che passa da un gruppo di suore a un manipolo di soldati, da un’affascinante cameriera a uno scrittore che della strada ha fatto la sua ispirazione. Ivan Doig, scomparso nel 2015, è uno dei riconosciuti cantori del suo Paese e anche se giustamente rifiutava la definizione di scrittore western, riesce a restituirci con grande veridicità quel mondo di spazi sterminati, fattorie, ranch, combattuti rodei, cowboy e indiani narrando la vita della frontiera. Donal è poi un personaggio a cui è impossibile non affezionarsi e il romanzo di Doig è vivace e intrigante come il suo protagonista.

Anne Griffin, QUANDO TUTTO È DETTO, Atlantide, 2020 (traduzione di Bianca Rita Cataldi)
Un romanzo che è un’intera esistenza, un lungo racconto affidato al figlio lontano, il bilancio di una vita insieme ordinaria e straordinaria: QUANDO TUTTO È DETTO, il bel libro della scrittrice irlandese Anne Griffin, pubblicato da Atlantide nella sapiente traduzione di Bianca Rita Cataldi, potrebbe anche intitolarsi “Quando tutto è fatto”. E uomo di azione è sicuramente Maurice Hannigan, che troviamo ottantenne seduto al bar di un lussuoso albergo mentre attende di svelare un segreto che si porta dentro da anni e chiudere così i conti con il passato. Rivolgendosi al figlio che ha lasciato la natia Irlanda per gli Stati Uniti dove si è affermato come giornalista e ha scelto un lavoro intellettuale lontano da quello del padre. Che del lavoro fisico, dell’impegno costante ha fatto lo scopo della sua vita, anche per rivalsa verso una condizione sociale che lo voleva condannato alla sottomissione e all’ingiustizia. La vita di Maurice è certo segnata dal lavoro ma anche dagli affetti familiari a partire dalla madre che ha tenuto insieme la famiglia sino al lutto che ha rischiato di dividerli: la scomparsa di Tony, il figlio maggiore, il ragazzo amabile e dai tanti talenti, già destinato a grandi traguardi, che morendo lascia Maurice senza il suo scudo, senza la sua guida saggia e affettuosa. Ma c’è un’altra morte che condiziona la vita di Maurice, quella dell’amata primogenita Molly che l’uomo vede però spesso vicino a lui man mano che cresce, come gli accade anche per Tony. Seduti al suo fianco sulla sedia del bar ripercorriamo il filo della memoria che è il tema centrale della storia perché alla fine noi siamo proprio questo, l’insieme dei nostri ricordi. Quello che Maurice infatti teme di più è proprio che si spezzi questo legame con l’amata moglie Sadie: “Gli ultimi due anni sono stati infernali. Sentivo il dolore della sua assenza fin nelle ossa... La cosa peggiore è stata la paura di svegliarmi una mattina e non ritrovarla più nella mia memoria, andata per sempre, e questo, figliolo, non potrei sopportarlo”. Un romanzo che, come dice John Banville, è un vero gioiello perché sa trasmettere con la scrittura il senso della vita.

Kathleen Rooney, LILLIAN BOXFISH SI FA UN GIRO, 8tto edizioni, 2020 (traduzione di Cristina Cicognini)
“Il mio lavoro per me era come un’arte: dare forma al mondo. A volte ho la vaga impressione che la gente fosse più preparata e intelligente una volta. Potevo scrivere un annuncio per il reparto bagagli con una perfetta anafora e nessuno avrebbe dubitato della sua efficacia”. La protagonista di LILLIAN BOXFISH SI FA UN GIRO, il romanzo di Kathleen Rooney appena pubblicato dal nuovo e già apprezzato editore 8tto, fa o meglio faceva un lavoro molto creativo: scriveva infatti a partire dagli anni Trenta le campagne pubblicitarie dei grandi magazzini newyorkesi Macy’s. Noi la incontriamo il 31 dicembre del 1984. Arrivata in buona salute all’età di ottantacinque anni, decide di uscire da sola per festeggiare l’ultimo dell’anno nella città dove ha scelto di vivere e di rimanere a vivere. New York, con le sue strade ma soprattutto i suoi abitanti, è l’altra protagonista della storia e noi la percorreremo insieme a Lillian durante la notte ma anche mentre ci racconta la sua vita, la fuga dalla provincia e da una madre soffocante e la scoperta di avere un talento per la scrittura e per l’umorismo. E anche una concezione del ruolo della donna e del matrimonio rivoluzionaria secondo il pensare comune dell’epoca, ma forse non solo: “Davvero una persona sana di mente poteva essere contraria alla speranza, al romanticismo, all’amore, al matrimonio, ai figli, alla famiglia: i materiali che più stavano alla base della società umana? Io – la Ragazza Poeta in carne ed ossa – ero forse segretamente un mostro perché nutrivo questi sospetti?”. Liberamente ispirato alla vita e all’opera di Margaret Fishback, la copywriter donna più pagata al mondo negli anni Trenta, il romanzo di Kathleen Rooney è il ritratto di una donna intelligente, spiritosa, acuta, appassionata, che non ha mai rinnegato il suo talento. Lillian fa alla fine un bilancio della sua vita tra successi e dolori, incontri e rimpianti, ma non smette mai posare il suo sguardo ironico sul mondo: “Uno dei tanti fatti poco sorprendenti della vita che, presi nell’insieme, ultimamente rendono palese la condanna della nostra specie è questo: le persone che incutono rispetto non sono mai conosciute quanto le persone che richiedono attenzione”.

Giulia Corsalini, KOLJA. UNA STORIA FAMILIARE, Nottetempo, 2020
Il secondo romanzo di Giulia Corsalini è una bella riflessione sul matrimonio e l’essere genitori ma in realtà sulla vita intera. Attraverso una coppia di mezza età, separata di fatto ma ancora molto legata, che si ritrova ad ospitare nella piccola casa al mare tre bambini ucraini provenienti da un orfanotrofio per un periodo di “risanamento”. Il loro arrivo sembra un po’ scuotere se non illuminare le esistenze volutamente ordinarie di Natalia e Marcello: lui che trova rifugio nei suoi studi classici e lei che coltiva un’inquietudine di maniera che serve solo ad alimentare i suoi rimpianti. Tra cui quello di non aver proseguito con la scrittura e forse anche quello della mancata maternità. La scrittura di Giulia Corsalini pulsa di una grande ricchezza linguistica e culturale che non è mai fine a se stessa ma sempre al servizio della storia. Che è anche un ritratto fedele del nostro paese e di una generazione che ha voluto o dovuto lasciarsi vivere. Ci ho letto anche una sincera e spietata riflessione sul rapporto tra la lettura e la cultura in generale e la vita vera, tra gli strumenti che la conoscenza può darti e la capacità di metterli in relazione con la realtà piuttosto che usarli come alibi per sottrarsi a decisioni e impegnativi coinvolgimenti emotivi. Un romanzo riuscito, intenso, con tanti registri narrativi e che parla a tutti noi.

Cynan Jones, LA BAIA, 66than2nd, 2020 (traduzione di Gioia Guerzoni)
“Sentiva l’arco della corrente che lo trascinava, il movimento impercettibile che lo spingeva lontano dalla costa. Una forza potente in quelle acque all’apparenza calme. Lì all’aperto aveva provato una sensazione di pace. Non si sentiva solo vicino alla baia, ma anche a sé stesso. Pensava: Perché smettiamo di fare quello che ci piace, che ci fa bene?”. Il protagonista del nuovo, fulminante libro di Cynan Jones, LA BAIA, pubblicato da 66than2nd nella suggestiva traduzione di Gioia Guerzoni è un giovane uomo che esce in kayak per pescare nella baia isolata che si illude conosciuta solo da lui e dal padre. A casa lo aspetta la compagna incinta del loro primo figlio, a cui lascia un laconico biglietto: “Cogli dell’insalata x”. In realtà il giovane uomo è uscito nella baia anche per un altro motivo: “Nelle ultime settimane aveva dovuto passare in rassegna così tante cose, così tanti oggetti che provocano piccole esplosioni di ricordi; ma con le ceneri era il contrario. Stava cercando di evitare quel pensiero, ma le ceneri non avevano idea di cosa fossero. Sapeva che il loro valore stava nell’averlo portato lì. (...) Voleva trasformarle nell’elemento fisico di suo padre”. Ma mentre decide dove spargere le ceneri del’amato genitore da poco scomparso viene investito da una tempesta anomala e colpito da un fulmine che lo lascia ferito, non solo nel fisico. Quando si riprende infatti non ricorda neppure chi è ma soprattutto deve pensare a come sopravvivere e tornare a terra. Cynan Jones con una scrittura che appartiene più a un poema che a un romanzo abbandona anche noi alla forza della natura e dei ricordi. Con un ritmo incalzante e una lingua densa e travolgente viviamo attimo per attimo la lotta contro la morte e ripercorriamo idealmente tutto il percorso di un’esistenza, dalla scomparsa di un genitore all’arrivo di una nuova vita. E sia il padre morto sia il nascituro sono in realtà vivi e reali e spingono idealmente il kayak verso la riva. Raffinato e intenso, il breve libro di Cynan Jones riesce a trasmetterci la forza insieme distruttiva e vitale del mare e la complessità dei sentimenti che accompagnano le stagioni della nostra vita.

Peter Mendelsund, CHE COSA VEDIAMO QUANDO LEGGIAMO, Corraini, 2020 (traduzione di Maria Teresa de Palma)
“Gli autori sono curatori dell’esperienza. Fitrano il rumore del mondo e da questo rumore estrapolano il segnale più puro che riescono a ricavare; a partire dal disordine, creano una narrazione. Organizzano questa narrazione in forma di libro, e presiedono – in un modo difficile da descrivere – all’esperienza della lettura. Eppure, per quanto puro possa essere l’insieme di informazioni che gli autori forniscono al lettore, per quanto diligentemente pre-filtrato e saldamente ricomposto, il cervello dei lettori svolgerà l’incarico che gli è stato attribuito: analizzare, vagliare e classificare... Del mondo dell’autore assimiliamo quanto ci è possibile, e a questo materiale uniamo il nostro, combinandoli nell’alambicco delle nostre menti di lettori in modo da creare, come alchimisti, qualcosa di unico”. Come non è facile studiare e capire cosa avviene nel nostro cervello quando leggiamo, così non è facile parlare dello straordinario libro di Peter Mendelsund CHE COSA VEDIAMO QUANDO LEGGIAMO, che, unendo considerazioni, immagini, storia personale racconta il complesso meccanismo della lettura. Che certo prende il via quando posiamo gli occhi sulla pagina scritta ma coinvolge tutto il nostro essere a partire naturalmente dal cervello. Si vede che Peter Mendelsund è un maestro della grafica ma anche un lettore e un appassionato conoscitore dei meccanismi neurologici, psicologici e anche patologici che ruotano intorno alla magia del leggere. A partire dalla memoria che entra in gioco quando leggiamo opere narrative (“la memoria è fatta di immaginazione, l’immaginario di memoria”), al passato che le storie lette risvegliano (“L’atto di immaginarci gli eventi e i dettagli di un romanzo ci riporta involontariamente a sprazzi del nostro passato), così che facciamo nostro ciò che leggiamo: “Colonizziamo i libri con ciò che ci è familiare; ed esiliamo o rimpatriamo i personaggi nelle terre che conosciamo meglio”. Attigendo alla sua capacità di usare e leggere le immagini, il più premiato artista di copertine al mondo, riesce a mostrarci cosa vediamo oltre alle parole sulla pagina e che cosa immaginiamo. E mentre da una parte possiamo trovare precisi riferimenti agli studi più recenti della neuroscienza e della critica e apprezzare le tante fonti filosofiche e letterarie che Mendelsund mette in campo, da Piaget a Virginia Woolf, da Proust a Wittgenstein, dall’altra parte tutto questo immenso materiale intellettuale è come rimasticato dall’autore per offrirci un testo estremamente immediato e divulgativo, che regala a ogni lettore la piena consapevolezza del valore del gesto che compie ogni volta che apre un libro.

Sahar Mustafah, LA TUA BELLEZZA, Marcos y Marcos, 2020 (traduzione di Francesca Conte)
“Gli eventi contano poco, solo la loro narrazione ci tocca”: la frase in esergo tratta da THE HAKAWATI. IL CANTORE DI STORIE di Rabih Alameddine già racconta il potere e il valore della letteratura che troviamo in LA TUA BELLEZZA, il romanzo di Sahar Mustafah, appena pubblicato da Marcos y Marcos con la traduzione di Francesca Conte. Il racconto prende il via in un liceo islamico per ragazze vicino a Chicago dove irrompe un uomo bianco armato che subito spara su allieve e insegnanti. Ma il vero fulcro del libro è la direttrice della scuola, Afaf, di cui seguiamo poi a ritroso la storia. Nata negli Stati Uniti da genitori palestinesi, ignorata se non bullizzata a scuola, grande lettrice, Afaf non riesce a trovare un suo posto nel mondo. Prima messa in ombra dalla sorella maggiore Nada, preferita dalla madre, in seguito dal fratello minore che mostra talenti sia intellettuali che sportivi. La madre bellissima, vivace, intelligente e il padre, talentuoso musicista sembrano una coppia perfetta ma in realtà la donna non riesce ad adattarsi alla vita lontana dal paese di origine e la sparizione dell’amata Nada sembra darle un colpo quasi mortale. Ne rimarranno vittime il suo matrimonio, la musica del marito e gli altri due figli: “Sono tutti colpevoli. Da quando Nada è andata via, lei si è ripiegata in se stessa, nutrendo il dolore che la svuotava, convinta di soffrire più degli altri. E non avevano forse fatto tutti la stessa cosa, cementati dentro una perdita comune che non permetteva a nessuno di loro di andare oltre? Baba era stato il primo ad azionare il martello pneumatico, a smuovere il terreno, a ricacciarli a forza dentro la vita. Ma sarà così facile, ripararli? Ci sono troppe schegge taglienti, che attendono di essere ricomposte in una parvenza di normalità”. Sahar Mustafah mostra una notevole capacità narrativa e ci regala un romanzo pieno di spunti di riflessione: dall’immigrazione negli Usa al razzismo e all’intolleranza, dalla realtà di chi nasce da genitori stranieri sino alla perdita e alla nostalgia per le proprie radici; dalle vicende drammatiche che spingono a lasciare il proprio paese alla capacità di realizzare i propri sogni. Come quello di Afaf: “Voleva far sentire a ogni bambino che non era solo, soffiare sul potenziale di ciascuno fino a farlo divampare in fiamme ruggenti di speranza e di promesse che un giorno si sarebbero avverate. Insegnare le dà uno scopo, e, inaspettatamente, un senso di indipendenza inebriante. Qualunque cosa accada, sa di essere in grado di sopravvivere”.

Tommaso Melilli, I CONTI CON L’OSTE. RITORNO AL PAESE DELLE TOVAGLIE A QUADRETTI, Einaudi, 2020
“Questo viaggio ha un eroe, e non sono io. L’eroe di questa storia è ognuna delle tante persone, sono tante donne e tanti uomini, tanti ragazzi e ragazze, che – per un giorno o per tutta la vita – si sono sentiti l’oste di una casa aperta a tutti, dove si può entrare e sedersi a mangiare e bere. Avevo voglia di raccontare questo istinto che spinge ad accogliere le persone in quel modo lì, prima di tutto perché credo che sia una cosa importante per tutti, e in secondo luogo perché, quell’istinto, ce l’ho anch’io”. I CONTI CON L’OSTE. RITORNO AL PAESE DELLE TOVAGLIE A QUADRETTI di Tommaso Melilli è sicuramente una storia, una bella storia raccontata bene. Come dice lui stesso è uno spaccato della sua vita attraverso gli incontri che ha fatto e cercato ma è insieme anche un ritratto emblematico del nostro paese e una riflessione non banale sulle nostre radici culturali e quindi anche culinarie. Il giovane protagonista lascia appena può il paesino di provincia nella pianura padana dove era l’unico bambino della sua età e si trova a Parigi per allargare gli orizzonti e capire cosa vuole fare e soprattutto essere: “Le persone giuste per me alla fine le ho trovate, e le ho trovate proprio nei bistrot. Ci è voluto un po’ a capirlo, perché non erano sedute ai tavolini. Erano dietro il bancone e in cucina. Da un giorno all’altro mi sono ritrovato a fare il cuoco”. Accantonati gli studi di letteratura, ma non certo abbandonati come testimonia l’indubbia capacità narrativa, Melilli ci porta per mano oltre la porta delle cucine dei luoghi dove andiamo a mangiare per vedere dinamiche, strumenti, meccanismi ma soprattutto le idee, i sogni, la professionalità di chi ci lavora: “Noi clienti, noi che mangiamo e beviamo, abbiamo bisogno dell’oste, forse oggi più che mai. Abbiamo bisogno di una donna o un uomo che, quando ci sediamo a tavola, faccia proprio così: piega le ginocchia e i gomiti, e posa i pugni sul tavolo. Ci guarda negli occhi per capire cosa può fare di buono per noi. E c’è un motivo se ci guarda negli occhi: perché vuole capire che cosa vogliamo, perché l’oste sa perfettamente che noi, cosa vogliamo, non lo sappiamo quasi più”. Il viaggio è insieme sorprendente e rassicurante: da una parte ci racconta un paese unico, il nostro, dove “... le trattorie sono una forma di vita, ed è la forma che chiunque sia cresciuto in Italia si porta dentro ovunque vada, un calco della migliore cucina domestica della domenica”; dall’altra forse serviva uno sguardo giovane e che ha messo distanza dal suo paese per mostrare come la trattoria può mantenere i sapori di un tempo ma deve usare strumenti e accorgimenti moderni per operare nel XXI secolo. Ma anche al netto di tutte le considerazioni sul cibo e l’ospitalità I CONTI CON L’OSTE rimane un buon libro dove l’autore è riuscito a fondere e a mettere a frutto le sue passioni: la letteratura e la cucina.

Aglaja Veteranyi, PERCHÉ IL BAMBINO CUOCE NELLA POLENTA, Keller, 2019 (traduzione di Emanuela Cavallaro)
“LA NOSTRA STORIA RACCONTATA DA MIA MADRE È DIVERSA TUTTI I GIORNI. Siamo ortodossi, siamo ebrei, siamo internazionali! Mio nonno aveva un’arena circense, era un mercante, un capitano, si spostava di paese in paese, non ha mai lasciato il suo villaggio e faceva il macchinista di treni. Era greco, romeno, contadino, turco, ebreo, nobile, zingaro, ortodosso. Mia madre si esibiva al circo già da bambina per dare da mangiare a tutta la famiglia”. PERCHÉ IL BAMBINO CUOCE NELLA POLENTA di Aglaja Veteranyi pubblicato da Keller nell’efficace e poetica traduzione di Emanuela Cavallaro è un piccolo gioiello di stile e intensità che ci restituisce un’esistenza e insieme l’intera gamma dei sentimenti umani. La voce narrante è quella di una ragazzina piena di talenti che guarda alla sua famiglia non convenzionale e al mondo che abita con uno sguardo implacabile e insieme quasi distante. Perché mettere sullo sfondo serve a vedere meglio ma anche a distaccarsi da una realtà spesso dolorosa che la vede prima abbandonata dal padre, inaffidabile acrobata e attore e poi dalla madre e dall’amata sorella. Il tutto raccontato come i fotogrammi e le scene dei film immaginate dal padre, come le pagine di un diario, come i sogni che si alternano nella mente addormentata. La densa frammentarietà amplifica la profondità dei sentimenti ma anche la malinconica ironia della ragazzina e regala tanti percorsi di lettura che vanno dalla ricerca delle radici alle frontiere non solo fisiche, dalla passione per l’arte alla storia d’Europa: “Se avessi saputo come ci riduce la democrazia, non sarei mai andata via di casa! dice mia madre. Andiamo in paradiso, diceva tuo padre. Sì, il paradiso! Qui valgono più i cani dei cristiani! Se scrivessi alla mia famiglia che gli scaffali dei negozi sono pieni di cibo per cani, penserebbero che sono impazzita! Qui hanno tutti l’acqua calda nel bagno e un frigorifero nel cuore! Ma Dio non dorme, con le lacrime dei poveri ci farà un mare. Quando andremo in cielo, ci faremo il bagno. E quando usciremo, avremo la pelle d’oro a 24 carati!”. Così anche noi come la madre della protagonista siamo acrobati in questo mondo caotico e imprevedibile come lo spettacolo di un circo e leggendo abbiamo la sensazione di volare agganciati per i capelli.

Katherine Rundell, PERCHÉ DOVRESTI LEGGERE LIBRI PER RAGAZZI ANCHE SE SEI VECCHIO E SAGGIO, Rizzoli, 2020 (traduzione di Stefania Di Mella)
“Ignorate chi vi parlerà di sciocca fuga dalla realtà: non è fuggire, è trovare. I libri per ragazzi non sono un posto in cui nascondersi, sono un posto in cui cercare. Immergetevi con tutta l’anima in un libro per ragazzi: provate a vedere se vi scoprirete un’alchimia inattesa; se in voi tirerà fuori qualcosa che avevate per metà nascosto, per metà dimenticato. Leggete un libro per ragazzi per ricordarvi cosa si provava a desiderare cose impossibili e magari-non-del-tutto-impossibili. Rivolgetevi alla letteratura per ragazzi per vedere il mondo con il doppio degli occhi: i vostri e quelli del bambino che è in voi”. Ha già un titolo provocatorio il piccolo saggio di Katherine Rundell, una delle più amate e premiate autrici per giovani lettori e non solo: PERCHÉ DOVRESTI LEGGERE LIBRI PER RAGAZZI ANCHE SE SEI VECCHIO E SAGGIO, pubblicato da Rizzoli come anche i suoi romanzi. Il pamphlet prende di mira il pregiudizio che divide gli scrittori per ragazzi da quelli per adulti, considerando i primi autori di livello inferiore. Nella realtà è invece più complesso abbassare lo sguardo al livello dei piccoli lettori e saper entrare nel loro mondo. Ci vuole grande rispetto e onestà per raccontare storie ai ragazzi: “Chi scrive per ragazzi cerca di armarli con tutta la verità possibile per la vita che verrà. E forse segretamente di armare anche gli adulti contro quei necessari compromessi e quelle sofferenze che la vita porta con sé: per ricordare loro che ci sono, e ci saranno sempre, alcune grandi e fondamentali verità alle quali possiamo tornare”. Quella della scrittrice inglese non è una difesa del proprio lavoro e di una categoria che non gode di molto credito nel mondo letterario ma piuttosto un invito alla lettura quanto mai opportuno in questi giorni. Non per tornare all’infanzia ma per guardare al futuro con occhi diversi e condividere magari le storie con i più giovani: “Non sto di certo suggerendo che gli adulti debbano leggere solo o anche soprattutto letteratura per ragazzi. Dico soltanto che ci sono dei momenti della vita in cui potrebbe essere l’unica cosa da fare”.

Davide Calì e Noemi Vola, CHIEDI A TUO PADRE... E ALTRE FRASI MISTERIOSE DEGLI ADULTI. UNA PICCOLA GUIDA, Corraini, 2020
“Gli adulti sono sibillini. Pronunciano continuamente frasi misteriose, per nulla facili da decifrare! Quindi, parlando con loro, è facile avere delle incomprensioni. Ascoltandoli per parecchio tempo ho annotato le mie osservazioni in questo piccolo manuale. Spero vi sia utile”. CHIEDI A TUO PADRE... E ALTRE FRASI MISTERIOSE DEGLI ADULTI di Davide Calì e Noemi Vola, pubblicato da Corraini, è una guida indispensabile per i bambini ma anche per gli adulti. Troverete le frasi che tutti i genitori dicono ai figli come se avessero partecipato tutti allo stesso corso: “Chiedi alla mamma, chiedi al papà” perfetto per non rispondere. “Perché no, perché sì, forse, vedremo” e una collezione di domande cretine che potete arricchire alla fine con le vostre perché purtroppo queste domande si passano da generazioni e continuano a riprodursi. Davide Calì conferma il suo talento di mettersi ad altezza di bambino e raccontare la quotidianità con ironia e consapevolezza. Senza banalizzare ma anzi sottolineando la profondità dello sguardo e dei pensieri dei più piccoli che sono diretti e privi delle sovrastrutture che pesano sugli adulti. La guida è anche un viaggio nella vita dei bambini soprattutto grazie alle immagini di Noemi Vola che raccontano tante altre storie all’interno del libro. E che confermano il talento della giovane artista e del suo tratto colorato ed ironico. Così oltre al divertimento immediato CHIEDI A TUO PADRE... serve anche a ricordarci quando eravamo bambini oltre i pretestuosi racconti che spesso propiniamo ai più giovani sulla nostra infanzia. L’albo è anche una bella riflessioni sul linguaggio e sul modo in cui lo usiamo rivolgendoci ai più piccoli, spesso senza dare peso alle parole o usando un tono condiscendente, mentre i ragazzi ci ascoltano e anche molto attentamente. Con grande ironia Davide Calì mette a nudo la dose di ipocrisia e superficialità, dettata spesso dalla fretta e dalla frenesia, che spesso caratterizza il dialogo tra genitori e figli e insieme però regala agli adulti un importante momento di riflessione e dialogo. Così il libro è una sorta di ponte tra le generazioni, un po' come il grande cane ritratto sulla copertina. Ed è perfetto proprio da leggere insieme genitori e figli, prendendosi magari in giro e trovando altri esempi di frasi misteriose e domande cretine. Così potrebbe succedere persino che qualcuno riesca ad avere delle risposte sensate e ricevere il tanto desiderato cane!

Wioletta Greg, UN FRUTTO ACERBO, Bompiani, 2020 (traduzione di Barbara Delfino)
“Immaginai che la nostra casa fosse una specie di obitorio in pietra, un congelatore sorvegliato dagli occhi insanguinati della stufa nel quale mi ero abituata tanto al fetore degli animali in decomposizione quanto al dolce profumo del pane. Sulla soglia era appesa una croce di legno, ma qui la vera religione era un’altra: i libri sacri della zoologia, album con uccelli e pesci unti di allume e chiazze secche di colla solvente, involucri svuotati della loro imbottitura che attendevamo fedeli, in fondo all’armadio, che il maestro della cerimonia tornasse nel pomeriggio dalla cartiera, stendesse i giornali sul tavolo e iniziasse il rito della tassidermia”. Wiola, la ragazzina protagonista di UN FRUTTO ACERBO, il romanzo d’esordio della poetessa polacca Wioletta Greg, è una sorta di caleidoscopio sulla vita di una piccola comunità rurale nella Polonia degli anni Ottanta. Wiola è infatti la nostra guida nel suo mondo, fatto di oggetti, animali, riti, incontri, lavori. Lo sguardo di Wiola è acuto e ingenuo e spesso più lucido di quello degli adulti. Spesso poi scende anche più in basso, all’altezza di Nerino, l’amato gatto che la segue nelle sue avventure. Il mondo raccontato nel romanzo è da una parte molto fisico: il duro lavoro in campagna e nelle fabbriche, - la mamma di Wiola lavora pesantemente anche gli ultimi giorni della gravidanza -; gli animali che il padre di Wiola impaglia, le molestie sessuali, gli odori della natura. Ma poi dall’altra parte c’è il mondo incorporeo della religione, con la devozione in particolare alla Madonna, le messe della domenica, i riti tradizionali. E la minaccia del regime, il controllo politico di cui rimane vittima il padre di Wiola, condannato a due anni di prigione. Infine non manca l’elemento magico, come la paura dei temporali, che si crede siano causati dall’uccisione di un ragno, o tentare di evitare la sfortuna con strane pratiche tradizionali. La scrittrice polacca racconta, attraverso uno sguardo e un mondo piccolo, l’essenza della vita con un linguaggio apparentemente semplice ma che, come una matrioska al contrario, apre tantissimi sguardi e pensieri: “Che strano questo mondo... in un batter d’occhio hanno cominciato a darmi del vecchio, mentre dentro mi sento ancora come un frutto acerbo”.

Juli Zeh, L’ANNO NUOVO, Fazi, 2018 (traduzione di Madeira Giacchi)
“Il ciclismo è per lui puro relax, in bici si rilassa, in bici è solo con se stesso. Un sentiero sottile tra lavoro e famiglia”. Henning, il protagonista di L’ANNO NUOVO di Juli Zeh, è un uomo realizzato: ha un ruolo di responsabilità in una casa editrice, una moglie affettuosa ed efficiente, una bella casa a Gottinga, due bambini sani e allegri di quattro e due anni. Eppure da qualche mese è perseguitato dalla “cosa”, improvvisi attacchi di panico che non riesce pià a gestire. Nonostante le visite mediche e i tentativi di ignorarla la cosa peggiora e la moglie, spazientita, gli chiede di reagire, di tornare l’uomo che ha sposato. Le vacanze natalizie a Lanzarote, a cui l’ha praticamente costretta, diventano così decisive per il loro rapporto e non solo. Durante un solitario viaggio in bicicletta nell’isola Henning si sente male e viene soccorso da una giovane artista che lo porta nella sua casa. E qui il giovane uomo si accorge di esserci già stato, che l’ossessione per Lanzarote viene da lontano, che la sua infanzia si è prepotentemente fatta strada nella sua mente, sconvolgendola. Juli Zeh, una delle più grandi scrittrici tedesche, sa come pochi raccontare il mondo in cui viviamo. La tensione tra un modello di perfezione che Henning intravede nelle belle ville alle Baleari (“Davanti, vista mare, dietro, panorama sulle montagne. Quattro stanze da letto, tre bagni. Una moglie sorridente in pantaloni di lino e camicia svolazzante. Bambini felici che s’intrattengono giocando pacificamente tra loro. Un uomo forte, responsabile e affettuoso con la famiglia, ma indipendente e sempre sempre presente a se stesso”) e la realtà di una profonda insoddisfazione personale che a un certo punto esplode. Con il ritmo di un thriller Julie Zeh ci racconta le contraddizioni del mondo occidentale, l’altalena dei valori e l’influenza di un modello di vita che ci regala una schiavità dorata: “Eppure nella testa di Henning agisce ininterrottamente una calcolatrice... Non può farci niente. Deve registrare il valore di ogni cosa o, più esattamente, il suo prezzo. Forse il denaro è l’ultimo sistema d’ordine rimasto al mondo”. Un romanzo avvincente e incalzante, che pone tantissime domande necessarie e poi lascia a noi la responsabilità delle risposte.

Damir Karakas, IL POSTO PERFETTO PER L’INFELICITÀ, Nutrimenti, 2018 (traduzione di Elisa Copetti)
“Quando ritorno in Croazia, scriverò un romanzo su Parigi. Ho già cominciato a sviluppare un piano di scrittura. Il romanzo parlerà di uno scrittore di un piccolo paese sconosciuto, famoso nel suo piccolo paese, che arriva a Parigi per diventare uno scrittore famoso in tutto il mondo. Ho pensato al romanzo così: mentre alcuni scrittori attendono con ansia lo sparo di pistola dello starter, lui si posiziona di fianco alla pista: quando si sente lo sparo, gli scrittori si affannano verso l’arrivo, lui corre di fianco alla pista verso un bosco, dove può solo perdersi. Non c’è speranza che raggiunga l’arrivo, andrà già bene se nella selva oscura non lo faranno a pezzi delle belve rabbiose”. Sicuramente IL POSTO PERFETTO PER L’INFELICITÀ di Damir Karakas si è guadagnato un posto di rilievo nella ricca letteratura dedicata all’immigrazione. Sicuramente come tutte le catalogazioni l’etichetta è riduttiva ma indiscutibilmente il romanzo dello scrittore croato riesce a raccontare sentimenti e considerazioni di chi lascia il proprio paese in cerca di fortuna. In questo caso oltrettutto letteraria perché il protagonista lascia Zagabria con un buon ventaglio di opere e una discreta fama per provare a vivere di scrittura in Francia. Lasciata però la donna che gli aveva permesso di arrivare a Parigi, l’affascinante e intraprendente letterato sbarca il lunario dipingendo caricature ai turisti nella piazza davanti al Beaubourg, cercando di farsi largo tra bande di disegnatori di ogni nazionalità. E gli incontri sono tanti e persino inaspettati: “Spesso l’appartamento sembrava una stazione dei treni: negli ultimi mesi qui hanno sfilato bulgari, cinesi, rumeni, moldavi, serbi, bosniaci, ungheresi, polacchi, albanesi, armeni, turchi, curdi... Per qualche notte ha dormito qui anche un certo Goran, di Belgrado... Durante la guerra entrambi siamo stati al fronte, addirittura sullo stesso campo, solo su lati opposti e abbiamo sparato l’uno contro l’altro; quindici anni più tardi dormiamo a Parigi sullo stesso materasso, ci abbiamo riso su”. Il sorriso non manca neppure nel romanzo perché Karakas racconta con molta ironia le peripezie di un migrante che crede di essere arrivato nella terra promessa. Ma via via le speranze lasciano il passo alle false illusioni e il marchio di “straniero” sembra indelebile nonostante la sempre maggiore padronanza della lingua. Come è inesorabile il ritrovarsi unicamente tra stranieri e la frattura sempre più larga tra i francesi, in questo caso, e gli immigrati. Damir Karakas racconta una delle più grandi tragedie e contraddizioni del nostro mondo con un tono irriverente e colto, spietato e malinconico insieme.

Jenny Offill, TEMPO VARIABILE, NN, 2020 (traduzione di Gioia Guerzoni)
“Quali sono i tuoi talenti più utili?”. “Mi dicono che sono divertente, so come raccontare una storia con un ritmo rapido, piacevole. Cerco di non dilungarmi troppo sulle mie ambizioni disattese e sul fatto che detesto gli hippie e i ricchi”: Lizzie, la protagonista del nuovo romanzo di Jenny Offill, fa la bibliotecaria ma è anche, in realtà, una sorta di antropologa della varia umanità che incontra. TEMPO VARIABILE infatti è un catalogo ironico, sentito, intelligente e vero di persone alle prese con la vita di tutti i giorni. A partire dalla famiglia di Lizzie, dal pragmatico marito Ben al tenero figlio Eli, ancora ingenuo e spensierato, dal fratello Henry, che non riesce a liberarsi dalle droghe (come non capire la sua debolezza, però) sino alla madre che ha trovato in un gruppo di preghiera la sua ragione di vita. Ma il cerchio umano in cui Lizzie ci ingloba contiene gli utenti della biblioteca per i quali la bibliotecaria è prima di tutto un orecchio che ascolta (“Magari fossi una psicologa vera” dice mio marito “Allora sì che saremmo ricchi”), l’amica Sylvia, esperta di cambiamento climatico e alla fine disillusa sul futuro dell’umanità, le mamme dei compagni di scuola del piccolo Eli, il taxista invadente, la cognata, i vicini di casa, un affascinante giornalista. Jenny Offill affida a uno stile frammentario che è tutt’altro che sentenzioso un flusso di pensieri e accadimenti che raccontano dal di dentro un Paese complesso, soprattutto socialmente, come gli Stati Uniti. Sottolineando il continuo contrasto tra la nostra esistenza quotidiana e tutto quello che accade nel mondo e che continuamente ci arriva attraverso i media e i social, accrescendo il nostro senso di inadeguatezza. La scrittrice americana ci fa riflettere su cosa possiamo fare (“problema dei giovani: e se niente di quello che faccio ha importanza? Problema dei vecchi: e se ogni cosa che faccio ha importanza?”); su quanto, anche con la nostra indifferenza, possiamo incidere sul mondo, sui punti fermi che dobbiamo o non dobbiamo avere, alternando considerazioni profonde a barzellette e freddure spesso surreali. Perché la cifra del romanzo è l’umorismo nero, così raro e difficile da maneggiare, che arriva a noi anche grazie all’ottima traduzione di Gioia Guerzoni.

Seth, CLYDE FANS, Coconino Press, 2020 (traduzione di Leonardo Rizzi)
“Quello che avevo scoperto là dentro, e che alla fine ha sostenuto il mio interesse durante questo lungo progetto, era tutto un universo. Un piccolo mondo tranquillo, isolato e bagnato da una luce soffusa, ammobiliato con gli avanzi del periodo postbellico dei miei genitori. Un mondo malinconico magari, ma che mi affascinava perché mi sembrava separato dall’attività frenetica del ‘nostro’ mondo. Un luogo interiore dove sembrava che il tempo andasse più lento”. Un viaggio nel passato, illuminante per il presente: CLYDE FANS è il graphic novel che ha impegnato il grande artista canadese Seth per circa vent’anni. Ne è nato un capolavoro per immagini che attraverso la storia di una piccola ditta di ventilatori e dei due fratelli che la gestivano ci racconta il Canada dagli Anni Cinquanta sino quasi ai giorni nostri. CLYDE FANS è una sorta di amarcord di un mondo che non esiste più e insieme una riflessione profonda su cosa abbiamo perso e cosa invece sta meglio coniugato al passato. I due protagonisti della storia sono molto diversi: Abraham, il fratello maggiore, è volitivo e ambizioso, un venditore di talento che riesce a far fruttare per decenni la ditta di ventilari elettrici; Simon, invece è solitario e amante dei libri ed è anche il preferito della madre che lo protegge dal mondo. Entrambi soffrono l’abbandono da parte del padre ma reagiscono in maniera opposta. Intorno a loro oggetti, case, strade, luoghi che ormai non esistono più. Come sono cambiati i rapporti tra le persone, il modo di ritrovarsi, i ruoli sociali che Seth tratteggia attraverso le immagini che ritraggono vecchi motel, empori con ogni genere di merce, case in pietra, vecchi binari ferroviari che sembra quasi di toccare grazie alla profondità evocativa dei disegni dell’artista canadese. Poche le voci femminili, a segnare da una parte la solitudine di Simon, dall’altra l’atteggiamento da predatore e quasi da collezionista di amplessi di Abraham e la sua incapacità di instaurare un rapporto affettivo paritario con una donna. CLYDE FANS è un grande libro sulla e della memoria: non solo perché ci fa fare un viaggio a ritroso con la macchina del tempo, ma, soprattutto, perché ci mostra che quello che noi siamo è contenuto nei nostri ricordi. E che spesso la nostra memoria ci assolve e non ci impedisce di ripetere gli stessi errori. Bellissimo il dialogo finale tra i due fratelli che, solo a distanza di anni e di fronte ai loro fallimenti, cominciano un po’ a comprendersi. Come dice Abraham: “Mi credevo al passo con i tempi, non mi sono accorto che mi guardavo alle spalle”, forse anche noi sempre di corsa e travolti dal progresso tecnologico stiamo in realtà voltando le spalle al futuro.

Carlos Manuel Álvarez, CADERE, Sur, 2020 (traduzione di Violetta Colonnelli)
“La cosa assurda della vita non è che la vita finisca. Il fatto che finisca è, in fondo, meno insensato del suo ridicolo inizio. l’assurdità della vita è la sua cattiva distribuzione, penso, quell’evidente squilibrio interno degli eventi, la cattiva ripartizione dei fatti importanti. Prima dei vent’anni c’è una voragine trascendentale in continuo fermento, è un brodo che non smette di ribollire, e non riusciamo a digerire tutto ciò che la vita ci offre. Ci sono sempre segni nuovi da interpretare, segnali e illusioni che si succedono, terze e quarte dimensioni. A vent’anni, esattamente a vent’anni, è tutto finito”: Diego è uno dei quattro narratori di CADERE, il convincente romanzo d’esordio dello scrittore cubano Carlos Manuel Álvarez, pubblicato in Italia da Sur. Nel libro infatti si alternano le voci di Diego, il figlio, 18 anni e impegnato nel pesante servizio militare; Maria, la figlia, che lavora in un grande albergo; Mariana, la madre, insegnante al momento in malattia a causa di gravi attacchi epilettici e Armando, il padre, convinto seguace di Che Guevara, integerrimo dirigente pubblico. Il cadere del titolo è insieme tangibile e metaforico: Mariana è vittima di continue, improvvise e pericolose cadute, ma il romanzo racconta la caduta dell’illusione comunista e la crisi di un paese che fatica a trovare una nuova identità. L’aspetto politico e sociale è ben rappresentato dalle convinzioni e dai pensieri delle due generazioni: Armando è granitico sulla sua fedeltà al comunismo e lo applica nella vita quotidiana ostinandosi a ricercare la massima onestà in un mondo in cui ognuno pensa per sé e ad arraffare il più possibile. Diego e Maria sono disillusi, non vedono prospettive per il futuro e anzi sentono sulle loro spalle un’eredità pesante di cui vogliono liberarsi. Anche rinnegando i principi trasmessi dai loro genitori. Attraverso la quotidianità dei suoi personaggi Álvarez ci racconta dal profondo la Cuba di oggi senza risparmiare le contraddizioni di un paese ricco di grigio e colori nello stesso tempo. E ci mostra come anche minimi accadimenti possano incidere sulla vita di chi ha già percorso un tratto della sua esistenza e di chi invece ha più futuro che passato.

Jessica Andrew, ACQUA SALATA, NN, 2020 (traduzione di Silvia Rota Sperti)
“Ho cominciato a pensare al linguaggio come a un posto dove mettere ciò che si sente. Prima del linguaggio tutto è confuso e coagulato all’interno. I neonati piangono in continuazione, traboccano di sentimenti che non sanno dove mettere. I bambini nascondono i sentimenti negli oggetti per tenerli al sicuro. Prendono manciate del loro dolore e le infilano nei recinti, nelle piscine e nei vecchi peluche come un tesoro sepolto. Poi a volte, da adulti, troviamo oggetti che racchiudono i nostri vecchi sentimenti. Un pacchetto di Polo alla frutta. Un volto nascosto tra le pieghe di una tenda. Un cd graffiato degli Oasis”: tra nuovi e vecchi sentimenti si muove il sorprendente romanzo d’esordio di Jessica Andrews ACQUA SALATA edito da NN con l’intensa traduzione di Silvia Rota Sperti. Il racconto prende il via dalla morte del nonno della giovane protagonista, Lucy. La ragazza, reduce dalla laurea, dopo il funerale, decide di non tornare a Londra e neppure a casa della madre: “Mai madre lasciò l’Irlanda dopo il falò. Tra noi le cose non andavano ancora bene. Sapevo che stava cercando di insegnarmi qualcosa di importante su come vivere la mia vita, ma ero troppo arrabbiata con lei per starla a sentire”. Lucy si isola nel vecchio cottage in pietra del nonno nel Donegal, dove ha passato molte estati della sua infanzia e apre la scatola dei ricordi. Ripercorre così il rapporto viscerale con la madre, quello conflittuale con un padre alcolizzato e depresso, il legame con il fratello più giovane, scampato a una grave malattia e affetto da sordità e per questo sempre molto protetto. La giovane donna si ferma per fare il punto della sua pur breve vita e mettere ordine nelle relazioni ma soprattutto dentro di sé. Perché fare i conti con il passato, con il proprio corpo, con l’eredità che abbiamo ricevuto dalla famiglia in cui siamo nati e che non possiamo né ignorare né cancellare è spesso l’unico modo per vivere il presente. Quello che colpisce maggiormente di Jessica Andrews è questa consapevolezza, lo sguardo rivolto indietro con gli occhi della giovinezza, e soprattutto come riesce a esprimere i complessi e controversi sentimenti di Lucy attraverso la letteratura con una scrittura apparentemente naturale ma in realtà frutto di un grande talento e di una tecnica raffinata.

Levi Henriksen, IL LUNGO INVERNO DI DAN KASPERSEN, Iperborea (traduzione di Andrea Berardini)
Esce un nuovo libro della casa editrice Iperborea e già sappiamo che andremo probabilmente in un paese freddo: e non sbagliamo perché IL LUNGO INVERNO DI DAN KASPERSEN di Levi Henriksen ci porta in Norvegia quando le temperature toccano anche i venti gradi sotto zero. Ritroviamo anche in questo romanzo dello scrittore norvegese le caratteristiche già amate in “Norwegian blues”, libro tra l’altro vincitore nel 2017 del premio Acerbi: personaggi vivi e indimenticabili, paesaggi immmensi e imbiancati ma sempre pieni di vita, un sottile umorismo e la capacità insieme di raccontare la fragilità dell’esistenza ma anche il valore della vita. Dan torna nella fattoria della sua famiglia dopo due anni di carcere per aver trasportato della droga. Anche se era un semplice esecutore è stato incastrato dal vero responsabile che però grazie ai soldi e al nome della sua famiglia riesce a cavarsela. Quando torna a casa Dan lo fa solo per rivedere il fratello minore Jakob che però, prima che lui arrivi, si toglie inspiegabilmente la vita senza lasciare nessun messaggio. Ormai nulla lo lega più al suo paese natio ma tutto sembra complottare perché non riesca ad andarsene: un anziano e potente uomo viene aggredito e Dan viene subito sospettato, ma soprattutto compare Mona, giovane madre di un bimbo di sei mesi che sembra attrata se non innamorata di lui. Per non parlare dell’inaffidabile ma indispensabile zio Rein che ha cresciuto lui e il fratello dopo la morte dei genitori. Ma Dan sembra essersi scelto il ruolo del perdente e fatica a ritrovare la fiducia in se stesso. E noi idealmente gli stiamo vicino, cerchiamo di spingerlo a credere ancora nel futuro. Speriamo che il freddo che detesta rimanga solo quello atmosferico e che amore e speranza lo riscaldino di nuovo. Dan è uno di quei personaggi a cui non si può non affezionarsi e il talento dello scrittore norvegese è metterci di fronte agli accidenti della vita, mostrarci come una decisione presa in modo superficiale può indirizzare il corso della nostra esistenza. Dan si trova di volta in volta di fronte a un bivio e non è facile prendere la decisione giusta. Ma la primavera sta per arrivare.

George Pelecanos, L’UOMO CHE AMAVA I LIBRI, SEM (traduzione di Giovanni Zucca)
“Infilò il libro sotto la camicia, si aggiustò il berretto e si avviò a piedi in direzione sud. Stava già pensando al romanzo, alla sua unione tra racconto e voce. Lo aveva catturato all’istante, lo aveva portato altrove. Per chiunque l’avesse visto, era solo uno dei tanti in giro per strada, che camminavano svelti per via del brutto tempo. Nessuno poteva conoscere la sua vita interiore o la sua storia, o il fatto che era nato e cresciuto a Washington, che aveva un lavoro onesto, una famiglia e degli amici. Un amante dei libri. Un uomo che sapeva chi era e chi sperava di essere”. È un lettore il protagonista di L’UOMO CHE AMAVA I LIBRI, l’ultimo giallo di George Pelecanos, uno degli indiscussi maestri del genere. Che riesce insieme a una trama come di consueto intrigante e avvincente a raccontare anche la passione per la lettura in maniera autentica e senza banalità. Michael è appena uscito inaspettatamente di prigione senza attendere un processo perché la vittima della sua rapina ha ritrattato le accuse. E si porta fuori anche la scoperta della lettura fatta in carcere grazie ad Anna, la bibliotecaria, che una volta alla settimana prepara i libri per i carcerati e ogni tre settimane li riuscisce in un gruppo di lettura: “Michael chiuse gli occhi. Quando leggeva un libro non era più rinchiuso in cella... Quando leggeva un libro, la porta della sua cella era aperta. Poteva varcarne la soglia. Risalire quelle colline sotto quell’immenso cielo azzurro. Respirare l’aria buona tutt’attorno. Vedere le ombre che si muovevano sugli alberi. Quando leggeva un libro, non era più dietro le sbarre. Era libero”. Così, armato di buoni propositi e sostenuto dalla madre che ha sempre creduto in lui, si mette alla ricerca di un lavoro. Che trova come anche alcune vecchie amicizie. Ma i conti con il passato non sono chiusi e il detective Phil Orzanian, che ha favorito la sua liberazione, ora chiede la restituzione del favore e lo coinvolge in una serie di furti, insieme a un poliziotto in pensione, che prendono di mira spregiudicati criminali, un po' come ne "La stangata" o addirittura come moderni Robin Hood. Ma al di là della trama gialla il romanzo di Pelecanos ci racconta un’America controversa dove la tentazione del crimine attira soprattutto i giovani. E mostra senza falsi moralismi il labile confine tra il bene e il male, tra il crimine e la giustizia non sempre uguale per tutti. Infine ci convince di come l’incontro con una bibliotecaria che conosce e sa trasmettere l’amore per i libri possa davvero regalare una nuova svolta di vita.

Giorgio Fontana, PRIMA DI NOI, Sellerio, 2020
PRIMA DI NOI, il titolo del nuovo romanzo di Giorgio Fontana, una delle voci più amate e seguite della letteratura italiana, racchiude già i temi fondamentali del racconto che si e ci interroga su come la storia della nostra famiglia influisca sulle nostre scelte di vita: “Possibile, si diceva, che il passato avesse una tale forza sul presente? Il potere di ciò che accade prima di noi è tale da forgiare un destino? O era soltanto colpa sua?”. Attraverso le vicende di un secolo della famiglia Sartori, da Maurizio che diserta dopo Caporetto e si rifugia in una fattoria friuliana dove conosce Nadia Tassan sino a Letizia, che alla fine del romanzo visita la tomba del bisnonno, Giorgio Fontana racconta quattro generazioni in lotta su diversi fronti, dalla guerra alla povertà, dalla fabbrica alla politica. “Ecco cosa stava combattendo: l’eredità di suo padre” dice a un certo punto Gabriele ma anche se la storia della famiglia è segnata dai rapporti controversi tra padri e figli, sono spesso le figure femminili, come quella straordinaria di Nadia, a segnare il destino dei Sartori. PRIMA DI NOI è un lungo viaggio insieme nella storia del nostro paese e nelle esistenze intime dei protagonisti. Lo scrittore milanese traccia attraverso gli eventi storici cruciali, la prima e la seconda guerra mondiale, il dopoguerra, il terrorismo, gli omicidi di mafia, il governo berlusconiano, un profilo politico e ideologico dell’Italia con la capacità di sottolineare contraddizioni e ingiustizie che sembrano non cambiare mai. Attraverso i destini dei singoli poi percorriamo i cambiamenti sociali del nostro paese, dall’abbandono delle campagne a favore delle industrie, dal passaggio dalla provincia alle periferie delle grandi città, dalla perdita del sostrato familiare alla crisi economica. Nel romanzo si respira e si vive una varia e sentita umanità perché i personaggi non diventano mai caricature - anche se sarebbe facile catalogare Gabriele come l’intellettuale poeta fallito, Renzo come il sindacalista illuso, e Eloisa come la sessantottina borghese – ma cercano, come ognuno di noi, “la fedeltà a un’idea, la capacità di tracciare una linea”.

Francesca Mannocchi, PORTI CIASCUNO LA SUA COLPA. CRONACHE DALLE GUERRE DEI NOSTRI TEMPI, Laterza, 2019
“Quando scrivo mi chiedo sempre quale sia la mia soglia, cosa tenere dentro l’inquadratura ideale del mio racconto. Quale sia il confine tra ciò che può (deve) essere visto e ciò da cui si può prescindere. La soglia non è un bordo, non è il confine manuale dell’inquadratura, è un punto in cui quello che osservo e riprendo, e dunque racconto, coincide con la mia comprensione del mondo. È il punto in cui chi guarda viene descritto da ciò che guarda. La soglia è il momento di trasparenza tra chi guarda e l’oggetto guardato. Cosa includere e cosa escludere rispetto a quello che si vede delle guerre?”. PORTI CIASCUNO LA SUA COLPA. CRONACHE DALLE GUERRE DEI NOSTRI TEMPI parla di tante soglie, di confini più o meno labili, di separazioni nette che nella realtà spesso non esistono. Grazie all’attenta analisi delle fonti, alla ricerca e verifica di dati e numeri, all’ascolto partecipe dei testimoni, al lavoro spesso pericoloso ma necessario sul campo unito all’acuta capacità di analisi e al coraggio di prendersi la responsabilità di raccontare esistenze spesso drammatiche, la giornalista romana ci offre una visione più ampia, un grandangolo per vedere davvero cosa sono le guerre contemporanee. Fronti di guerra che hanno ingoiato intere generazioni come quella degli abitanti di Mosul e che grazie alla tecnologia ci sembra di poter vedere e conoscere da vicino. In realtà PORTI CIASCUNO LA SUA COLPA ci mostra come, nel mondo dell’informazione globale, è ancora più necessario il lavoro dei reporter per evitare facili semplificazioni, per non perpetrare pregiudizi, per mostrare che in una guerra non ci sono confini così netti tra vincitori e vinti, vittime e carnefici. E che alcune domande sono eterne e senza risposta come la complicità dei più che non si oppongono alla violenza o la constatazione di come facilmente cade il confine tra giusto e sbagliato e così scende la soglia di umanità e di quello che sembra sopportabile. Per non parlare del dramma del dopoguerra, della perdita della memoria, della storia, come dice Gramsci, che è maestra di vita ma non ha allievi. Francesca Mannocchi ci offre nuovi punti di vista su cui interrogarci e riflettere.

Eugène Savitzkaya, MARINO IL MIO CUOR, Prehistorica, 2020 (traduzione di Gianmaria Finardi)
“Qui abbiamo l’abitudine di accogliere dei bambini, vale a dire di metterli al mondo come del resto si catturano elefanti selvatici. Coloro che catturano elefanti selvatici al fine di impadronirsene sono obbligati a sviluppare un’argomentazione sufficientemente forte per convincere l’elefante che la sua vita in cattività sarà mille volte più bella di quella che avrebbe potuto vivere allo stato naturale... I bambini che abbiamo sempre chiamato con parole dolci vengono al mondo di notte e di giorno e ci seguono senza che si debba promettere loro alcunché. In verità non c’è canto né promessa alcuna ma, al contrario, una sorta di inganno del silenzio, inganno di cui siamo stati e siamo noi stessi vittime per l’eternità”. MARINO IL MIO CUOR, il memoir di Eugène Savitzkaya pubblicato da Prehistorica nell’ottima traduzione di Gianmaria Finardi, già dalla copertina e dall’inchiostro azzurro è un tuffo nel... mare. Metafora della nascita ma soprattutto della paternità. Lo scrittore belga di lingua francese infatti ci racconta la nascita e i primi mesi del suo primogenito Marino usando un linguaggio epico e raffinato, ironico e potente dove non si può non riconoscere la magia della scoperta del mondo attraverso gli occhi di un bambino. Eugène Savitzkaya insieme sublima e rende tangibile quello che ogni genitore ha vissuto, dai primi vagiti al primo bagnetto, dal sistematico lancio degli oggetti dal seggiolone alle prime parole. Il tutto raccontato in una sorta di duello tra il gigante, che è tale solo per la grandezza e il nano, piccolo ma pieno di risorse e sorprese infinite. MARINO IL MIO CUOR riesce a immergerci nel mondo della genitorialità grazie a una efficace poesia del corpo, degli oggetti, degli animali: “Marino è un baco dal dorso di velluto. Dato che si sposta con difficoltà, questi accetta volentieri di farsi trasportare da una tartaruga, un cavallo, un cammello o un gigante nel collo del quale nasconde la sua testa che ha innumerevoli antenne. Questi passa ogni notte nel suo bozzolo e, la mattina, i genitori lo travestono da farfalla al fine di insegnargli i gesti della sua vita futura e di tenerlo aggiornato”.

Annet Schaap, LUCILLA, La nuova frontiera, 2019 (traduzione di Anna Patrucco Becchi)
Come può un romanzo racchiudere dentro di sé tanti altri libri come IL GIARDINO SEGRETO, L’ISOLA DEL TESORO, HEIDI, LA SIRENETTA e avere nello stesso tempo una voce unica e irripetibile? Magia degli scrittori come l’olandese Annet Schaap che ci racconta la storia di Lucilla, figlia del guardiano del faro. Rimasta orfana della mamma, deve stare attenta che la luce del faro sia all’imbrunire sempre accesa perché il padre oltre a una gamba mozza, è spesso ubriaco. Una sera però succede l’irreparabile, il faro è spento mentre infuria una bufera e Lucilla viene tolta al padre e mandata a servizio in una cupa e misteriosa villa che si vocifera sia abitata da uno spaventoso mostro... Qui incontrerà anche una saggia governante e il figlio, grande e grosso ma con la mente di un bambino. Mischiando realtà e fantasia Annet Schaap costruisce un racconto intenso, da leggere e rileggere per scoprirne sino in fondo la grande ricchezza.

Melania Mazzucco, L’ARCHITETTRICE, Einaudi, 2019
“Ne supra crepidam. Non più di quello che fai. Calzolaio o donna: resta al tuo posto. Mi chiesi se mio padre mi stesse istruendo per penitenza, per un esperimento, o per dimostrare a se stesso che non si era ingannato. E se era così giurai che sarei riuscita a fargli cambiare opinione”. Melania Mazzucco, nel suo nuovo romanzo L’ARCHITETTRICE, riesce a mettere insieme tanti tasselli che compongono la sua ricca tavolozza narrativa. Troviamo così lo studio e l’amore per la storia e per l’arte, in particolare qui del Seicento, la riflessione sul ruolo delle donne, la guerra, il potere nelle sue varie forme, la bellezza che l’uomo riesce nonostante tutto a creare, l’affresco vivo di una città come Roma al suo massimo splendore ma sempre insieme misera e opulenta, forse non tanto diversa da quella di oggi. Il tutto grazie allo sguardo di Plautilla Bricci, vissuta nella Città Eterna tra il 1616 e il 1705, la prima donna in Italia a firmare di suo pugno progetti architettonici come la villa detta "Il vascello" sul Gianicolo. Figlia di Giovanni Bricci, artista, poligrafo, commediografo e scrittore che non è riuscito però a emanciparsi dalle sue origini e rimane quindi per i suoi contemporanei “Giano Materassaio”, dalla professione del padre, Plautilla viene soprannominata da familiari e amici “Aristotele” per la velocità di apprendimento e la curiosità che la anima per lo studio, dall’arte alla filosofia, dalla medicina all’architettura. Grazie al padre può dedicarsi ai libri e soprattutto venire in contatto con molti degli artisti dell’epoca e con le loro opere. Ma Plautilla è il filo d’oro di una tela ricca e articolata che ci racconta la Roma del Seicento e soprattutto i suoi artisti dal Bernini a Caravaggio, da Pietro da Cortona ad Annibale Carracci. Il romanzo ci porta nel brulicare delle loro botteghe, in mezzo alle feroci rivalità e alle lotte di potere, e racconta le speranze di tanti giovani artisti che vedono nella Città Eterna la sola possibilità di realizzarsi. L’ARCHITETTRICE è anche il racconto di un rapporto di sangue ma anche di trasmissione di saperi tra un padre e una figlia, forse inedito nel Seicento e per questo oggi ancora più vivido. Così che leggendo si ha la sensazione di entrare noi stessi in un quadro, grazie alla scrittura raffinata, avvolgente e a tutto tondo della scrittrice romana.

Christopher Kloeble, QUASI TUTTO VELOCISSIMO, Keller, 2019 (traduzione di Scilla Forti)
“La vita è così, aveva detto, un mucchio di tessere di un puzzle che non combaciano mai, che riempono la gente di false speranze facendo credere che esista una risposta, una verità. Le ultime parole di Klondi gli restarono scolpite per sempre nella memoria: “Queste malefiche tessere” aveva concluso, “non sono altro che briciole di Hänsel”. Anche QUASI TUTTO VELOCISSIMO, il romanzo del giovane scrittore tedesco Christopher Kloeble, un vero caso letterario in Germania, pubblicato in Italia da Keller, è fatto di tante tessere che però trovano alla fine una loro, anche sorprendente, combinazione. La storia ci porta in un piccolo villaggio dove vive Fred, considerato un “Kloble”, un tonto, probabilmente affetto dalla sindrome di Down, perché gli abitanti del villaggio si accoppiano spesso tra consanguinei. Fred passa le giornate alla fermata degli autobus anche se non ne ha mai preso uno perché lo terrorizzano. Passa le ore a contare le macchine verdi e quando era più giovane è stato protagonista di un gesto eroico e insieme quasi involontario che ha salvato la vita a una neonata. Albert ha diciannove anni ed è cresciuto in un orfanotrofio e ogni tanto va a trovare il padre, Fred, che chiaramente non ha potuto crescerlo. Albert però non ha mai saputo chi fosse la madre che lo ha abbandonato così quando scopre che a Fred, a causa del cuore, rimangono pochi mesi di vita decide di passarli con lui e cercare di scoprire chi l’ha messo al mondo. Il romanzo è quindi anche un viaggio geografico e nel passato della famiglia, attraverso i luoghi di Fred, dal bosco al reticolo delle fogne e tra gli abitanti dello strano villaggio, divenuto ricco per un giacimento aureo e poi quasi abbandonato quando il filone si è esaurito. I personaggi da una parte sono quasi dolorosamente realistici, dall’altra sembrano usciti da una fiaba (il riferimento ad HÄNSEL E GRETEL non è casuale) ma forse realtà e favoloso non sono così distanti. Kloeble riesce a farci seguire con partecipazione e affetto le vite dei personaggi, in particolare di padre e figlio. E’questo il maggior pregio di un romanzo sentimentale ma mai banale che sa raccontare il bisogno di amore, la bellezza della vita e come la diversità riguardi ognuno di noi.

Polly Clark, TIGRE, Atlantide, 2019 (traduzione di Federica Bigotti)
Il nuovo romanzo di Polly Clark mi ha fatto venire meno a un principio a cui mi attenevo da qualche tempo: non leggere più un autore di cui avevo amato pazzamente un libro. Così dopo BRACI non ho più letto Sandor Marai e dopo STONER nient’altro di Williams. Però qui non ho resistito e dopo che LARCHFIELD è stato il mio libro 2018 ho subito affrontato TIGRE. Il mio istinto ha avuto ragione. Ho ritrovato tutto quello che avevo apprezzato nel romanzo d’esordio della scrittrice scozzese di origine canadese in un libro però molto diverso. Abbandonate le poesie di Auden e il clima intellettuale di LARCHFIELD, al centro di TIGRE sono come dice il titolo gli animali, o meglio il rapporto tra noi e loro. Sempre una donna protagonista, in questo caso Frieda Bloom, scienziata inglese, esperta di scimmie bonobo che si vede licenziare dal centro zoologico a Londra per cui lavora per approdare a un piccolo zoo di provincia. Dove viene spinta a occuparsi delle tigri e in particolare di Luna, appena arrivata dalla Siberia. Paese dove si sposta poi la scena del romanzo ma non vi racconto oltre perché dovete tirare pian piano da soli i fili della storia, perfettamente orchestrata da Polly Clark. Che riesce a creare un romanzo estremamente raffinato e curato e nello stesso tempo selvaggio e suggestivo. Sembra davvero di vivere nella taiga siberiana, si sente il freddo, la paura, la fame e insieme la forza vivifica della natura. TIGRE è un libro fisico che non risparmia al lettore sensazioni, colori, emozioni forti. E insieme è un libro filosofico che sa rappresentare la violenza ma anche l’amore più tenero, illumina i rapporti familiari e quelli tra animali e uomini. Epico e insieme contemporaneo con i suoi non casuali riferimenti all’attualità, il romanzo di Polly Clark offre tantissimi spunti di riflessione e la consapevolezza di non riuscire a trovarli tutti, confortandoci sul futuro della letteratura.

A cura di Igiaba Scego, FUTURE. IL DOMANI NARRATO DALLE VOCI DI OGGI, Effequ, 2019
“Il nostro rapporto con il passato non lo vogliamo più arido e passivo, ma fecondo e conscio. Ci stiamo appropriando del diritto e del dovere di reinvenzione, della nostra voce per cambiare la narrazione. Perché sempre più menti e sensibilità possano capire che l’identità collettiva è aleatoria, complessa e sempre soggetta a nuove rielaborazioni. Mettendo constantemento in dubbio il fatto che essere cittadino di un paese voglia dire corrispondere a un prototipo identitario in cui costringere tutti a immergersi, negando parti fondanti di se stessi”: le parole di Laeticia Ouedraogo, contenute nell’antologia FUTURE appena pubblicata da Effequ sono perfette per cominciare il nuovo anno e guardare appunto al futuro. Da un’idea dell’editore fiorentino e della curatrice Igiaba Scego nasce questo caleidoscopio di voci femminili tutte afroitaliane. E già qui come spesso accade con le parole sarebbe bello che non dovessimo anteporre quell’”afro” perché le scrittrici protagoniste di FUTURE sono semplicemente italiane. Ma non sono riconosciute come tali per il colore della pelle e le origini delle loro famiglie, in un meccanismo perverso di non riconoscimento che tutte raccontano nelle loro storie. Ma al di là del prezioso punto di vista che ci offrono sulla realtà in cui viviamo senza magari accorgercene o preferendo ignorarla, vale la pena leggere FUTURE per scoprire o riscoprire delle brave scrittrici: Leila El Houssi; Lucia Ghebreghiorges; Alesa Herero; Esperance H. Ripanti; Djarah Kan; Ndack Mbaye; Marie Moïse; Leaticia Ouedraogo; Angelica Pesarini; Addes Tesfamariam; Wii. Autrici che appartengono a generazioni diverse, con passati e storie diverse ma accomunate da un sicuro talento letterario. Che qui usano per denunciare il senso di estranietà che provano verso il paese in cui sono cresciute e insieme la distanza dai loro genitori. Così si trovano ad abitare uno strano limbo o meglio ci sono state messe perché loro sanno benissimo a che paese appartengono e si chiama Italia, come dice Igiaba Scego: “Migranti e figli di migranti sono ponti naturali tra paesi e continenti. Ecco perché sarebbe sensato avere una società dove gli sguardi si incrociano, dove le narrazioni non sono a senso unico”. Così le storie, le parole, possono diventare armi per creare un futuro migliore, dove il riconoscimento e il dialogo sostituiscono il pregiudizio e il razzismo.

Pierre Jourde, PAESE PERDUTO, Prehistorica, 2019 (traduzione di Claudio Galderisi)
“La zia fa quel che deve fare, fa la sua parte. Nel fare la chiamata dei morti, lei li sostiene ancora un po’ alla superficie della memoria ma anche, e forse lei confusamente lo sa, li riunisce un’ultima volta per inviarli tranquillamente verso l’oblio. Si vorrebbero entrambe le cose, la memoria attenta, rispettosa di tutte le storie, e la familiartà disinvolta dell’oblio, nel quale le vite sono rese a loro stesse, al di fuori di ogni attenzione, di ogni iscrizione nel libro dell’autentico”. PAESE PERDUTO è la prima opera di Pierre Jourde, scrittore, intellettuale, critico letterario francese, tradotta in italiano. E dobbiamo ringraziare l’editore Prehistorica per questo romanzo dove la scrittura fa da cerniera tra il passato e il presente. Viaggiamo infatti nel tempo seguendo i due fratelli protagonisti del racconto che dalla città tornano al piccolo e sperduto paese natale del padre, dove da bambini trascorrevano le vacanze. Qui devono sistemare la casa di un cugino da poco mancato di cui sono gli unici eredi e che si vocifera nascondesse un tesoro. Appena arrivati però un grave lutto colpisce e rende ancora più triste il paese: Lucie, neanche vent’anni, muore a causa della leucemia. Il suo funerale è il fulcro narrativo della storia: la chiesa, il cimitero, la neve, il paesaggio, la casa dei genitori, il cibo, il vino, le parole e i silenzi, gli abiti a lutto fanno parte di un rito senza tempo che da una parte mette in scena i legami di un’intera comunità dall’altra sottolinea la sofferenza della perdita. È perduta la vita di Lucie e con lei anche l’ipotesi di futuro che rappresentava. Ma è anche il funerale di un mondo contadino che non esiste più. Pierre Jourde sembra dipingere con la sua scrittura così intensa e dolorosamente elegante il senso e insieme la fugacità della nostra vita e fa riflettere ognuno di noi sul proprio “paese perduto”, che abbiamo dovuto lasciare per diventare grandi: “Abbiamo bisogno di credere che i genitori non hanno storie. Servono a fondare la nostra. Farli entrare nella storia, è trarli dall’assoluto in cui abbiamo bisogno che restino. Ci vorrebbe che la loro vita, prima di diventare, pensiamo, ciò per il quale esistono: noi stessi, sia costituita unicamente di episodi leggendari...“.

Fouad Laroui, LE TRIBOLAZIONI DELL’ULTIMO SIJILMASSI, Del Vecchio, 2019 (traduzione di Cristina Vezzaro)
“Ora, quello che non capisco, è questo: lei vuole 'rallentare', come dice, in quanto uomo, Homo sapiens, perché il mondo moderno va troppo in fretta; o in quanto marocchino 'postcoloniale' (è così che si dice, non è vero?)... in quanto marocchino postcoloniale che respinge l’Occidente e la velocità?... che vuole ritrovare il ritmo dei suoi antenati? Sono due cose distinte”. Cosa succede quando vivi tra due culture e non capisci più a quale appartieni? Ma ha poi senso appartenere a una sola cultura? Comincia a chiederselo l’ingegner Adam Sijilmassi sul volo che lo riporta dall’Asia al Marocco, il suo paese. Una volta arrivato decide di percorrere a piedi i km che separano l’aeroporto da Casablanca suscitando lo stupore e la diffidenza degli altri. Ma non è niente di fronte alla decisione di lasciare il suo lavoro ben retribuito in una multinazionale per tornare al villaggio natio. Qui tenta di ripensare la sua vita ma è impossibile nascondersi dal mondo e soprattutto non suscitare pettegolezzi e ipotesi fantasiose. Anche quando si vuole semplicemente stare isolati a leggere. Laroui scrive un romanzo intenso, ironico, spietato sul mondo che viviamo e le sue enormi contraddizioni. Partendo anche da quello che leggiamo e dalle varie culture che, più o meno consapevolmente, ci hanno permeato. Merito alle edizioni Del Vecchio per la cura del libro e anche per la scatola nera del traduttore dove Cristina Vezzaro ci regala assieme alle sue utili note un racconto che illumina il suo prezioso lavoro.

Stephanie Hochet, IL TESTAMENTO DELL’URO, Voland, 2019 (traduzione di Roberto Lana)
“I giovani autori e gli scrittori più maturi, ma di fama ancora modesta, condividono la sorte di essere invitati a incontri estivi di cui nessuno ha sentito parlare, eccezion fatta per i campeggiatori che si iscrivono a 'Letteratura in infradito', parentesi culturale talvolta percepita come uno svago tra i tanti, un passatempo senz’altro meno faticoso dello sci nautico o delle partite a ping-pong. Eppure nulla si avvicina di più alla realtà del mestiere di scrittore che questi luoghi in cui si deve prendere la parola in pubblico, presentare i propri libri davanti a persone di ogni età che non hanno mai sentito pronunciare il tuo nome. E che leggono un solo libro all’anno, quando va bene”. Un libro che tutti gli scrittori che fanno incontri pubblici dovrebbero leggere. Con un'ironia sottile e disarmante la scrittrice francese mette a nudo il narcisismo insito in chi scrive ma anche le idee folli che possono maturare all’interno di un comune con un sindaco privo di qualsiasi scrupolo ma per questo seguito come una sorta di idolo. Assistiamo così prima all’incontro della protagonista del romanzo con i suoi lettori o ipotetici lettori e poi la ritroviamo prigioniera in una casa isolata da dove non riesce a fuggire. E qui entra in scena l’uro del titolo e un piano quanto mai folle e fantasioso per riportarlo in vita. Perché “l’avvenire sarà preistorico”...

Pierre Pachet, AUTOBIOGRAFIA DI MIO PADRE, L’orma, 2019 (traduzione di Marco Lapenna)
“La voce di mio padre morto chiedeva di parlare per bocca mia, come non aveva mai parlato, al di là delle nostre due forze messe insieme. Mi negava, mi domandava aiuto per consacrarsi a se stessa, ed era quanto volevo anch’io (ecco perché in queste pagine compaio così di rado)”: Pierre Piaget decide in AUTOBIOGRAFIA DI MIO PADRE di far uscire quella voce ma soprattutto raccontare chi era suo padre. Nella bella e curata traduzione italiana che dobbiamo all’editore L’orma possiamo anche noi leggere questo libro che in realtà ne contiene molti altri e che ci permette di scoprire anche la voce del grande intellettuale francese che non era mai stato tradotto in italiano. Anche se, come lui stesso sottolinea, compare molto di rado non possiamo non trovare nelle pagine dedicate al padre il talento narrativo e speculativo di Pierre Pachet. Scomparso nel 2016 è stato scrittore, professore universitario, critico letterario, traduttore e giornalista. Nei suoi numerosi saggi ha spaziato dalla politica in Baudelaire alla Cina contemporanea passando per una storia letteraria del sonno. Nei romanzi si è confrontato a più riprese con le tematiche dell’autobiografia e dell’identità ebraica. AUTOBIOGRAFIA DI MIO PADRE raccoglie un po’ tutto questo perché la vita di Simkha Opatchevsky può essere letta come uno spaccato di storia europea, dai fasti di Odessa alla dissoluzione dell’Impero sovietico, dalla Parigi occupata dai nazisti alla provincia dove sopravvivere. Il padre di Pachet riesce a continuare la professione medica ma non si riprende mai dall’esilio forzato e dalla mancanza di radici sicure. Così sembra estraniarsi o nello stesso tempo concentrarsi su piccoli dettagli, ignorare il figlio ma in realtà desiderare per lui un destino diverso, maledire la memoria del passato e insieme rimpiangere i ricordi che scompaiono sempre più dalla mente. Al lettore sembra di ascoltare una lunga confessione, il bilancio sentito e mai defintivo di una vita, divisa tra lavoro, famiglia, lunghe passeggiate e letture. Ma nello stesso tempo l’esistenza di Simkha attraverso le parole del figlio può essere la vita di ciascuno di noi e così lo scrittore francese scrive anche una parte della nostra autobiografia.

Ivana Bodrozic, HOTEL TITO, Sellerio, 2019 (traduzione di Estera Miocic)
Un romanzo che parte un po’ in sordina e sembra quasi la cronaca di una famiglia che da un momento all’altro passa da una situazione di vacanza a un doloroso esilio. Poi invece la voce dell’io narrante si fa sempre più forte e il romanzo d’esordio di Ivana Bodrozic mostra tutto il suo valore letterario e non solo di testimonianza. La bambina che ci racconta la sua storia parte per il mare per la prima volta da sola insieme al fratello sedicenne. Ma quella che si annuncia come una vacanza diventerà un esilio forzato a causa dello scoppio della devastante guerra dei Balcani. I ragazzi non possono tornare a Vukovar, la madre riesce a raggiungerli a Kumrovec, dove alloggiano all’Hotel Tito ma il padre non vuole lasciare il suo paese. Da lì seguiamo tutta la vita della nostra protagonista dai 9 anni sino a quando diventa adolescente, senza poter tornare nella sua città natale. Con uno stile preciso, intenso ma mai banale, con una ricchezza di registri che coprono tutti i sentimenti dal comico e lieve al più drammatico, la scrittrice croata ci mette di fronte alla quotidianità di chi è costretto a stare lontano dal proprio paese.

Anna Burns, MILKMAN, Keller, 2019 (traduzione di Elvira Grassi)
“E’ come lo fai ad essere strano – tu leggi libri, libri interi, prendi appunti, controlli le note a piè pagina e sottolinei frasi e parole come se fossi seduta alla scrivania o altrove, nel tuo studietto o altrove, con le tende tirate, la lampada accesa, una tazza di tè accanto, a scrivere pagine su pagine, i tuoi discorsi, le tue elucubrazioni. È inquetante. Fuorviante. È da illusione ottica. Zero spirito civico. Zero istinto di sopravvivenza. Attira l’attenzione, e perché mai qui – con i nemici alla porta, con la comunità sotto assedio, con tutti noi che dobbiamo unire le forze -, perché mai uno dovrebbe richiamare l’attenzione su di sé?” “aspetta un attimo” ho detto. “Stai dicendo che se lui va in giro col Semtex va bene ma se io leggo Jane Eyre in pubblico non va bene?” “Non ho detto che non devi farlo in pubblico. Non devi farlo mentre cammini”: i due protagonisti di MILKMAN, il romanzo di Anna Burns premiato dal Man Booker prize sono come quasi tutti i personaggi del libro senza nome. Incontriamo così la diciottenne “sorella di mezzo” e il quarantunenne Milkman che entra di prepotenza nella sua vita sconvolgendone i precari equilibri. Sorella di mezzo ama leggere e lo fa spesso mentre cammina, si allontana dalla realtà o meglio cerca di comprendere la realtà attraverso gli scrittori dell’Ottocento. Siamo in un sobborgo di Belfast negli Anni Settanta e quello che la scrittrice irlandese racconta è una società ossessionata dal controllo, segnata dalla perdita della speranza e dall’assenza di fiducia. Dove la verità non vince contro l’opinione comune e le persone luminose, come le chiama sorella di mezzo, sono guardate con sospetto perché il male ha preso il sopravvento e ha cancellato il bene. Così la “malattia dell’inaccettiblità” trova consono girare con l’esplosivo al plastico ma non leggere mentre si cammina. È un libro stilisticamente e politicamente coraggioso MILKMAN. Raccontando uno spaccato della storia irlandese ci mette in realtà di fronte ai temi universali della giustizia, della convivenza, del ruolo delle donne, del futuro che lasciamo ai nostri figli. Sorella di mezzo è una moderna Cassandra e un personaggio davvero indimenticabile.

Graeme Macrae Burnet, LA SCOMPARSA DI ADÈLE BEDEAU, Neri Pozza, 2019 (traduzione di Simona Fefè)
La copertina di Edward Hopper evoca da subito l’atmosfera in cui viene calato il lettore appena apre le pagine de LA SCOMPARSA DI ADÈLE BEDEAU di Graeme Macrae Burnet appena pubblicato da Neri Pozza. Gran parte della vicenda infatti si svolge all’interno del Restaurant de la Cloche, nell’anonima cittadina di Saint-Louis, al confine tra la Francia e la Svizzera. Qui la maggior parte dei clienti è talmente abituale da fare quasi parte dell’arredamento. Molti avventori infatti occupano sempre lo stesso tavolo e mangiano sempre le stesse pietanze. Come Manfred Baumann, direttore della banca locale, soprannominato suo malgrado “Lo svizzero”, una vita scandita da orari e gesti sempre uguali, che consuma tutti i suoi pasti al Restaurant a conduzione familiare. Con il proprietario Pasteur che serve da bere e ben poche parole e la moglie Marie che gestisce la cucina, con un menù settimanale rigorosamente fisso da anni. L’unica nota di imprevedibilità la porta Adele, la cameriera, sempre diversa nelle sue reazioni verso i clienti. Giovane, prosperosa, alterna sguardi imbronciati a sorrisi solari e confonde così la tranquillità di Manfred che vorrebbe in qualche modo piacerle. E così decide di spiarla dopo il lavoro per cercare di capire che tipo di vita conduce al di fuori del Restaurant. Dopo questo primo sbandamento dalle sue rigide abitudini, la rigida quotidianità di Manfred verrà però completamente sconvolta dalla sparizione di Adele e dai sospetti che cominciamo inesorabilmente a cadere su di lui. Assistiamo a un duello a distanza tra Baumann e l’ispettore Gorski, uomo disilluso che non riesce a separarsi dalla sensazione del fallimento della sua prima indagine, l’omicidio di una giovane ragazza in un bosco per il quale è stato condannato un senzatetto che lui sa essere innocente. Si incontrano e si scontrano quindi due solitudini, due uomini ugualmente infelici, che si sono arresi di fronte alle sfide della vita. Il romanzo dello scrittore scozzese è stato paragonato a ragione alla scrittura e alle atmosfere del grande Simenon. Perché riesce davvero a farci abitare il mondo dei suoi personaggi, entrare nelle loro menti e vivere le loro paure. LA SCOMPARSA DI ADÈLE BEDEAU è un thriller psicologico intrigante e mai banale, che si può leggere come il racconto della provincia e delle sue inquietanti e insieme rassicuranti ritualità.

Marcello Fois, PIETRO E PAOLO, Einaudi, 2019
“Pietro Carta s’incamminò di primo mattino, quando la luna e il sole confabulano per darsi il cambio, e affrontò il tratturo pietroso in salita che rappresentava la via più corta per arrivare a Nuoro da Lollove. Una specie di ansia leggera lo faceva accellerare. L’ascesa si faceva irta nel primo tratto, poi si addolciva. Il movimento aveva preso ad adattarsi al respiro, come quando, dopo averlo a lungo cercato, finalmente si trova il ritmo interiore. E allora camminare non pesa più, anzi pare una benedizione. Il terreno, via via che avanzava, cambiava forma e sostanza, perché quello che stava compiendo era un viaggio vero e proprio”: e si incammina anche il lettore seguendo le vicende ma soprattutto le parole del nuovo romanzo di Marcello Fois, PIETRO E PAOLO, che ha da subito l’andamento di un classico contemporaneo. Grazie a una scrittura insieme fisica ed estremamente evocativa, a un uso della lingua efficace e raffinato e a un equilibrio perfetto nella costruzione temporale del romanzo. Che prende il via ai primi del Novecento a Lollove, piccolo paesino della Sardegna. Qui crescono insieme Pietro figlio dei servi e Paolo figlio dei padroni sino alla chiamata alle armi di Paolo nelle trincee sul Carso. Il profondo legame di amicizia porta il forte e coraggioso Pietro ad arruolarsi per rimanere al fianco del debole e studioso Paolo. Ma la guerra romperà gli equilibri sociali che governavano la loro vita al paese. E una volta tornati in Sardegna si preparano a un drammatico confronto. PIETRO E PAOLO conferma il talento dello scrittore sardo che riesce come pochi a raccontare nella loro umana complessità i suoi personaggi e insieme a regalarci uno spaccato di storia del nostro paese. Con un romanzo dove la capacità di scrittura non diventa mai esercizio di stile ma è sempre al servizio della storia e del pensiero. Lasciando al lettore il giusto spazio interpretativo, creando con poche precise parole mondi narrativi in cui ognuno può ritrovare il senso dell’amicizia, il valore della famigla, la denuncia dell’ingustizia sociale, il racconto della guerra, lo stacco tra l’infanzia e l’età adulta, i legami indissolubili con chi ci ha conosciuti bambini.

Valeria Luiselli, ARCHIVIO DEI BAMBINI PERDUTI, La nuova frontiera, 2019 (traduzione di Tommaso Pincio)
È un libro di parole ARCHIVIO DEI BAMBINI PERDUTI di Valeria Luiselli, il nuovo romanzo della scrittrice messicana che vive a New York, pubblicato da La nuova frontiera. Che un romanzo sia fatto di parole potrebbe sembrare scontato ma, in realtà, la sensazione che si prova già dalle prime pagine è che qui le parole abbiano trovato la loro essenza e densità, uno spartito armonico dove risuonare, una casella perfetta in cui collocarsi per creare alla fine una composizione unica e irripetibile. Senza considerare che Luiselli ha scritto il romanzo in quella che è la sua lingua di adozione letteraria e cioè l’inglese Usa come specificato dal traduttore Tommaso Pincio. Tutto quello che accade nel romanzo, che è il viaggio di una famiglia di quattro persone, moglie, marito e due bambini, da New York all’Arizona in una torrida estate, risponde a un disegno preciso e articolato, e nello stesso tempo si respira il vento della libertà. L’immagine dell’archivio del titolo è anche al centro della storia perché i due genitori viaggiano per documentare e una scatola d’archivio apre ogni capitolo con le sue immagini, i libri, le note, i documenti. Entriamo così nel laboratorio lavorativo dei protagonisti ma nello stesso tempo anche nel loro laboratorio familiare. Tutto il romanzo sembra quasi una danza - sempre ben coordinata - tra il dentro e il fuori: dentro l’auto c’è la famiglia, il noi. Fuori il resto del mondo, il loro. Il paesaggio scorre, passano luoghi, motel, cartelli, animali ma anche i sentimenti nella famiglia mutano, i bambini crescono, il rapporto tra i genitori cambia. ARCHIVIO DEI BAMBINI PERDUTI lo possiamo così leggere come la dicotomia che viviamo tutti noi, divisi tra le incombenze quotidiane da una parte e i grandi problemi del mondo dall’altra. Che non possiamo certo ignorare ma che spesso non sappiamo mettere a fuoco e collocare nella nostra bolla esistenziale e li osserviamo come dal finestrino di un’auto. Valeria Luiselli riesce anche a dare corpo con grande profondità ai due bambini della storia togliendo paradossalmente loro i nomi: sono il maschio e la femmina, ma raramente l’infanzia è stata rappresentata letterariamente con più veridicità e densità. Il romanzo stesso è un archivio di storie, passato, rimandi letterari, musicali e artistici, sentimenti, considerazioni, punti di vista, suoni e colori. Perché alla fine l’archivio è un viaggio e noi ci costruiamo vivendo la scatola d’archivio della nostra esistenza dove trovano posto anche i grandi libri che leggiamo. Come questo.

Charlotte Gingras, OPHELIA, Edt Giralangolo, 2019 (traduzione di Camilla Diez)
Ecco un libro che tutti gli autori per ragazzi, ma anche chi come me incontra molte scolaresche o giovani lettori per parlare di libri, dovrebbe leggere. Per rendersi ancora una volta conto della responsabilità di un adulto verso un adolescente ma anche di quello che si riesce a fare anche solo ascoltando e osservando grazie al tramite delle storie. La protagonista del bel romanzo di Charlotte Gringas infatti conosce a un incontro in biblioteca una scrittrice venuta a parlare di scrittura e lettura. Alla fine la donna le regala uno spesso quaderno blu notte e così Ophelia comincia a scrivere della sua famiglia, del luogo segreto che ha scoperto per poterci dipingere grandi figure sui muri spogli, del ragazzo grasso e goffo che invade un giorno il suo spazio e di quando capisce che si può guardare oltre le apparenze. Un libro splendido, intenso e poetico, pieno di sfumature come i colori che usa Ophelia.

Gianni Farinetti, LA BELLA SCONOSCIUTA, Marsilio, 2019
Elegante, spiritoso, leggero ma mai superficiale, con la capacità di rendere i luoghi come una fotografia con in più gli odori e i sapori. E allora cosa aspettate ad andare anche voi alle Vignole nell'Alta Langa piemontese grazie al nuovo romanzo di Gianni Farinetti, LA BELLA SCONOSCIUTA? Ultimo di una trilogia con protagonista lo sceneggiatore Sebastiano Guarienti, che ha deciso di lasciare definitivamente Roma per la tranqullità della campagna dove almeno trovi da parcheggiare, la storia vede al centro Angela la bella sconosciuta del titolo che irrompe nel delirante tran tran della piccola comunità del paese. Già dopo poche pagine sembra di essere a casa e così entriamo in una lussuosa dimora con un ospite comicamente snob e poi in un agriturismo arricchito da un’ottima cuoca e infine nella pace della tenuta delle Vignole. Al di là del mistero e della relativa indagine il romanzo è di per sé intrigante, pieno di particolare legati agli oggetti, agli elementi naturali e alla varia umanità che lo abitano. C’è anche un accenno alla Camera degli Sposi di Mantegna che forse Farinetti andrà a riverdersi in occasione del Festivaletteratura.

Bernhard Schlink, BUGIE D’ESTATE, Neri Pozza, 2019 (traduzione di Susanne Kolb)
Più che bugie le magistrali storie di Bernhard Schlink parlano di non scelte, di rinunce di fronte a un piccolo rischio che premierebbe però con la felicità. L’acclamato e famoso autore di A VOCE ALTA o IL LETTORE, abbandona la storia del suo Paese, la Germania, e la riflessione dolorosa e profondo sugli anni del nazismo per raccontarci in BUGIE D’ESTATE sette storie contemporanee che vedono spesso al centro personaggi maschili. Così nel primo racconto Richard sembra trovare durante una vacanza la sua anima gemella, ma basta che veda l’aereo di Susan decollare poche ore prima del suo per desiderare di tornare alla sua vita monotona e solitaria. C’è poi il marito sospettato di tradimento che per la pace coniugale mente confermando l’amplesso mai avvenuto e poi invece tradisce veramente in seguito senza ombra di sospetti. E ancora lo scrittore fallito che invidia il successo della moglie e pian piano la isola dal mondo letterario e non solo chiudendola in una casa nel bosco. O l’anziano professore malato che decide come togliersi la vita, senza però aver fatto i conti con la sua famiglia. Il figlio che spera di comprendere finalmente il padre condividendo con lui la passione per la musica di Bach. E nell’ultimo racconto, "Il viaggio verso sud", una protagonista femminile ormai anziana perde la capacità di sentire i sapori e gli odori ma anche l’amore verso i suoi familiari. Dovrà sempre fingere di sentire e sarà costretta da una invadente nipote a fare i conti con le scelte del passato che hanno segnato la sua vita. Con questi racconti lo scrittore tedesco conferma il suo talento letterario e la capacità di raccontare a fondo, anche nelle sue manifestazioni più prevedibili, l’animo umano.

Lauren Wolk, AL DI LÀ DEL MARE, Salani, 2019 (traduzione di Alessandro Peroni)
Raramente gli autori per ragazzi deludono e Lauren Wolk non fa eccezione. Dopo il bellissimo L’ANNO IN CUI IMPARAI A RACCONTARE STORIE, con AL DI LÀ DEL MARE ci regala una storia solida ed intrigante, intensa e mai banale. Conosciamo da subito Crow, dodici anni, che vive nelle Isole Elizabeth, al largo della costa del Massachussets, con Osh, il pittore che l’ha trovata appena nata in una barchetta alla deriva. E il suo nome lo deve al pianto acuto e inconsolabile che ha permetto di individuarla e salvarla da morte certa. Ora però la ragazzina si chiede da dove viene, chi sono i genitori che l’hanno abbandonata e tutte le tracce portano all’isolotto di Penikese, poco distante, che ospitava una colonia di lebbrosi. Attraverso un romanzo di avventura di impostazione classica la scrittrice americana riesce a sottolineare il valore dei legami che vanno al di là di quelli di sangue e ci mostra come si possa essere padri e madri senza l’avvallo della biologia. Pieno di scoperte e misteri, AL DI LA’ DEL MARE è un romanzo che incanta e porta per mano il lettore alla scoperta delle origini di Crow ma anche del suo futuro.

Laura Forti, L’ACROBATA, Giuntina, 2019
Laura Forti è un’attrice e regista tra la più stimate e conosciute nel teatro italiano e i suoi testi hanno una rara forza narrativa che riesce a trasmettere anche alla pagina scritta. L’ACROBATA infatti è un piccolo gioiello che riesce a vivere di vita propria rispetto al monologo teatrale da cui è tratto, per essere appieno un testo letterario di grande potenza stilistica ed emotiva. Anche l’uso della narrazione attraverso le mail che una nonna manda al nipote raccontando Pepo, morto precocemente e rispettivamente figlio e padre dei due corrispondenti, non spezza la storia e anzi dà invece un ritmo adeguato al racconto. Laura, affermata geologa rifugiata in Svezia, scrive via email al nipote – l’acrobata del titolo – per raccontargli chi era il padre, morto per la libertà del Cile quando lui era ancora un bambino. Così il racconto diventa prima la storia di una o meglio più diaspore di una famiglia ebrea russa che trova rifugio in Italia, che deve però lasciare nel 1938 alla promulgazione delle leggi razziali per cercare una nuova vita in Cile. Dove nasce Pepo che, anche se è solo un ragazzo, sente di appartenere al suo Paese e rifiuta l’esilio in Svezia dopo il colpo di stato di Pinochet e l’uccisione di Allende. L’ACROBATA racchiude in poche pagine intere vite e riflessioni intense e quasi vitali sul senso della famiglia, sui valori in cui crediamo e che però possono procurarci lutti e dolore. Ma che dànno anche senso e valore alla nostra vita. Così l’acrobata del titolo può essere anche metafora dell’esistenza, delle scelte che dobbiamo fare e subire e di come tenere fede a noi stessi possa costarci la vita.

Andrea Vitali, DOCUMENTI, PREGO, Einaudi, 2019
Un Andrea Vitali, che può apparire inedito ma in realtà coerente con la sottile ironia e l’intelligenza che lo contraddistinguono, si cimenta con un racconto orwelliano che mette in scena la lotta dell’uomo contro la burocrazia. DOCUMENTI, PREGO è infatti un racconto preciso e inquietante che percorre il confine tra sogno e realtà. Il protagonista ha un lavoro di successo, una bella casa, una moglie e un figlio che ama, ricambiato. Tutto normale, senonché durante una sosta in autogrill con due colleghi gli vengono chiesti i documenti e scopre di avere la carta d’identità scaduta da sei mesi. Il funzionario lo invita a seguirlo e lo porta in uno strano caseggiato, solo per un controllo. Qui si apre una sorta di mondo parallelo dove gli viene chiesto comunque di confessare come ha violato la legge e dove si muovono figure che obbediscono solo al ruolo per cui sono state istruite. Ma è tutto vero o forse un brutto sogno? Il grigio della copertina con un’immagine dal sapore vintage, è esattamente lo sfondo della storia, gli uffici spogli del caseggiato misterioso, gli abiti dei funzionari, ma anche il grigiore di una vita dominata da un contratto da chiudere per poi bere sino a stordirsi. Gli unici colori compaiono quando il nostro uomo parla della moglie e del figlio. Ma riuscirà a tornare da loro? Andrea Vitali sembra mandarci un invito a ribellarci, un monito a guardare davvero quello che ci circonda e a non perdere di vista quello per cui vale davvero la pena vivere.

FUOCO FUOCHINO 6, a cura di Afro Somenzari e Lorenza Amadasi, fuocofuochino, 2019
Annuncia proprio l’estate il sesto volume di FUOCO FUOCHINO, raccolta delle pubblicazioni della più povera casa editrice del mondo. Grazie alla copertina solare di Alberto Casiraghy, artista nonché ideatore di Pulcinoelefante, che illustra tutto il volume e poi perché, come sempre, i contributi sono tra i più vari, adatti a tutti i lettori e anche alle giornate di vacanza. E non manca neppure un accenno al... Natale. Distribuito dalle edizioni Corraini e curato dagli editori nonché autori Afro Somenzari e Lorenza Amadasi, FUOCO FUOCHINO 6 nasce come le miscellanee precedenti dall’insieme dei libri pubblicati singolarmente di volta in volta in undici copie per gli amici e 9 per il pubblico. Come recita la nota di nascita dell’editore datata novembre 2009 non ci sono collane ma solo un poverissimo catalogo. E ora queste raccolte come sempre molto attese per scoprire cosa gli editori hanno deciso di pubblicare valorizzando come nello spirito di Fuoco Fuochino contributi spesso ironici e fuori dalle righe. Come il già citato poema sul Natale di Stefano Tonietto, intitolato “La parola non trovata. Un Gozzano moderno”, dove assistiamo tra presepi e pandori alla distruzione del vero spirito natalizio tanto che lo sguardo è sempre più basso e non arriva mai alle... stelle. Ma è davvero difficile riassumere in poche righe la ricchezza e il valore dei pezzi che compongono questa singolare antologia: dalle poesie di Rosanna Flidi tra cui l’evocativa “Estate” (Estate / stagione di pienezza e sazietà / o di mancanza e stasi / che gli estremi talora collimano tra loro / e come fotocopie si compongono) al tossico “Risotto” di Steve Manfroi. E ancora il racconto di Giuseppe Festa su Ettore che tesse tutti i sogni dei bambini o lo studio sullo stato della patafisica affidato a Enrico Baj. O un’ordinaria giornata di provincia dipinta da Donato Novellini in “Letto per lo scritto: blue”. Troviamo anche le poesie scioglidita, scritte per provare la nuova macchina da scrivere, di Bianca Pitzorno, dove le parole sembrano rincorrersi in una divertente staffetta di pensieri e considerazioni tra favola e realtà. Ogni contributo è introdotto da un intervento d’autore in un gioco di reciproco richiamo, e l’introduzione è stata affidata a Martina Corgnati, storica dell’arte e curatrice di mostre. Si respira passione e intelligenza e, anche se molto diversi tra loro, tra poesia, racconti, saggi letterari i contributi dialogano tra loro tanto che sembra di vedere un gruppo di amici che si alternano a narrare e discutere in una grande casa.

Francesca Capossele, NEL CASO NON MI RICONOSCESSI, Playground, 2019
Torna a indagare letterariamente il rapporto genitori figli Francesca Capossele che dopo il fortunato esordio con 1972 ambientanto nella Bologna degli anni ’70 questa volta con NEL CASO NON MI RICONOSCESSI, sempre pubblicato da Playground, volge lo sguardo al passato per raccontare la storia di Alda. Figura complessa che troviamo all’inizio del romanzo mentre fugge da casa a una settimana dalle nozze: “Alda trascinava la valigia pesante. La grande strada di fronte a lei era silenziosa e quasi priva di luce, non era difficile ricordarla con il coprifuoco, o piena di gente durante le parate fasciste, o semplicemente nel finto bagliore grigio di qualche primavera fredda degli anni Venti, con i bar pieni di reduci della Prima Guerra Mondiale. Suo padre era uno di quelli. Il tricolore a mezz’asta, con il suo fiocco nero sulla stele in ricordo dei caduti. I bambini delle elementari perennemente in giro con le bandierine cucite dalle bidelle. Le signore con i cappelli a cloche e il volto chiaro, disegnato dalle ciocche corte di capelli appena tagliati. Sua madre era una di quelle. Un mondo di polvere, si sorprese a pensare. Con disprezzo. Con nostalgia”. Questi due sentimenti, disprezzo e nostalgia segneranno la vita della donna, che nel 1953 mentre l’Italia si sta faticosamente ricostruendo, fugge da Ferrara per raggiungere nella Germania Orientale Stephan, il soldato tedesco che aveva conosciuto durante la guerra. Francesca Capossele ci racconta Alda bambina, la vita piccolo borghese, i genitori colti e di ampie vedute, la sua convinta adesione al fascismo, l’amore per la lingua tedesca, la convinzione di dover dare un ordine al mondo come i numeri che studia, che la porta a vivere nella mancanza di libertà e nelle privazioni. Perché a Lipsia sarà sempre l’italiana, guardata con sospetto e con ammirazione, ma mai accettata veramente. La scrittrice ferrarere attraverso la vita di una donna controversa e piena di lati oscuri racconta lo scontro generazionale che ha segnato il dopoguerra e i nodi irrisolti della storia recente del nostro paese che influenzano ancora il presente che viviamo. Con uno stile diretto, preciso, raffinato ed evocativo.

Jesmyn Ward, CANTA, SPIRITO, CANTA, NN Editore, 2019 (traduzione di Monica Pareschi)
“Questo è um mondo che si prende gioco dei vivi, mi aveva detto Mama quando mi erano venute le mie cose, a dodici anni, e quando sono morti li fa santi. E li tormenta dal principio alla fine. E anche se erano parole dure, quando le aveva pronunciate le avevo visto la speranza sul volto”. Quello che prova Loenie voce narrante insieme al figlio Jojo e a Richtie di CANTA, SPIRITO, CANTA di Jesmyn Ward è lo stesso che provano i lettori leggendo il romanzo con cui la giovane scrittrice americana si è aggiudicata per la seconda volta Il National Book Award. Come già nel precedente SALVARE LE OSSA, Jesmyn Ward mostra il suo straordinario talento nel raccontare le esistenze più drammatiche con un lirismo che sembra la loro unica salvezza. Ma ancora prima di aprire il libro la storia ci parla attraverso un titolo che già contiene – e scusate il gioco di parole – lo spirito del romanzo. Che trasmette davvero la sensazione di ascoltare una canzone o comunque regala al canto una lunga serie di poteri, da quello di tramandare le storie sino alla capacità di lenire il dolore. La spiritualità poi permea tutto il racconto come la vita dei protagonisti ed è reale quanto quello che accade veramente o forse anche di più perché l’elemento soprannaturale è carico del dolore del passato e insieme della speranza del futuro. Jesmyn Ward riesce a unire il regno dei vivi e quello dei morti, anzi ci mostra come siano in realtà lo stesso luogo e che le nostre esistenze non possono prescindere da quelle di coloro che ci hanno preceduto. Con questa intima consapevolezza seguiamo le vicende della famiglia di nonno Pop, uomo forte e saggio come gli alberi vicino a cui vive e che si prende cura come di un figlio del nipote tredicenne Jojo. Ma la scrittrice americana, attraverso una singola famiglia con personaggi indimenticabili, mette in scena in realtà uno spaccato profondo e spietato del suo paese e di chi sarà sempre prima di tutto giudicato per il colore della pelle: “e allora come può Big Joseph vedere Pop, Pop che è come una pietra, Pop che ha inglobato tutta la durezza di questo mondo e quella durezza l’ha calcificato un centimetro dopo l’altro, fino a trasformarlo in un albero pietrificato, come può Big Joseph vedere Pop senza vedere altro che un uomo?”.

Doris Femminis, FUORI PER SEMPRE, Marcos y Marcos, 2019
“Questo posto è il mio posto e canta, questa terra è la mia terra e parla. Con chi corre e striscia e vola, in questa foresta respiro”: si respira la montagna e soprattutto la natura nel romanzo di Doris Femminis FUORI PER SEMPRE appena pubblicato da Marcos y Marcos. In realtà ci sono due modulazioni di respiro e due luoghi contrapposti: da una parte le montagne dove la protagonista, Giulia, al primo anno di università, è nata; dall’altra le pareti bianche dell’ospedale psichiatrico dove è ricoverata in seguito a un tentativo di suicidio. Rimanere e fuggire sono i verbi con i quali si declina la vita di Giulia. Che decide di proseguire gli studi al contrario dei fratelli maggiori e di lasciare quindi la valle. Anche per allontanarsi da una madre depressa e poco affettiva. Poi Giulia vuole subito scappare dall’ospedale ma non riesce a convincere la dottoressa Sortelli che non riproverà a togliersi la vita. E quando trova un po’ di pace in un rifugio sulla montagna grazie al silenzio e al contatto con la natura e alla vicinanza degli animali soffre però anche per la solitudine e il troppo tempo per pensare. Non c’è un posto per Giulia o meglio esiste solo quando diventa un luogo da cui fuggire come farà ancora una volta seguendo l’amica Alex, artista della fuga. FUORI PER SEMPRE è un romanzo intenso e pieno di contrasti a partire dal linguaggio duro e poetico insieme. Ci possiamo leggere la contrapposizione tra il lavoro fisico e quello intellettuale; tra le opportunità ma anche lo straniamento della città e i ritmi rassicuranti della vita nella natura dove assistiamo allo scorrere delle stagioni, alla prevedibilità della fioritura della primavera e della neve d’inverno. Che Femminis racconta con un lirismo ruvido e tangibile. E ancora il contrasto tra un mondo arcaico, legato a tradizioni ormai estinte e il mondo rapido e schizofrenico che conosciamo. FUORI PER SEMPRE è anche un quadro intenso sull’animo umano, sul rapporto con se stessi e con gli altri e una riflessione mai banale sull’essere madre. Anche di chi non abbiamo partorito. Un libro da leggere e rileggere.

Alessandro Sanna, COME QUESTA PIETRA. IL LIBRO DI TUTTE LE GUERRE, Rizzoli
Una galleria di quadri, una narrazione per immagini, dove la copertina anticipa gli elementi essenziali della storia: COME QUESTA PIETRA. IL LIBRO DI TUTTE LE GUERRE il nuovo lavoro di Alessandro Sanna che esce per Rizzoli in concomitanza con la riedizione di FIUME LENTO, è un libro che merita e quasi pretende tante letture. Ci troviamo di fronte infatti tanti possibili percorsi narrativi tutti affidati alle sole immagini: a partire dalle guerre come dice il sottotitolo, ma anche la storia dell’umanità, i conflitti con armi e modi diversi ma in fondo sempre uguali, la distruzione della Terra, lo sguardo di chi è non sempre innocente spettatore, la libertà, e senza essere banali il senso della vita. Si ha la sensazione di un’estrema consapevolezza di questa ricca stratificazione ma anche la volontà di Sanna di lasciare degli spazi interpretativi a chi legge. Terra e cielo, uomo e mondo sono continuamente in dialogo: COME QUESTA PIETRA è tanti viaggi, ci porta in giro nel tempo e nello spazio e ci si sente come la palla che sempre rotola e non rimane mai uguale a se stessa. C’è il viaggio metaforico dentro di noi e quello dentro la storia dell’umanità; ci sono le arti delle immagini, la pittura, il cinema, i contorni definiti dei quadri e l’imprevedibilità dell’arte della natura. Al di là delle definizioni più tecniche, narrazione per immagini, libro d’artista, graphic novel, COME QUESTA PIETRA è un libro fortemente politico, un libro per non dimenticare e mantenere lo sguardo fisso sulle ingiustizie nel mondo.

Olga Tokarczuk, I VAGABONDI, Bompiani, 2019 (traduzione di Barbara Delfino)
Libro molto difficile da recensire ma molto facile da amare, perché lo si può leggere tante volte e in tanti modi diversi. Uno di quei libri da tenersi sempre intorno per leggere qua e là. E poi per me c’è Lissa... “Ma non sono mai diventata una vera scrittrice, o meglio, uno scrittore, perché al maschile questa parola suona più seria. La vita mi è sempre sfuggita dalle mani. Ho sempre e solo trovato delle tracce, i resti della sua muta... Nella mia scrittura la vita si trasformava in storie incomplete, racconti onirici, trame non chiare, compariva da lontano in insolite prospettive dislocate o in sezioni trasversali – e sarebbe stato difficile trarre qualche conclusione”. Queste poche righe raccontano già il libro di Olga Tokarczuk, I VAGABONDI, edito da Bompiani con l’efficace ed elegante traduzione di Barbara Delfino. Perché non sarà stato facile restituirci questo insieme di storie, pensieri, considerazioni, luoghi, sogni, desideri che avviluppano il lettore grazie a uno stile preciso, immaginifico e ricco di metafore. Così che chi legge comincia a viaggiare senza staccarsi dal libro in un vagabondare tra le pagine che segue quello della scrittrice polacca, che con questo romanzo si è conquistata l’International Man Booker Prize 2018. Dà l’idea proprio di un taccuino di viaggio I VAGABONDI, dove non mancano mappe e disegni e considerazioni per chi non ama fermarsi in un luogo preciso, ma in realtà si sente, sotto l’apparente occasionalità delle storie e degli incontri, il talento letterario dell’autrice e il pensiero profondo sul senso della letteratura: “Faccio bene a raccontare delle storie? Non farei meglio a bloccare la mente con una graffetta, tirare le redini ed esprimermi non tramite racconti ma con la semplicità di una lezione in cui, frase dopo frase, si chiarisce ogni singolo pensiero e altri vengono accodati nei paragrafi successivi?... I racconti hanno una specie di inerzia propria, che non si può mai controllare sino in fondo. Richiedono gente come me, insicura, indecisa, facile da sviare. Ingenua”. Si respirano movimento e libertà leggendo dei luoghi e dei personaggi del romanzo e la stessa libertà si può prendere il lettore, frazionando la lettura così come ha fatto la scrittrice e seguendo magari prima la storia della donna e del bambino scomparsi a Lissa per tornare poi agli studi di psicologia dell’io narrante o alla serie dei racconti di Menchu. I VAGABONDI ha la potenza e la ricchezza di un classico e insieme mostra le incredibile potenzialità del romanzo contemporaneo.

Piersandro Pallavicini, NEL GIARDINO DELLE SCRITTRICI NUDE, Feltrinelli, 2019
Il titolo e la copertina già anticipano il tono ironico, divertente, dissacrante del libro che prende di mira il mondo della scrittura e della lettura: con NEL GIARDINO DELLE SCRITTRICI NUDE Piersandro Pallavicini gioca con le ambizioni letterarie e svela inciuci e retroscena del mondo editoriale in cui pochi vengono risparmiati. A partire dai lettori, che si lasciano spesso conquistare più dall’aspetto dell’autore che dal valore del suo lavoro o al contrario sono affetti da un eccessivo snobismo. Ma che non potranno non divertirsi seguendo le avventure di Sara Brivio, brava ma poco letta scrittrice sessantenne che dopo essersi barcamenata tra contratti precari, lezioni all’università della terza età e incontri nelle biblioteche eredita dal padre, scomparso da casa da anni, una rendita che le frutta due milioni al mese (di euro...). Passare dal programmare ogni minima spesa nel triste condominio dalle pareti sottili di Vigevano a una villa con giardino nel centro di Milano e a una disponibilità economica praticamente illimitata non è facile come può sembrare. Sara prima è incredula poi comincia a prenderci gusto e a ordinare prime edizioni dei suoi scrittori preferiti e prenotare tre posti in prima classe solo per andare a Vienna a mangiare una fetta di Sacher originale. Ma soprattutto insieme alle due amiche, Elena e Fanny, anche loro scrittrici di nicchia con cui divide la sua casa e il piacere di leggere senza abiti addosso, organizza il premio letterario Brivio, per premiare con cinquecentomila euro autori poco fortunati come loro e umiliare scrittori ampiamente sopravvalutati. È la nudità la metafora del romanzo: le scrittrici non solo amano leggere senza abiti ma soprattutto mettono a nudo i loro veri sentimenti e desideri che non sempre collimano. È poi un episodio in cui si è trovata nuda che ha allontanato Sara dall’amata figlia che non le parla ormai da dieci anni. E il premio serve a mettere a nudo la pochezza che spesso si sposa agli autori di cassetta e mostrare quindi l’imperatore senza vestiti. NEL GIARDINO DELLE SCRITTRICI NUDE non è solo un intelligente commedia che prende di mira il mondo editoriale e in larga parte il genere maschile, ma regala ai lettori anche un repertorio di ottimi suggerimenti di lettura. Sembra infatti di entrare nella biblioteca di Piersandro Pallavicini e sbirciare tra i suoi autori preferiti: Christopher Isherwood, Aldo Busi, Stefania Bertola, Luciano Bianciardi solo per citarne alcuni.

Alice Cappagli, NIENTE CAFFÈ PER SPINOZA, Einaudi, 2019
Delicato, efficace, intelligente e ben costruito, il romanzo di Alice Cappagli dimostra che oltre che per la musica (è violoncellista nell’orchestra del Teatro alla Scala) l’autrice ha talento anche per la scrittura. Perché la storia in realtà si gioca su accadimenti non particolarmente originali - l’incontro tra un vecchio professore di filosofia rimasto cieco e la giovane donna che viene assunta per assisterlo e l’incrocio delle loro esistenze anche alla luce delle parole dei filosofi che Maria Vittoria legge per lui – ma Alice Cappagli sa orchestrare perfettamente i temi e i toni del suo romanzo. Così non possiamo non amare Il Professore, la sua grande cultura che però non lo allontana dalla realtà ma che lo rende estremamente umano; e volere bene a Maria Vittoria che, con la sua semplicità, sa cogliere così bene i caratteri delle persone e anche... dei cani. NIENTE CAFFÈ PER SPINOZA è un romanzo che sa raccontare con leggerezza la filosofia e la fine della vita, i rapporti umani e il mare di Livorno, la quotidianità di ognuno di noi nella sua banale eccezionalità. Usando un linguaggio quasi sempre efficace ed evocativo e non rinuciando mai a una affettuosa ironia.

Amanda Craig, LE CIRCOSTANZE, Astoria, 2019 (traduzione di Valentina Ricci)
Come dico spesso negli incontri con i bibliotecari e con i lettori bisognerebbe sempre avere un libro Astoria sul comodino. Perché la casa editrice milanese è garanzia di letture di qualità e dotate di una sana e intelligente leggerezza. Così già rimpiango l’ultimo che ho letto, LE CIRCOSTANZE di Amanda Craig, ma trovo conforto nel suo sostituto che mi sta già aspettando di fianco al letto: L’IMPREVEDIBILE DESTINO DI EMILY FOX-SETON di Frances Hodgson Burnett. Ma torniamo al romanzo di Cassandra Craig, nuova autrice scoperta da Astoria per i lettori italiani e che speriamo di continuare a leggere. Perché LE CIRCOSTANZE è un romanzo intenso e intelligente, con molti piani narrativi e uno sguardo acuto e sincero sulla realtà inglese. In questo caso quella della recessione che rende impossibile mantenere il tenore di vita londinese. Così Quentin e Lottie, giornalista e architetto rimasti senza lavoro, non solo non possono dare seguito al divorzio dopo che lei ha scoperto i tradimenti del marito ma devono anche lasciare il lussuoso appartamento a Londra per trasferirsi con i figli in campagna, in un’isolata e diroccata fattoria del Devon. Il cambio è traumatico e la scrittrice inglese è maestra nel descrivere le situazioni più esilaranti senza banalizzare però le difficoltà che la famiglia si trova ad affrontare. Ma forse anche un paesaggio e un modo di vivere diversi possono riservare qualche piacevole sorpresa.

Beatrice Masini, PIÙ GRANDE LA PAURA, Marsilio, 2019
“Non ci resterà che aspettare, guardandoci di continuo alle spalle, davanti, intorno, in attesa del colpo. Sarà ancora la paura nostra sorella, sempre. Ma tu sei troppo grande per provarla ancora e troppo giovane perché faccia ritorno nella nuova forma, tu sei salva e sospesa per un lungo attimo che durerà pochi anni, l’epoca dello scampo, l’unica finestra dentro cui crescere senza timore, il solo strappo nella tela che il ragno mostruoso ha tessuto ed è pronto a ingrandire, zelante, capace. Il tempo di crescere, veloce, senza esitazioni. Sii temeraria, allora, finché puoi”. PIÙ GRANDE LA PAURA, sette racconti e una novella a firma di Beatrice Masini, appena pubblicato da Marsilio è un libro che sa raccontare quel limbo elastico e misterioso in cui l’infanzia cede lentamente il passo a uno sguardo che più che adulto è più disilluso e più consapevole del mondo. In tutte le sue variegate forme. E’ come una porta che si apre piano piano e il bambino intravede e poi vede quello che però in fondo già sapeva di trovare. Quello che colpisce nei racconti è la distanza tra bambini e adulti, il sottovalutare da parte dei grandi pensieri e capacità di cogliere e vivere le situazioni dei piccoli, il disprezzare il punto di vista dell’infanzia. Nascono così delle zone d’ombra tra adulti e ragazzi, delle bolle trasparenti ma estremamente compatte che ne impediscono il dialogo, il confortante riconoscersi in un sentire comune. Tornano poi spesso immagini care alla scrittrice milanese come il mare, la vacanza come tempo sospeso e le figure di donne e madri spesso infelici se non depresse. Tutto questo i bambini vedono, sentono, ripropongono nel gioco, cercano di interpretare. Spesso inascoltati, lanciano delle zattere agli adulti che stanno per annegare e hanno dimenticato il loro sguardo bambino. Così non resta che relazionarsi con i personaggi dei libri, più propensi ad ascoltare e a lasciarsi capire: “Il papà la domenica le lascia qualche foglio di soldi da spendere come vuole, un commercio d’amore che non sa prendere altra forma, e la collezione cresce, e lei si addentra ancora e ancora nelle vite degli altri coi loro bei nomi strani e i loro bei dolori strani. Le persone dei libri non sono quasi mai felici”.

David Foenkinos, VERSO LA BELLEZZA, Solferino, 2019 (traduzione di Elena Cappellini)
Un romanzo che parla di arte e bellezza ma anche di come non sempre possano salvarci dalla violenza e dall’orrore. In testa alle classiche francesi dalla sua uscita, VERSO LA BELLEZZA di David Foenkinos ci immerge nel mondo della pittura sin dalle prime pagine. Antoine Duris, infatti, stimato professore di storia dell’arte, specializzato nello studio di Modigliani, abbandona improvvisamente la sua cattedra universitaria, gli amici e la sorella con una futile scusa. Scrive a tutti una mail dicendo che ha bisogno di un anno sabbatico per scrivere un romanzo e di non cercare di contattarlo. In realtà lo ritroviamo guardiano di sala al Museo D’Orsay a Parigi. Dove Mathilde Mattel, la responsabile delle risorse umane, all’inizio, viste le sue competenze, non vuole neppure assumerlo ma poi si lascia convincere dalla determinazione e dalla sofferenza che trapelano dagli occhi del giovane uomo. Antoine oltretutto si trova a vigilare nelle sale in cui è allestita proprio una mostra sull’amato Modigliani. Che ha ritratto molte delle sue donne e in particolare Jeanne Hébuterne, la sua musa dal tragico destino. La vita dello studioso e quella dell’artista sembrano rispecchiare una sofferenza comune che confluisce nella depressione che sembra aver colpito Antoine, che è stato da poco lasciato dalla compagnia di una vita che ha poi trovato un nuovo amore. Ma in realtà Antoine fugge da una sitazione ben peggiore che sarà svelata nella seconda parte del romanzo. Come nei libri precedenti lo scrittore francese fa dell’arte la protagonista del romanzo, crea con i quadri lo sfondo ideale della sua storia. Senza ridurlo a un puro vezzo letterario ma trasmettendo la magia dell'esperienza artistica e insieme svelandone l'inutilità di fronte alla realtà della sofferenza umana. In particolare quando entra in scena la giovane Camille. VERSO LA BELLEZZA è anche una profonda riflessione sul talento e sul rapporto con i maestri o quelli presunti tali. E sulla responsabilità degli adulti nei confronti dei sogni, delle aspirazioni, della vita degli adolescenti. E sul fatto che la bellezza non può salvare il mondo ma renderlo migliore sicuramente sì.

Adrian N. Bravi, L’IDIOMA DI CASILDA MOREIRA, Exorma, 2019
“Casilda gli spiegò che quella era stata la lingua dell’innamoramento tra lei e il suo yalalaw e che una volta morto l’innamoramento doveva morire anche la lingua. Annibale provò a dirle che le lingue, compresa quella della nonna Yakak, possono esprimere qualsiasi sentimento, prima e dopo la morte del sentimento stesso, perché è l’unica cosa che abbiamo e che ci possiede... - No, ti sbagli, il sentimento e la lingua non sono due cose diverse, noi ci siamo voluti bene in quella lingua e adesso tutte le cose affettuose e le parole belle che ci siamo detti sono scomparse”. Il nuovo libro di Adrian Bravi L’IDIOMA DI CASILDA MOREIRA, edito da Exorma, è un viaggio o meglio tanti viaggi. Prima quello di Annibale, giovane dottorando di etnolinguistica, che seguendo l’ossessione del suo professore lascia le natie Marche per la pampa argentina per strappare un dialogo in 'günün a küna' agli unici discendenti degli indios che ancora parlano quella lingua. Ma il romanzo è anche un viaggio che indaga il significato delle parole e come la lingua che usiamo e come la usiamo riveli anche chi siamo e cosa proviamo. Come accade a Casilda che si rifiuta di usare con Bartolo la lingua dell’amore e la sostituisce con lo spagnolo, la lingua d’uso. Per Annibale il viaggio sarà anche la scoperta di un se stesso inedito, che impara ad andare a cavallo, scopre l’amore e un modo diverso di guardare il mondo. Il romanzo di Adrian Bravi ne conferma il grande talento e la capacità di rendere vive le parole. Grazie a un uso sapiente, preciso e allusivo dello stile e del ritmo e a un linguaggio così intenso e pittorico, ma mai compiaciuto, sembra di respirare all’unisono con i protagonisti e di camminare sempre al fianco di Annibale: “Ci sono posti che, anche se li vedi per la prima volta, ti sembrano così familiari che giureresti di esserci già stato e di conoscerne persino la lingua e le abitudini; perché sei sicuro che li avevi dentro, quei posti, e che solo ora hai deciso di tirarli fuori per fartici due passi in santa pace”. Ecco, esattamente la stessa sensazione che si prova leggendo L’IDIOMA DI CASILDA MOREIRA.

Michela Murgia, NOI SIAMO TEMPESTA, Salani, 2019
Si possono cercare molte definizioni e linee di interpretazione per il nuovo libro di Michela Murgia NOI SIAMO TEMPESTA: raccolta di storie, libro per ragazzi, libro d’artista, esaltazione del lavoro di squadra, tentativo di bilanciare la profusione di testi dedicati a singoli eroi e personaggi esemplari. Ma in realtà non c’è bisogno di trovare una spiegazione condivisa perché NOI SIAMO TEMPESTA può essere tutto questo e molto altro ma, prima di tutto, è espressione del lavoro di una scrittrice. Perché il come è raccontato dà senso e valore a quello che leggiamo. Certo il cambiamento del punto di vista, narrare cioè storie come quella della nascita di Wikipedia, della caduta del Muro di Berlino, piuttosto che dell’orchestra di Piazza Vittorio o dell’associazione delle donne di Plaza de Majo, dove l’insieme ha vinto spesso contro l’ingiustizia e la violenza, è sicuramente un’idea riuscita ma lo è nella misura in cui è stata una scrittrice a rielaborla e realizzarla. Ne nasce così un libro senza età, appassionante per ragazzi e adulti, da leggere insieme ed efficace anche letto ad alta voce, grazie alla capacità narrativa di Michela Murgia e all’idea di affiancare alla sua storia una scheda informativa sul sodalizio scelto per testimoniare come spesso tutti insieme creiamo un puzzle invincibile ma che non può fare a meno neanche del più piccolo pezzettino. In questa logica si pone anche l’idea del libro che non è in contrapposizione con l’inflazione di storie esemplari che hanno invaso le librerie dopo il successo delle storie della buonanotte per bambine ribelli ma vuole offrire uno sguardo altro, mettere di fianco alle imprese degli eroi quelle del lavoro di squadra. Queste sedici storie scelte da Michela Murgia e sapientemente illustrate da The World of Dot - neanche da dirlo, un collettivo di artisti – sono solo la traccia di una via che i lettori possono proseguire da sé, guardando alla storia più o meno recente con occhi diversi ma anche cercando altri esempi che possono arricchire il catalogo ideale di chi mette insieme la sua goccia a tante altre per scatenare un’utile e necessaria tempesta.

Daniele Aristarco, LETTERE A UNA DODICENNE SUL FASCISMO DI IERI E DI OGGI, Einaudi ragazzi, 2019
Come si può raccontare la storia ma anche l’attualità ai ragazzi? Con competenza, rispetto e un linguaggio adeguato, ma mai banale, come fa lo scrittore Daniele Aristarco in LETTERE A UNA DODICENNE SUL FASCISMO DI IERI E DI OGGI, pubblicato da Einaudi ragazzi e che inaugura la nuova collana di saggistica per i giovani lettori “Presenti Passati”. Bisogna dare merito a Daniele Aristarco non solo per il valore del libro ma anche per il coraggio e la profondità con cui riesce davvero a mettere ordine intorno al fascismo e alle tante declinazioni e storture in cui si è sviluppato. Ordine che prende il via dai fatti e quindi dalla Storia. Lo scrittore romano prende lo spunto per queste undici lettere precise e sentite dalla scritta DVX che trova scolpita sul banco di una ragazzina assente durante l’incontro con la sua classe. La ragazzina si chiama Giulia e non sappiamo se l’incisione è opera sua ma è il punto di partenza per riflettere sul fatto che spesso vediamo o usiamo segni ed espressioni senza capirne realmente il significato e soprattutto la pesante eredità di violenza, dolore, morte, umiliazione e ingiustizia che si portano dietro. In particolare per chi non ha vissuto gli anni del fascismo ma anche per chi li ha conosciuti ma preferisce trovare alibi e giustificazioni. Attraverso questo dialogo ipotetico con una ragazzina di oggi lo scrittore romano ci mette davanti a che cosa ha portato a un regime dittatoriale, alle leggi razziali, a una guerra assurda, all’occupazione violenta di altri Stati e a perpetrare vere e proprie stragi in nome del potere. E lo fa parlando anche di se stesso, della passione per i busti, del disagio nell’affrontare chi dice falsità storiche, del disgusto per lo zabaione come accade quando si scrive una lettera ad un amico. Il libro è anche una profonda riflessione sull’informazione, sulla distorsione dei fatti che spesso inducono a rimpiangere il ventennio fascista. LETTERE A UNA DODICENNE SUL FASCISMO DI IERI E DI OGGI è un libro onesto che tutti e non solo i ragazzi dovrebbero leggere. Per non smettere di credere nella giustizia e nella verità: “Credo che il fascismo sia profondamente antitaliano, perché di un paese che pure esalta a parole non ha mai compreso la vera bellezza. La grandezza di una Nazione, a mio avviso, non sta nel saper difendere i propri confini o nell’ampliarli il più possibile. La grandezza sta nelle possibilità che offre a chi la vive”.

Martin Fahrner, DALLA PARTE DEL BENE, Keller, 2018 (traduzione di Laura Angeloni)
“Pur trovandosi in un valico tra due montagne sulla linea di confine, la città in cui sono cresciuto si estende in una zona pianeggiante, quindi tutti si muovono in bicicletta. Si cominciava sempre con un triciclo. Con un po’ di impegno si passava poi a una bici da bambino e poi a una Pionyr. Quest’ultima si produceva in due colori, rossa o blu, ma se volevi distinguerti dalla folla, e avevi dalla tua un padre ingegnoso, potevi fartela dipingere, giusto per sfizio, perché presto saresti passato alla più grande Eska, che invece era in tutti i colori possibili e aveva persino le marce. Non c'è dunque da meravigliarsi se tutti facevano fatica a separarsene quando le gambe si allungavano a dismisura e arrivava il momento di procurarsi una Favorit. Quello era il culmine dello sviluppo, non solo perché in quel periodo non si trovava niente di meglio, ma anche perché, con un po’ di fortuna, la Favorit ti restava per tutta la vita”. Dobbiamo ancora una volta ringraziare l’editore Keller per questo piccolo gioiello che è DALLA PARTE DEL BENE di Martin Fahrner. Una storia di famiglia e insieme universale, uno spaccato di storia europea e in particolare della Cecoslovacchia, un romanzo di formazione scandito dalle metafore calcistiche. Perché il protagonista che incontriamo ancora bambino è il figlio di un famoso calciatore, il capitano della squadra di Kostelec, mentre la mamma a casa si occupa della gestione familiare. DALLA PARTE DEL BENE non è un titolo casuale e non nasconde del facile buonismo ma una storia piena di umanità con personaggi indimenticabili come la nonna del protagonista e un forte senso della giustizia e della lealtà: “E all’improvviso mi invase la stupefacente certezza che il cuore degli uomini proviene da una grande altitudine e che è come una conchiglia, anche dopo anni se l’accosti all’orecchio senti il rumore del mare, e ognuno di noi porta quella conchiglia celestiale dentro di sé, per non dimenticare mai che lassù, in alto, troverà sempre un posto apparecchiato”.

Paolo Colagrande, LA VITA DISPARI, Einaudi, 2019
“Dei discorsi di Fulgenzio ma anche dei discorsi in generale, a Buttarelli interessavano non le parole ma i fenomeni, che potevano essere parole secche, uscite per caso o per sbaglio o non intonate al discorso, o poteva anche essere un intero discorso purché avulso dall’occasione. E io mi sentirei di approvare questo metodo di lettura, che è giusto e soprattutto adatto al genere umano che soffre ancora i postumi del famoso capitolo undici della Genesi, quando Dio, che era ancora giovane e non sapeva controllare l’onnipotenza, nel buttare addosso al genere umano un’infinità di lingue ha usato una forza talmente esagerata che senza volere ha toccato il sistema nervoso centrale procurando un danno permanente ai cervelli. In maniera che adesso l’uomo, anche se poco alla volta ha imparato tutte le lingue seminate così acriticamente, è biologicamente incomunicativo; non per pigrizia o per scarso impegno ma perché c’è un’area del suo cervello rimasta offesa. Quindi per capire le cose è giusto affidarsi ai fenomeni, più che alle parole e alle frasi”: il nuovo romanzo di Paolo Colagrande, LA VITA DISPARI, appena pubblicato da Einaudi, non delude i suoi molti lettori che si ritroveranno come sempre in una sorta di giostra linguistica, di ininterrotto flusso di più o meno coscienza, in una serie infinita di divagazioni che come per miracolo lasciano poi uscire una storia. In questo caso quella di Buttarelli, figlio unico di madre vedova, mandato a studiare in collegio, una sindrome che gli impedisce di leggere le pagine pari, che scopre una volta adulto la passione per i numeri e non solo. Insomma una vita come tante: “Dice Gualtieri che, a ripensarci, uno come Buttarelli cos’altro poteva ancora fare. Uno come Buttarelli può diventare invisibile senza che il mondo se ne accorga, e forse lo era già: che ci fosse o non ci fosse il quadro non cambiava. Poteva muoversi dove voleva in qualunque momento”. La vita dispari è insieme un’amara ed esilarante commedia che insieme celebra e disprezza la vita di provincia. E così non possono mancare il bar tabacchi, l’osteria con la trippa, le amicizie fraterne ma anche le voci di paese come fonti uniche e inattendibili, i soprannomi che ti marchiano in eterno, la difficoltà di rimanere nella parte pari della vita.

Lorenzo Ghetti, DOVE NON SEI TU, Coconino Press, 2018
Sulla copertina di DOVE NON SEI TU di Lorenzo Ghetti siamo subito attratti da un ragazzino che segue una sagoma bianca. Tutto il senso della storia è in questa immagine. Perché il graphic pubblicato da Cocononino Press racconta di un mondo non troppo futuro dove si può essere fisicamente ovunque grazie all’invenzione della tuta ScOut. Così Lido che, al contrario dei suoi compagni, non si è mai entusiasmato per questa incredibile possibilità, si trova ad ospitare in camera sua Mobi, una nuova compagnia di classe, ovvero la sua tuta che deve essere ricaricata in quanto Mobi arriverà nella scuola di Lido solo tra un mese ma intanto la frequenta grazie alla tuta. Seguiamo così le vicende della classe ma anche il legame che nasce tra Lido e Mobi fino a quando la ragazza non scompare. Per Lido è prima una preoccupazione poi una delusione perché ha coinvolto Mobi nel suo mondo di letture, amicizie, giochi di ruolo. In qualche modo Lido e Mobi sono due rappresentazioni opposte dell’adolescenza: sempre in movimento e ansiosa di nuove esperienze la ragazza, più riflessivo e tranquillo Lido che ama l’avventura attraverso gli amati giochi di ruolo. Eppure i due si compensano e nasce tra loro un’amicizia immediata. DOVE NON SEI TU è una storia efficace, poetica, tenera sul comunicare e sull’amicizia. E anche sulle possibilità che la tecnologia ci regala ma di cui spesso non vediamo i lati oscuri. Il valore e l’efficacia del graphic è naturalmente anche nella tecnica che Ghetti adotta: immagini che rimandano ai videogiochi, l’uso dei messaggi e delle chat che si alternano a tratti poetici sottolineati da colori quasi pastello. Lorenzo Ghetti, nato a Pisa nel 1989, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha fatto parte di Delebile e lavora per Hamelin ed è noto soprattutto come l’autore di TO BE CONTINUED, il webcomic italiano più sorprendente e premiato degli ultimi anni, una storia di adolescenza in un universo dove tutto si smaterializza e trovarsi è facile e difficile allo stesso tempo. Il suo esordio su carta ne conferma il talento narrativo e anche la capacità di raccontare una storia per i ragazzi di adesso e quelli di una volta.

Natasha Wodin, VENIVA DA MARIUPOL, L’orma, 2018 (traduzione di Marco Federici Solari e Anna Ruchat)
È difficile in VENIVA DA MARIUPOL scindere la testimonianza storica e il lavoro letterario, ma forse è proprio in questa commistione inscindibie che sta il valore dell’opera della scrittrice tedesca. Perché sicuramente la storia della sua famiglia e in particolare di sua madre porta alla luce uno spaccato di storia a lungo dimenticato e un fenomeno devastante e sottostimato, e ci voleva una grande scrittrice per dare voce e risalto a quelle vicende non così lontane. Natasha Wodin, nata nel 1945 in un campo per sfollati, perde tragicamente la madre a dieci anni. Dopo aver cercato per anni le sue origini, navigando in internet trova casualmente una traccia importante. Da lì comincia il suo e il nostro viaggio a ritroso che ci porta a Mariupol, ridente cittadina ucraina dove la famiglia De Martino gode di ricchezza e prestigio grazie al commercio del carbone. Da lì verrà la nonna di Natasha ma presto il benessere economico e culturale della famiglia soccomberà a causa della rivoluzione russa e poi della guerra che svuoterà Mariupol di più della metà della sua popolazione. Tra questi i genitori di Natasha, deportati in Germania come lavoratori forzati al servizio del Terzo Reich. Ma una volta arrivati gli alleati e finita la guerra, milioni di questi deportati per lo più slavi si trovano in una sorta di limbo: non possono tornare nei loro paesi dell’area comunista dove sono considerati traditori per aver lavorato, anche se forzati, per i tedeschi e in Germania vengono mal tollerati e ghettizzati. VENIVA DA MARIUPOL, attraverso i personaggi della famiglia della madre di Natasha che man mano escono dall’oblio, ci racconta questo drammatico spaccato di storia che ha condizionato e ancora condiziona la vita di milioni di persone. Che non bisogna mai dimenticare.

Jane Sautierre, GUARDAROBA, La nuova frontiera, 2018 (traduzione di Silvia Turato)
Quando ho visto la copertina e il titolo non potevo aspettare a leggere GUARDAROBA perché io sono cresciuta tra i vestiti nella sartoria di mio padre di cui sembra parlare Jane Sautierre quando dice che “I vestiti cuciti a mano rafforzano la sensazione che siano un tutt’uno con noi, con la nostra carne, ma anche con quella di chi, pazientemente, ce li ha cuciti adosso”. È un libro curioso GUARDAROBA, dove si vede il talento della scrittrice francese non solo per la scrittura ma per la capacità di leggere il mondo, a partire dalla quotidianità e dall’atto di vestirsi: “Bello per me, non è caro o chic o ben fatto. Ma forse tutto ciò che alcuni abiti possono contenere, carichi di vita propria. Nel caso in cui venga a mancare, potrebbe restituire il gusto di vivere...”. Il memoir attraverso gli abiti di Jane Sautierre dà la sensazione di frugare nella vita della scrittrice francese ma soprattutto nella nostra. Aprendo l’armadio della vita per svelare la nuda realtà: “Aprire un libro come si apre un armadio. Meglio: aprire un armadio come si apre un libro. Scrivere un vestito perduto, dimenticato, farlo uscire da quel guardaroba così oscuro, guardare ciò che è stato nel suo ordinario e nel suo straordinario”. Perché gli abiti ci raccontano e sono loro stessi delle storie: “Li portiamo e poi un giorno non ci vanno più. Li proviamo, increduli. No, niente da fare, non vanno. Non è sempre un problema di taglia, ma un problema che potremmo dire di architettura. Non ci appartengono più, sono sbagliati... Oppure il vestito si rivela fuori moda, perché non esprime più niente. Ha finito di raccontare la sua storia oppure la storia che raccontava non ci appartiene più. La sua forza immaginativa è andata distrutta, come succede all’avatar di un feticcio”.

Éric Vuillard, L’ORDINE DEL GIORNO, e/o, 2018 (traduzione di Alberto Bracci Testasecca)
“Il 20 febbraio di quell’anno, tuttavia, non fu una data come le altre. Eppure la maggior parte della gente passò la mattinata a sgobbare, immersa nella bugiarda decenza del lavoro con quei piccoli gesti in cui si concentra una verità muta e decorosa, e in cui tutta l’epopea della nostra esistenza si riduce a una diligente pantomima. La giornata trascorse così, serena, normale. E mentre ognuno faceva la spola tra la casa e la fabbrica, tra il mercato e il cortiletto in cui si stende il bucato, poi la sera tra l’ufficio e il bar, e finalmente rincasava, ben distante dal lavoro decente, ben distante dalla vita familiare, davanti a un palazzo lungo la Sprea alcuni signori si accingevano a uscire dalle loro automobili”. È un libro curioso questo dello scrittore francese, premio Goncourt 2017. Perché nelle prime pagine dà la sensazione di essere una sorta di esercizio di stile, lo sfoggio di una scrittura alta ed elegante. Poi però lo stile trova la sua piena realizzazione in una denuncia della banalità del male che tiene legato il lettore alle pagine nonostante la sofferenza e lo stupore. Gli uomini di cui Vuillard racconta all’inizio del racconto sono i maggiori industriali tedeschi invitato da Hilter quando ancora non era al potere. Il Führer riesce a convicerli a sostenerlo economicamente quando ancora non era al potere con la promessa di dare stabilità al paese. E sicuramente non ci hanno rimesso: “La guerra era stata redditizia. La Bayern prese in appalto manodopera a Mauthausen. La BMW si rifornì a Dachau, Papenburg, Sachsenhausen, Natzweiler-Struthof e Buchenwald. La Daimler a Schirmeck. La Ig Farmer reclutò a Dora-Mittelbau, Gross-Rosen, Sachsenhausen, Buchenwald, Ravensbruck, Dachau, Mauthausen, oltre a gestire una fabbrica gigantesca ad Auschwitz, la IG Auschwitz che, con la massima impudenza figura con questo nome nell’organigramma dell’azienda. L’Agfa si riforniva di forza lavoro a Dachau. La Shell a Neuengamme. La Schneider a Buchenwald. La Telefunken a Gross-Rosen e la Siemens a Buchenwald, Flossenburg, Neuengamme. Ravensbruck, Sachesenhausen, Gross-Rosen e Auschwitz. Tutti si erano precipitati su quella manodopera a buon mercato”. Ma L’ORDINE DEL GIORNO è anche lo svelamento di come la potenza nazista sia spesso stata solo un bluff come nel caso dell’annessione dell’Austria e come l’opinione pubblica non solo non si sia opposta alle idee e alle violenze del nazismo ma al contrario le abbia appoggiate. Un breve libro, un saggio narrativo che è necessario leggere.

Julian Barnes, L’UNICA STORIA, Einaudi, 2018 (traduzione di Susanna Basso)
“Abbiamo quasi tutti un'unica storia da raccontare. Non voglio dire che nella vita ci capiti una cosa sola; al contrario, gli avvenimenti sono tantissimi, e noi li trasformiamo in altrettante storie. Ma ce n'è una sola che conta, una sola da raccontare, alla fine”. Per chi ha amato IL SENSO DI UNA FINE ma anche per chi semplicemente vuole leggere un bel libro L’UNICA STORIA di Julian Barnes è imperdibile. Perché lo scrittore inglese non è solo uno dei massimi autori contemporanei ma sa giocare intelligentemente con il lettore, coinvolgendolo, grazie alla scrittura efficace e mai banale, totalmente nella storia. Che prende il via con questa telegrafica provocazione: “Che cosa preferireste, amare di più e soffrire di più; o amare di meno e soffrire di meno?”. Dove non è contemplata l’ipotesi di amare di più e soffrire di meno... Che è quello che accade a Paul, diciannove anni, che inizia, grazie al fortuito incontro al circolo del tennis, una scandalosa relazione con Susan, quarantenne sposata e madre di due figlie coetanee di Paul. Il romanzo è una storia d’amore ma anche una spietata descrizione dell’upper class inglese, una profonda riflessione sul matrimonio e sull’innamoramento, uno sguardo ironico ma anche partecipe sul senso della nostra vita. E soprattutto è la dimostrazione di cosa significa essere uno scrittore. Barnes quasi gioca con i registri narrativi, sorprende con l’alternanza di espressioni ora molto ricercate ora quasi volgari nella loro essenzialità, non lascia che il lettore si illuda di capire come andrà a finire. Perché non ci sono confini definiti e i personaggi sono prevedibili e imprevedibili insieme proprio come tutti noi. E del resto “In amore, ogni cosa è al tempo stesso vera e falsa; l’unico argomento al mondo sul quale è impossibile dire insensatezze”.

Narine Abgarjan, E DAL CIELO CADDERO TRE MELE, Brioschi, 2018 (traduzione di Claudia Zonghetti)
Una per chi ha visto, una per chi ha raccontato e una per chi ha ascoltato sono le tre mele cadute dal cielo secondo la tradizione armena. E il romanzo di Narine Abgarjan ci restituisce la mentalità e la cultura del popolo armeno con una storia dalle tante modulazioni di sentimento dal dramma all’ironia, dalla gioia alla morte. In sostanza la vita. La storia si svolge a Maran piccolo paesino quasi irragiungibile sul cucuzzolo di una montagna. A poco a poco, a causa delle carestie e della guerra il villaggio si svuota e rimangono solo gli anziani: “Qualcuno ha voluto che così fosse e così è. Era la frase preferita dei vecchi del luogo... le parole semplici hanno sempre un significato profondo”. Colpisce da una parte l’inesorabile sentimento di rassegnazione a un volere superiore che non risparmia però grande dolore e sofferenza e dall’altra la forza vitale che mai si placa, il desiderio quasi spasmodico di attaccarsi alla vita, anche quando tutto sembra perduto. “Era l’ultimo bambino di Maran. L’ultimo sì, non ce ne sarebbero stati altri. I giovani se ne erano andati in un mondo altro, i vecchi se ne sarebbero andati all’altro mondo. Senza lasciare nemmeno i ricordi”. Ma non sarà così... perché, contro ogni previsione, rimangono le loro storie, combattendo l’oblio saranno loro a tramandare la memoria. E DAL CIELO CADDERO LE STELLE è un tassello di questa memoria ma è anche semplicemente una bella storia raccontata bene.

Vanna Vinci, IO SONO MARIA CALLAS, Feltrinelli comics, 2018
Con IO SONO MARIA CALLAS Vanna Vinci prosegue la fortunata serie di narrazione con immagini di figure iconiche femminili, tanto che potrebbe diventare un genere a cui dare il suo nome. Perché se da una parte le donne ritratte, dalla Marchesa Casati a Frida Kahlo sono molto diverse tra loro e i libri loro dedicati si adattano al personaggio, il tratto e il modo di rimettere in scena una vita è immediatamente riconoscibile. Così anche in questo nuovo libro troviamo un accurato e approndito lavoro di indagine che, rielaborato, serve a restituirci insieme l’artista e la donna o meglio l’incredibile commistione tra le due cose. Mentre le artiste precedenti avevano in qualche modo fatto della loro vita, come direbbe la Casati, un’opera d’arte, per Maria Callas i due ambiti sono drammaticamente opposti. Da una parte c’è la Callas e il suo incredibile talento, dall’altra Maria che desidera una vita borghese, sicurezza economica, un compagno devoto. Il rapporto con gli uomini mette a nudo la fragilità emotiva e sentimentale della Callas che grazie al suo talento riesce ad avere ricchezza, successo, ma non la sicurezza in se stessa e la libertà di scegliere in base ai suoi desideri. La madre anaffettiva e approffitatrice, la sorella indifferente, il padre debole, sommati a un aspetto fisico goffo sembrano aver creato un vuoto affettivo che Maria non riesce mai a colmare. Queste e altre considerazioni, insieme a sentimenti che rendono a tratti quasi dolorosa la lettura, Vanna Vinci riesce a trasmettere al lettore, organizzando il libro secondo le sequenze della tragedia greca, coro compreso, sottolineando luci e ombre del talento, la magia del palcoscenico e la difficoltà di comunicare nella vita reale. Ma soprattutto mettendosi nei panni della grande cantante, come del resto faceva la Callas stessa calandosi nelle eroine che impersonava. Perché ci vuole un’artista per poterne raccontare dal di dentro un’altra. Una lettura a parte merita l’uso dei colori, con il bianco che prevale per far risaltare il nero e modula la drammaticità accompagnandosi con il rosso che ora diventa rosa, ora spicca nel carminio e nell’amaranto. Colori dei drappi e dei costumi teatrali, delle antiche anfore ma mai il sole e l’azzurro del mare greco, dell’isola di Skorpios così amata da Maria.

Sara Taylor, IL CONTRARIO DELLA NOSTALGIA, minimum fax, 2018 (traduzione di Assunta Martinese)
“Di solito, ricordando il passato, si è costretti a ricostruire, inventare, tirare a indovinare: le parole dette o ascoltate, i suoni, gli odori. Quelle ventiquattro ore, cominciate nel momento in cui avevamo lasciato casa, sono rimaste scolpite nella mia memoria... Una parte di me già sapeva, mentre ascoltavo i passi di mia madre avvicinarsi alla porta di camera mia, che tutto stava per cambiare... Quel senso di ribaltamento, l’impressione che tutto ciò che sapevo, pensavo e credevo mi venisse sfilato da sotto i piedi, è ancora con me dopo più di trent’anni, come se i polpastrelli di Ma me l’avessero impresso a fuoco sulla pelle mentre mi trascinava fuori di casa”. IL CONTRARIO DELLA NOSTALGIA, il nuovo e bellissimo romanzo di Sara Taylor comincia con una sorta di rapimento: Alex, tredici anni viene svegliato dalla madre che lo carica in auto in pigiama e con un piccolo zainetto. È l’inizio di un viaggio che dura quasi tre anni attraverso gli Stati Uniti, ma anche nella storia della giovane donna, figlia di immigrati siciliani, l’infanzia vissuta tra famiglie affidatarie e l’attenzione costante degli assistenti sociali e un’irrequietezza che non la abbandona mai. Alex segue la madre senza smettere di pensare al padre, ma intanto cresce, vede il suo corpo cambiare, legge, studia fa esperienze più o meno positive. Non abbandona la decisione di non prendere un’identità di genere e scopre di avere ereditato dalla madre la voglia costante di libertà. Sara Taylor ci regala con Alex un personaggio intenso e straordinario e un romanzo vero e delicato, raffinato e profondo. La scrittrice americana riesce con uguale efficacia a raccontare l’America profonda della provincia e il rapporto madre-figlio, il sesso e la scoperta del proprio corpo, il valore salvifico dell’amicizia e la necessità di sistemare i conti con il passato, l’eredità che volenti o nolenti riceviamo dai nostri genitori ma anche la possibilità di influire sul nostro destino. Perfetto anche per i lettori adolescenti.

Bernhard Schlink, OLGA, Neri Pozza, 2018 (traduzione di Susanne Kolb e Cristina Proto)
È sempre difficile affrontare il nuovo romanzo di un autore amato se non idolatrato. È il difficile lavoro del lettore ma in questo caso conviene proprio farlo. Bernhard Schlink, l’autore di A VOCE ALTA, (ora riproposto da Neri Pozza con il titolo IL LETTORE), torna infatti con un romanzo che non delude le alte aspettative e con OLGA ci regala una protagonista difficile da dimenticare di cui seguiamo l’intera esistenza. Nella prima parte del romanzo, narrato in terza persona, incontriamo Olga, bambina precoce e silenziosa, a Breslavia; la morte di entrambi i genitori la costringe a lasciare la meravigliosa città polacca per raggiungere la nonna in Germania, in un piccolo villaggio della Pomerania dove di sente subito estranea per la sua origine slava ma anche per l’assoluta mancanza di affetto da parte della nonna, che vorrebbe persino cambiarle il nome. Ma Olga manifesta da subito il suo carattere deciso, un alto senso morale e un’intelligenza non comune. L’incontro con l’irrequieto Herbert, figlio della famiglia più in vista della cittadina, si trasforma in una stretta amicizia, e poi, contro il volere dei genitori, in un grande amore. Olga però non riesce a trattenere Herbert che prima si arruola nelle truppe coloniali in sanguinosa guerra contro gli Herero nell'Africa tedesca del Sud-Ovest e poi parte per una pericolosa avventura: la conquista del Polo Nord attraverso il Passaggio a Nord-Est. La seconda parte del romanzo è narrata da quello che Olga designerà come suo erede, figlio della famiglia in cui sarà impegnata come sarta dopo aver lasciato l’insegnamento e che lei considera come un figlio. Nella terza parte attraverso le lettere che Olga ha inutilmente inviato a Herbert potremo ricostruire l’intera vita di Olga ma anche una parte importante della storia tedesca. Come nei suoi precedenti romanzi infatti Bernhard Schlink riesce a narrare le esistenze comuni in relazione agli avvenimenti storici e viceversa. Olga è la storia di una donna ma anche un libro profondamente politico e illuminante sul passato e di conseguenza sul presente della Germania. Un libro di grande valore letterario e insieme di necessaria attualità.

Gabriele Romagnoli, SENZA FINE. LA MERAVIGLIA DELL’ULTIMO AMORE, Feltrinelli, 2018
“Non è il primo amore che conta, è l’ultimo”, dice Gabriele Romagnoli in SENZA FINE. LA MERAVIGLIA DELL’ULTIMO AMORE, pubblicato da Feltrinelli. Dopo il successo di SOLO BAGAGLIO A MANO, lo scrittore e giornalista bolognese che ha visitato centinaia di paesi, rivolge il suo sguardo narrativo sull’amore, come sempre alla sua maniera, raccontando delle storie. Storie vere nate da incontri nei suoi tanti viaggi, storie personali, storie lette, ascoltate, ma sempre pensate e vissute per essere restituite ai suoi lettori. Parafrasando un altro suo titolo ci vuole coraggio per scrivere ancora sull’amore, ma in realtà è proprio quello che fanno gli scrittori, avere la parola ulteriore e illuminante che a noi manca. E infatti Romagnoli indaga l’ultimo, non il primo amore che è stato forse anche troppo mitizzato da tutte le arti. Così SENZA FINE è un viaggio mai banale nelle relazioni umane, una serie di riflessioni che da una parte toccano nel vivo il lettore, dall’altra gli offrono un appiglio di conforto mai scontato ma sempre pensato e motivato. Julian Barnes, citato da Romagnoli nel libro, dice che “l'amore non è definibile se non con una storia”. O meglio con tante storie sembra dirci Romagnoli che insieme restituiscono la ricchezza e l’imprevidibilita dell’amore e della vita stessa. Come spesso nei suoi libri conta allo stesso modo quello che troviamo nel libro e il non scritto, che non compare per pudore, per rispetto del lavoro del lettore, per evitare l’ovvietà e il rischio di ergersi a maestro di vita. Così SENZA FINE è una sorta di matrioska al contrario dove ognuno potrà aggiungere le sue storie e considerazioni ma senza perdere il filo intellettuale e sentimentale del discorso, saldamente tenuto stretto in mano dall’autore. Ma al di là dell’ultimo amore SENZA FINE è una dichiarazione d’amore per la lettura. Troviamo infatti tanti scrittori, filosofi, pensatori, personaggi letterari che fanno parte del bagaglio di vita di Romagnoli e le cui voci dialogano alla pari con le persone in carne e ossa. Tanto che a volte si fatica a distinguerle, esattamente come accade ad ogni lettore.

Jumoto Kazumi, LETTERE D’AUTUNNO, Atmosphere, 2018 (traduzione di Maria Elena Tisi)
Dopo AMICI la scrittrice giapponese racconta ancora una volta la morte e il rapporto bambini-anziani in un romanzo delicato e profondo che nonostante la nota in copertina “romanzo per ragazzi” è in realtà un libro senza età che con l’aiuto di un adulto, può leggere anche un bambino. Chiaki a sei anni perde il padre a causa di un incidente d’auto. La madre, dopo un momentaneo sbandamento, decide di cambiare casa e così la piccola famiglia arriva alla Residenza del pioppo. Dove l’anziana padrona di casa sdentata assomiglia a un Braccio di ferro “diventato cattivo dopo aver preso una medicina sospetta”. In realtà la donna si rivelerà meno terribile del suo aspetto e depositaria di un antico segreto: è infatti la postina dei morti, consegna le lettere dei vivi alle persone defunte. E così Chiaki le affida le lettere per il suo papà, che vengono conservate in un cassetto segreto che fino a quando non sarà pieno manterrà in vita l’anziana postina. Ma anche la mamma di Chiaki manda una lettera al marito e quando diventata adulta la giovane donna potrà leggerla capirà il rapporto tra i suoi genitori e la ragione dell’inquietudine che la abita spesso.

Gayle Forman, IL NOSTRO GIORNO MIGLIORE, Mondadori, 2018 (traduzione di Alice Casarini)
A parte la traduzione un po’ ammiccante del titolo che rende meno il senso della storia rispetto all’originale I HAVE LOST MY WAY, il nuovo libro di Gayle Forman ci fa ritrovare la capacità dell’autrice americana di raccontare gli adolescenti e quello che sentono con onestà e profondità. Il romanzo è il racconto di una giornata nella vita di tre ragazzi che “si sono persi” che non riescono a trovare il senso di quello che sono e fanno. Così Freya, una stella emergente della musica alle prese con una madre ambiziosa e un agente che vuole dirigere la sua vita cade addosso a Harun, che sta fuggendo dalla sua famiglia e Nathaniel, appena arrivato a New York, li soccorre. I tre sembrano destinati a incontrarsi e la giornata che trascorreranno insieme servirà per guardarsi dentro e condividere la loro disperazione. Ma anche per comprendere il valore dell’amicizia e come a volte basta non sentirsi più soli per ritrovare la strada.

Erica Barbiani, GUIDA SENTIMENTALE PER CAMPERISTI, Einaudi, 2018
“Il camperista... è una categoria discriminata (se non odiata) dagli assessori e dai ministri al turismo. Il camperista si intrufola in un parcheggio, fa una spesa minima al mercato, oppure lascia qualche manciata di euro a un campeggio ricevendone in cambio molta più corrente elettrica, acqua fresca, e scaricando le monnezze accumulate durante il viaggio. Senza contare le emissioni di carburante... Gli amministratori locali creano piazzole di sosta con quello stesso spirito di rassegnazione con cui adibiscono un campo nomadi”. Un catalogo di varia umanità in viaggio potrebbe essere il sottotitolo di GUIDA SENTIMENTALE PER CAMPERISTI di Erica Barbiani appena pubblicato da Einaudi. Non stupisce che la scrittrice friulana sia un’affermata autrice di documentari perché lo sguardo sui suoi personaggi è insieme empatico e antropologico. Ci ritroviamo infatti in una fredda mattina di dicembre in un parcheggio di periferia dove si sono dati appuntamento i partecipanti di una gita in camper per passare il capodanno ad Atene. Eros Rossi è il cabobanda e nessuno dei camperisti conosce gli altri. Neppure Daniele e Daniela che condividono il mezzo. Troviamo quindi una giovane moglie con le due figlie, mentre il marito refrattario alle scomodità del camper dovrebbe raggiungerle a destinazione; Giuliano lasciato dalla moglie con i due figli che sono il suo ritratto, e quindi all’apparenza prevedibili, saccenti e noiosi. Una coppia di anziani coniugi che ha vinto un camper pioneristico e vuole rivenderlo in Albania dove è stato costruito; una accanita lettrice che non esce mai dal camper; una donna divorziata con adolescente refrattario al seguito. Già i nomi sono un programma a partire dalla complessata Claudia Clitoridani. Per non parlare del cosidetto organizzatore, in realtà il meno organizzato e affidabile della compagnia. Ma come spesso accade con questi preamboli il viaggio sarà indimenticabile per tutti loro e non gli viene risparmiato neppure un omicidio con relativo cadavere congelato. In un romanzo dal tono scanzonato Erica Barbiani ci offre tante strade di lettura, un po' come quelle che si possono percorrere con la libertà del camper: e se la figura di Eros, gigione e improvvisato è una azzeccata metafora degli uomini al comando, non manca il ritratto di un felice matrimonio, la genialità degli artigiani italiani, l’ospitalità balcanica, un divertente percorso di diseducazione di due bambini e un adulto troppo ligi al dovere e alle regole (!), un po’ di sana attrazione sessuale tra più o meno giovani, la capacità di condividere cibo, attrezzi e anche il letto. Così la cosa importante non è la meta, i fuochi d’artificio sulla splendida Atene, ma il viaggio insieme, il superamento delle frontiere nazionali ma anche dentro ognuno di noi. Grazie a una guida sentimentale che non perde mai di vista l’ironia ma mantiene sempre un’affettuosa condivisione dei sentimenti umani e fa davvero venire voglia di partire con una casa viaggiante, ma non da soli.

Davide Calì e Isabella Labate, TRE IN TUTTO, Orecchio acerbo, 2018
Giocando con il titolo del bellissimo albo di Davide Calì e Isabella Labate, TRE IN TUTTO, pubblicato da Orecchio acerbo possiamo dire che non tre ma molte sono le letture che si possono fare grazie al testo sentito, che non eccede mai nel sentimentale - anche se qualche lacrima preme - e alle immagini che riescono a esprimere i colori anche con il nero e il grigio. Prima di tutto l’albo ha il merito di raccontare con immagini e parole uno spaccato della nostra storia che forse pochi conoscono: la storia di circa settantamila bambini del sud Italia che, finiti il fascismo e la guerra, salirono sui “treni della felicità” per raggiungere, al Nord, famiglie di contadini, operai, impiegati che li salvarono da un destino di fame, povertà, malattia. Grazie a un progetto del dopoguerra voluto dall’Unione Donne Italiane e dal Comitato per la salvezza dei bambini del Partito Comunista. Qui a riportare la loro esperienza sono due fratelli rimasti senza padre che lasciano la madre e salgono sul treno con tanti altri bambini, con nelle orecchie le parole minacciose del prete convinto che i comunisti al Nord mangino i piccoli o li usino per fare il sapone. Dopo un viaggio lunghissimo, un mare che non avrebbero pensato fosse così grande, i due approdano in una piatta provincia dove vengono accolti da due sorelle che abitano una di fronte all’altra. Nonostante i timori di finire cucinati, subito si accorgono che il grande pentolone è già pieno di un cibo giallo e abbondante che si chiama polenta. I bambini vengono ben nutriti, vestiti, coccolati, istruiti e quando, dopo due anni, riprendono il treno per tornare al Sud, tutti piangono, compresi gli uomini. Il legame con le famiglie del Nord prosegue grazie alla posta e all’arrivo annuale di tortellini e prosegue con l’avvento del telefono a sancire una fratellanza che va al di là del sangue e della provenienza. Calì con un testo breve e parole sempre precise e misurate riesce a restituire il valore di quell’esperienza e i sentimenti di chi l’ha vissuta, facendola vivere anche al lettore. Ne nasce una storia italiana da leggere insieme grandi e bambini, perfetta anche da leggere ad alta voce.

Inaam Kachachi, DISPERSI, Francesco Brioschi editore, 2018 (traduzione di Elisabetta Bartuli)
“Adesso a Parigi sono le sette del mattino. Le nove a Baghdad. Le dieci a Dubai. Ancora ieri nel Manitoba. L’una di notte ad Haiti. E’come se un macellaio avesse afferrato la mannaia e deciso di disseminare in tutti quei luoghi le vari parti che compongono il suo corpo”. Wardiya Iskandar entra all’Eliseo per ricevere un’onorificenza e pensa al suo amato paese, l’Iraq, e ai suoi figli esuli per il mondo. Inaam Kachachi in DISPERSI, racconta la vita di una donna e insieme quella di un paese bello e disperato, distrutto dalle guerre. Il romanzo, con la sentita ed efficace traduzione di Elisabetta Bartuli, ci immerge nella vita di Wardiya che diventa un bravo medico e a Diwaniya apre la sua clinica ginecologica. Qui si sposerà e metterà al mondo i suoi quattro figli senza mai trascurare le sue pazienti. Ma nonostante la dedizione al suo paese si trova costretta, anche a causa della sua fede cattolica, ad abbandonarlo ormai anziana e a vedere i figli sparsi per tutto il mondo a partire dall’amata Hinda: “Il Canada è davvero un bel paese, ed è un posto sicuro. Però è freddo e lontano. Lontano da voi, più di quanto dovrebbe. Venirci a vivere è un po’ come morire restando in vita”. In tutto il libro si respira l’amore e la nostalgia per il proprio paese e la sensazione di avere perso un punto di riferimento quasi vitale: “Niente finisce davvero. Nessun ricordo scompare del tutto. Continua ad annaffiare l’albero delle fotografie anche se la terra di immigrazione non è in grado di farlo germogliare. Quando l’emigrazione era diventata una realtà di fatto, aveva avuto paura che la sua patria si sciogliesse come un blocco di ghiaccio in piena estate, che gocciolasse sulla copertina verde plastificata del suo passaporto”. Inaam Kachachi con il suo stile poetico ci regala il ritratto vero e intenso di un paese di grande cultura e bellezza i cui figli però sono costretti a lasciarlo: “Laureati graziati dalla macchina della guerra che, presa da pietà, non aveva spezzato la loro gioventù come aveva fatto con tanti altri. Decine di architetti che impastavano pizze, guidavano camion in autostrada, facevano i guardiani nei parcheggi e nei supermercati”.

Helen Humphreys, AMULETO CELESTE, Playground, 2018 (traduzione di Monica Capuani)
“Quando si comincia a scrivere un romanzo sono tre le domande principali da porsi: qual è la storia, di chi è la storia, e in che modo si racconterà la storia. Di queste domande, la terza è la più interessante e merita la riflessione più lunga e approfondita”. Così scrive Helen Humphreys in AMULETO CELESTE, uno dei libri più belli che ho letto negli ultimi anni anche grazie all’intelligente e intensa traduzione di Monica Capuani. E proprio del modo in cui si vuole raccontare una storia che la scrittrice canadese ci racconta nella prima parte del libro. Dove Helen si imbatte nella figura di Megan Boyd, leggendaria artigiana di esche per la pesca al salmone, che annoverava tra i suoi affezionati clienti anche il principe Carlo. Helen decide di raccontare la storia di questa donna straordinaria e decide persino di imparare a costruire le esche per capire meglio il suo talento: “Io sento di poter raccontare questa storia perché tra me e il personaggio ci sono molti punti in comune, e perché la breve trama è adatta alle mie qualità naturali di autrice. Non so scrivere voluminose saghe che attraversano i secoli. Sono una persona che dà il meglio nel descrivere un mondo circoscritto”. Entriamo così nel cantiere creativo di Helen Humphreys, nelle sue ricerche sulla vita di Megan, sulla sua famiglia, sui luoghi che ha abitato, a anche sul modo in cui la scrittrice pensa di colmare i buchi della storia. “Devo trasformarmi in Megan Boyd e, nel farlo, devo lasciarmi alle spalle me stessa e il mio mondo. Qualunque preoccupazione mi tormenti dev’essere trasformata in carburante per la narrazione, senza però trovare spazio nella narrazione vera e propria. Questo è il gioco di prestigio che si crea quando si scrive un romanzo. Il vero problema è far scomparire se stessi”. Helen Humphreys non si preoccupa solo dei suoi personaggi ma anche di noi lettori, che dobbiamo poterci fidare della storia perché “la narrativa è calibrata e rassicurante come non può esserlo la vita, e forse è per questo che leggiamo, ed è per questo che io scrivo”. Della seconda parte del romanzo non vi dico perché la magia del libro sta proprio nel passaggio tra le due parti di cui è composto. Vi dico solo che sia che siate lettori della Humphreys sia che non la conosciate, non potete non leggere questo meraviglioso libro.

Aidan Chambers, CONFESSIONI DEL GIOVANE TIDMAN, Rizzoli, 2018 (traduzione di Beatrice Masini)
“Farò l’insegnante, ora lo so, non solo perché è un modo per guadagnarmi da vivere (mentre cerco di diventare scrittore). E non solo perché potrei essere bravo (mentre non sarei bravo come minatore, falegname o becchino). Ma perché l’istruzione è il solo modo per spezzare il circolo chiuso nel quale la gente crede di non poter mai essere nient’altro che ciò che è nata. Di dover sapere qual è il suo posto e non chiedere mai di più. L’istruzione e un buon insegnante mi hanno tirato fuori dal circolo chiuso. Se posso aiutare anche gli altri a infrangerlo, vale la pena farlo. Ed è stato un libro a mostrarmi ciò che sono. Se posso scrivere anche soltanto un libro che aiuti gli altri a scoprire quello che sono vale la pena di fare anche quello”. E’ un romanzo a quadri, un memoir, un inno alla lettura e un vademecum che tutti gli insegnanti dovrebbero leggere il nuovo libro di Aidan Chambers che ha anche una originale storia editoriale perché grazie a Beatrice Masini è uscito in Italia prima ancora che in Inghilterra. E’ un libro prezioso CONFESSIONI DEL GIOVANE TIDMAN, con una ricchezza di piani di lettura che spaziano dal rapporto padre-figlio a quello insegnante-allievo, dalla guerra alla vita di provincia, dall’amore per i libri e le parole alla ricerca del proprio talento. E Tidman, nonostante un faticoso avvio scolastico (per il suo primo maestro è lento e incapace di imparare), saprà già a quindici anni di voler fare lo scrittore. Grazie all’incontro con un bravo insegnante, con un coetaneo lettore e con la biblioteca. E ancora grazie a una madre che incoraggia il suo unico figlio a uscire da un destino segnato, e a un padre che alla fine cerca di comprendere un figlio così diverso da lui, ma che in realtà si porta dentro il rispetto per la fatica del lavoro manuale e il ricordo della cittadina mineraria da cui viene la sua famiglia. CONFESSIONI DEL GIOVANE TIDMAN è un libro che ogni lettore dovrebbe leggere e poi tenere sempre sul comodino perché come dice il protagonista: “Quando leggo libri di cui m’importa sul serio... mi sento a casa. Sento che è quello che devo fare”.

Elizabeth Jane Howard, ALL’OMBRA DI JULIUS, Fazi, 2018 (traduzione di Manuela Francescon)
Orfani dei Cazalet ci possiamo benissimo consolare con gli altri libri della scrittrice inglese in cui ritrovare la sua profonda capacità di raccontare i sentimenti anche più nascosti e i complessi rapporti tra le persone. Qui incontriamo due sorelle, Cressida ed Emma, che condividono un appartamento a Londra dove la maggiore prosegue stancamente la sua mediocre carriera di pianista e la minore lavora nella casa editrice di famiglia. Le loro vite private non possono essere più diverse: Cressida passa da un amante all’altro dopo essere rimasta vedova dopo solo un anno di matrimonio; Emma è quasi spaventata dagli uomini e ne sta volentieri lontana anche se sogna ancora il grande amore come un’adolescente. Il Julius del titolo è il padre delle ragazze, morto eroicamente nella seconda guerra mondiale. La sua ombra pervade le esistenze delle figlie ma anche quella della madre, che lo aveva tradito con il giovane Felix, che ora ricompare dopo vent’anni a scompigliare equilibri quanto mai fragili. Sullo sfondo ma sempre ben ricostruista la Londra degli Anni Sessanta, la ripresa economica, il lavoro delle donne e il distacco con la vita di provincia che sembra rimasta immutabile. Come sempre la sensazione di leggere una grande scrittrice, che con poche parole tratteggia caratteri e situazioni come pochi sanno fare.

Cyril Hale, UN DELITTO INGLESE, Sellerio, 2018 (traduzione di Sofia Merlo)
Ecco un libro perfetto per un viaggio aereo o quando si ha bisogno di una lettura intrigante ma poco impegnativa. Siamo in un tipico castello inglese con relativo conte ormai alla fine della sua vita che decide di riunire quello che rimane della sua famiglia per l’ultima cena di Natale. Arrivano così il figlio, erede designato della casata, a capo di un movimento neonazista, un cugino lord, una cugina con marito in forte ascesa, un giovane donna innamorata del figlio del conte. Ad occuparsi di tutto il fedele e anziano maggiordomo che nasconde però un segreto. Quando finalmente (!) arriva il delitto facciamo anche noi parte della turbolenta famiglia e faremo fatica a capire i movimenti del colpevole. Un libro dal sapore classico.

Polly Clark, LARCHFIELD, Atlantide, 2018 (traduzione di Federica Bigotti)
“Nella maggior parte dei casi siamo per i nostri genitori dei perfetti sconosciuti. Stazionano sul limite della nostra consapevolezza adulta, per loro siamo impenetrabili quanto il mare”. Davvero una bella scoperta il romanzo della scrittrice canadese, scozzese di adozione, che unisce una storia intensa e mai banale all’amore per la poesia. E’ infatti una poetessa o meglio sono due poeti i protagonisti di LARCHFIELD, ambientato nella cittadina di Helensburg sulle coste della Scozia. Qui seguiamo la storia di Dora, giovane poetessa e scrittrice che lascia la vita accademica e culturale di Londra per trasferirsi in provincia in seguito al matrimonio con Kit e per mettere al mondo il loro primo figlio. Poi facciamo un salto temporale e ci troviamo negli anni Trenta per incontrare W.H. Auden, il famoso poeta che Dora scopre aver insegnato al college locale, appunto Larchfield, all’inizio della sua carriera. Per cercare di ritrovare un briciolo della sua vita precedente e per sottrarsi alla cattiveria dell’anziana e fintamente pia vicina di casa, la giovane donna, durante le lunghe passeggiate con la carrozzina, sogna di scrivere sulla permanenza di Auden nella cittadina scozzese. Le due esistenze, anche se lontane, sono in perfetta sintonia e la maternità e l’insegnamento sembrano avere le stesse ansie e aspettative: “Tutto ciò che lui può fare è piantare nelle loro teste qualche piccolo seme di pensiero indipendente. Si sente male per loro, e per ciò che li aspetta: tutto il marciume e la corruzione. Ma loro si ricorderanno di quella lezione su Lawrence, e di quello che riesce a infilarci dopo: la lezione su Wilfred Owen, e quella su Edward Thomas. Da qualche parte nei loro cuori porteranno ciò che lui gli ha mostrato: che ci sono tanti modi di essere uomini, e tanti modi di essere coraggiosi”. Abitato oltre che dai protagonisti da personaggi sempre ben definiti e difficili da dimenticare, come la moglie del preside di Larchfield Daphne (“Non voglio che tu faccia una vita come la mia, Wystan... neanche posso dirti quanto passi velocemente. Alzi lo sguardo dalla tua solitudine e... è come se avessi dormito per tutto lo spettacolo della mia vita e mi fossi svegliata quando il teatro era già vuoto”) e Christopher Isherwood, che Auden incontra a Berlino, per non parlare della terribile Mo, il romanzo è anche una riflessione mai banale sul talento e il senso della propria vita.

Annie Ernaux, UNA DONNA, L’orma, 2018 (traduzione di Lorenzo Flabbi)
E’ difficile scrivere dei libri di Annie Ernaux perché c’è una tale precisione nella sua prosa e una così grande profondità nelle sue considerazioni che ogni parola al confronto sembra banale. Lasciamo quindi a lei definire questo suo percorso di racconto personale che diventa letteratura: “Questa non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia. Era necessario che mia madre, nata tra i dominati di un ambiente dal quale è voluta uscire, diventasse storia perché io mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata”. Dopo IL POSTO dedicato alla figura del padre in UNA DONNA, come sempre magnificamente tradotto da Lorenzo Flabbi, la scrittrice francese ci parla di sua madre per rappresentare tutti i sentimenti che segnano il rapporto madre-figlia: “Per me mia mamma è priva di storia. C’è sempre stata... Vorrei cogliere anche la donna che è esistica al di fuori di me, la donna reale, nata in un quartiere contadino di una piccola città normanna e morta nel reparto geriatrico di un ospedale dell’hinterland parigino. Ciò che spero di scrivere di più esatto si situa probabilmente all’intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia. Il mio progetto è di natura letteraria, poiché si tratta di cercare una verità su mia madre che può essere raggiunta solo attraverso le parole”. Come pochi scrittori sanno fare e con una scrittura come sempre asciutta e dolorosamente densa, Annie Ernaux riesce con poche parole a dare voce alla sofferenza del lutto e ai sentimenti di chi è rimasto: “Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’unico legame con il mondo da cui provengo”.

Marguerite Duras, AH! ERNESTO, Rizzoli, 2018 (traduzione di Cinzia Bigliosi)
Magnificamente curato da Cinzia Bigliosi, AH! ERNESTO è l’unico racconto per ragazzi scritto dalla grande scrittrice francese. In questa prima edizione italiana è accompagnato dalle illustrazioni vivide e potenti di Katy Couprie, una «camera delle meraviglie» fantastica e metafisica che ne esalta il testo irriverente e quasi rivoluzionario. Sì perché il piccolo Ernesto dopo un solo giorno di frequenza decide di non andare più a scuola perché “a scuola gli insegnano cose che non sa”. Esilarante il confronto che segue al cospetto del maestro indignato che però non si era neppure accorto del bambino. I genitori cercano di capire cosa fare con questo figlio al di fuori delle regole ma alla fine ammiccano alla sua ribellione. Un libro da leggere insieme grandi e piccoli e da adottare in tutte le scuole.

Nona Fernández, LA DIMENSIONE OSCURA, gran vía, 2018 (traduzione di Carlo Alberto Montalto)
“L’immaginazione è la chiave per aprire la porta al di là della quale si trova questa dimensione, una dimensione sonora, una dimensione visiva e una dimensione mentale. Vi trovate in un mondo fatto di sostanza e ombre, di oggetti e di idee. State per arrivare ai confini della realtà”: è un libro insieme immediato e complesso quello che ci regala Nona Fernández, una delle voci più interessanti della letteratura contemporanea. Intanto perché da voce alla generazione che era bambina durante la sanguinosa dittatura di Pinochet ma soprattutto perché sottolinea che nessuno di noi nasce immune dalla storia del suo Paese: “Sono nata con queste scene installate nel corpo, inserite in un album di famiglia che non ho scelto né riempito”. Come in un film la scrittrice cilena utilizza zoom e primi piani, sfondi e lunghe narrazioni per raccontarci le vittime ma anche i carnefici. Come l’uomo delle torture che, pentito, si rivolge a una giornalista per raccontare gli orrori quotidiani della dittatura, le connivenze, il superamento di ogni morale e umanità: “Non è vero che i criminali sono persone brillanti. Ci vuole una gran bella dose di stupidità per manovrare le componenti di un congegno così grottesco, assurdo e crudele. Bestialità travestita da opera d’ingegno. Individui piccoli, con teste piccole, che non comprendono l’abisso altrui. Non hanno linguaggio né strumenti per farlo. L’empatia e la compassione sono segni di equilibrio, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di cambiare pelle e indossare maschere è un esercizio d’intelligenza allo stato puro”. Libro lucido e intenso, LA DIMENSIONE OSCURA è la dimostrazione del grande valore e potere della letteratura che Nona Fernández sa destreggiare con maestria, alternando lo sguardo personale a quello professionale senza mai perdere di vista il senso di quello che racconta. Così il romanzo riesce a mettere in scena fatti e sentimenti senza mai essere eccessivamente drammatico e senza perdere uno sguardo fiducioso sul futuro dell’umanità. Mettendo in luce cosa significa essere umani e il confine tra il bene comune e l’interesse privato. Senza dimenticare che “... non è poi così difficile trasformarsi in ciò che più temiamo”.

Yewande Omotoso, LA SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO, 66thand2nd, 2018 (traduzione di Natalia Stabilini)
“Ho deciso che il matrimonio era come ordinare in un ristorante dove parlano un’altra lingua. Ti convinci che sia pesce, troppo imbarazzata e orgogliosa per chiedere conferma in inglese. E poi ti senti mancare quando il cameriere ti mette davanti un piatto con qualcosa di sanguinolento e misterioso. Qualcosa che, lo sai per certo, non riuscirai mai a mandare giù, neanche con tutto il tuo impegno”. Non si sa da dove cominciare per raccontare lo straordinario e vivace romanzo di Yewande Omotoso. Perché l’autrice nigeriana riesce nello stesso modo avvincente ed efficace a mettere in scena la difficile convivenza tra bianchi e neri in Sudafrica, il peso del passato, l’emancipazione femminile, la maternità e la mancata maternità, il matrimonio, la vecchiaia, l’amicizia e l’odio profondo. E tanto altro, attraverso il rapporto quasi sempre burrascoso tra Hortensia, donna fiera della sua pelle nera, guru del design dopo un’infanzia difficile e moglie di un uomo bianco altrettanto ricco e Marion, tipica rappresentante della buona società bianca, moglie e madre integerrima. Ma anche architetto di grande successo che si vede costretta a lasciare l’amata professione per i figli. Le due donne vivono in due ville confinanti e si detestano già dal primo incontro. Il loro rapporto si evolverà e darà a entrambe uno sguardo diverso sul mondo.

Jason Reynolds, NIENTE PAURA LITTLE WOOD!, Terre di mezzo 2018 (traduzione di Giuseppe Iacobaci)
Ha il sapore del classico il bel libro di Reynolds che rimanda alla tradizione del romanzo di avventura americano. La storia ci viene raccontata da Genie, undici anni, lasciato per un mese con il fratello maggiore Ernie dai nonni che ha conosciuto solo al telefono. Il passaggio da New York alla casa di campagna sperduta e senza segnale wi-fi è quasi uno shock per i ragazzi, ma mai come la scoperta che il nonno porta sempre gli occhiali scuri perché ha perso la vista. L’estate dei due fratelli è, come nella tradizione dei romanzi di avventura, fatta di continue scoperte e nuove paura da affrontare. Dall’affascinante Tess che fa orecchini con i tappi delle bottiglie alla misteriosa casa con un albero in mezzo piena di uccelli; dalla raccolta e vendita dei piselli alla stanza chiusa dove si rifugia il nonno. Ogni giorno un dubbio, un nuovo pensiero, una domanda che diligentemente Genie annota sul suo taccuino. Il passato poi sembra tornare come i vecchi rancori tra il nonno e il padre dei due fratelli. E sempre quasi sfumato sullo sfondo il ricordo dello zio Wood, rimasta ucciso nella guerra del Vietnam. Un romanzo che racconta la crescita ma anche quanto hanno da imparare gli adulti dai ragazzi.

Michael Frank, I FORMIDABILI FRANK, Einaudi, 2018 (traduzione di Federica Aceto)
“In un certo senso penso che sia questa la lezione fondamentale che i rapporti familiari prolungati hanno da offrirti: impari ad andare avanti, nonostante tutto, senza aspettarti che la gente diventi ciò che non è capace di diventare. Oppure vai a vivere in un posto lontanissimo da quello dove sei cresciuto e non torni più indietro”. I FORMIDABILI FRANK dello scrittore e giornalista americano Michael Frank è un catalogo sentito e ragionato dei rapporti familiari a partire dalla complessità del matrimonio sino alle maternità e paternità più o meno biologiche. Michael Frank infatti scrive un vero memoir, raccontando attraverso il suo sguardo gran parte della sua vita e in particolare dell’infanzia in relazione soprattutto al rapporto con gli zii, Harriet e Irving, famosi sceneggiatori dell’età d’oro di Hollywood. Ma I FORMIDABILI FRANK non è una cronaca, seppure affascinante, di una famiglia senza dubbio unica (“Un fratello e una sorella sposarono una sorella e un fratello. La coppia piú anziana non aveva figli e quindi quella più giovane glieli prestava...”), piuttosto un percorso emotivo e intellettuale insieme per restituirci una storia dove ognuno può ritrovare aspetti della propria famiglia. Così che una volta resa pubblica, la storia di Michael diventa in qualche modo universale ma nello stesso tempo la letteratura la definisce tanto da renderla ancora più intimamente sua. E la parola memoir dispiega in questo libro tutte le sue tante sfaccettature perché la memoria è protagonista di questa storia dove ciascuno ricorda, spesso a suo favore, i fatti del passato. Michael Frank con una scrittura apparentemente scorrevole, ma in realtà molto accurata e pensata, dove non manca mai una sottile e affettuosa ironia, riesce a ricreare il mondo della sua straordinaria famiglia, dove assurge - e non può essere diversamente - a ruolo da protagonista la zia Harriet: “Lei seduceva e sventrava, regalava generosamente e prendeva con arroganza, santificava e demoliva, era un angelo e un diavolo, era un mistero e un fardello; e avanti così, per sempre”. Una zia che avvolge e travolge e che per Michael è prima un giro in giostra inebriante (“I miei zii erano dei maghi... Trascorrere del tempo con loro significava mondi che si aprivano per rivelare altri mondi, all’interno di mondi all’interno di altri mondi”), poi invece un angosciante salto nel vuoto perché Harriet da una parte fornisce a Michael gli strumenti per capire e leggere il mondo ma dall’altra gli impedisce di usarli per confrontarsi con lei. Frank indaga la complessità dei rapporti familiari, sottolineando come ci sia sicuramente una sorta di riconoscimento tra gli zii e Michael, una sorta di filiazione di elezione, ma purtroppo sono gli adulti che non sanno gestire questa profonda corrispondenza. E non capiscono le conseguenze di quello che fanno per il nipote e che comporta il suo isolamente sociale ma anche rapporti difficili nella sua stessa famiglia. È lo scotto che si paga ad essere formidabili, direbbe la zia Harriet, che in qualche modo regala al nipote anche le “armi” per cercare di preservare il suo equilibrio: la lettura e poi la scrittura: “... sono assolutamente strabiliata da quello che hai scritto. È tra i più gradevoli racconti di viaggio che io abbia mai letto. Così raffinato, preciso e acuto. E una lingua così evocativa, contenuta. E naturalmente, eh eh, c’è anche una certa persona di nostra conoscenza che a un certo punto arriva a portare l’allegria. Devo dire che non sapevo proprio che tu avessi un simile talento. Sei uno scrittore. Uno scrittore vero. Altroché se lo sei”. E su questo non possiamo che darle ragione.

Pavol Rankov, ACCADDE IL PRIMO SETTEMBRE (O UN ALTRO GIORNO), Safarà, 2017 (traduzione di Alessandra Mura)
Devo ringraziare il festival di Gavoi per avermi invitato e affidato l’incontro con Pavol Rankov, altrimenti mi sarei persa la lettura di un libro che posso annoverare tra i migliori che io abbia mai letto. Sulla copertina di ACCADDE IL PRIMO SETTEMBRE troviamo una piscina e un tuffatore che sta per lanciarsi da un trampolino che è in realtà la canna di un fucile. Nel bel romanzo di Rankov si incrociano le esistenze individuale e la storia con la S maiuscola. Peter, ungherese, Ján, ceco, e Gabriel, ebreo, sono tutti irrimediabilmente innamorati della slovacca Mária. Siamo nel 1938, in una grande piscina pubblica a Levice, piccola città della Slovacchia al confine con l’Ungheria, e i tre giovani decidono che sarà il vincitore della gara di nuoto a corteggiare per primo la ragazza. È il primo settembre e da allora Rankov seguirà i destini dei tre amici più Maria anno dopo anno sino al 1968. La seconda guerra mondiale, la persecuzione degli ebrei, il comunismo, la divisione della Cecoslovacchia, la nascita dello stato di Israele, l’emigrazione verso gli Stati Uniti: attraverso le vicende dei tre amici percorriamo decenni cruciali della storia mondiale vedendo come i grandi avvenimenti storici influenzano le esistenze comuni. ACCADDE IL PRIMO SETTEMBRE è un romanzo denso e intenso che mostra come l’amicizia che non conosce confini, razze, generi, può essere il sentimento che salva non solo le singole esistenze ma l’intera umanità.

Fatos Kongoli, BOLERO NELLA CASA DEI VECCHI, Controluce, 2017 (traduzione di Marcello Palestina e Luigi Ruggeri)
Da una parte il romanzo di Fatos Kongoli, BOLERO NELLA CASA DEI VECCHI, potrebbe essere ambientato in una elegante e ricca località vicina al mare in un qualsiasi paese capitalista: una grande villa, due anziani ed eleganti conuigi, i loro figli realizzati e potenti, poco distante una grande casa sulla spiaggia luogo di magnifiche feste. Poi conosciamo Parashqevi e ci sembra di essere tornati al medioevo se non peggio perché la donna che viene assunta per occuparsi del signor Irfan e della signora Firdus vive un’esistenza triste ed isolata e solo alla fine conosceremo il suo devastante passato, legato anche ai moti del 1997 in Albania. Da una parte quindi una società ricca e basata sul potere anche all’interno della famiglia, dall’altra parte le persone comuni che faticano a portare a casa uno stipendio sufficiente per vivere. Ma nonostante il divario sociale Parashqevi si occupa con amore dei due anziani coniugi, legati al loro passato, che spesso comunicano da un piano all’altro della villa attraverso delle lettere segrete. E mentre risuona nella casa il pianoforte che il signor Irfan non abbandona mai, Parashqevi entra in contatto con gli altri membri della famiglia e in particolare con la bellissima Dirina, seconda moglie di Nardi, il figlio dei due anziani. Considerato uno dei migliori romanzi in lingua albanese, BOLERO NELLA CASA DEI VECCHI mostra il talento di Fatos Kongoli, tra i maggiori esponenti della letteratura europea contemporanea, capace di restituire le esistenze comuni all’interno della visione sociale e politica del suo paese.

Antonio Dikele Distefano, NON HO MAI AVUTO LA MIA ETÀ, Mondadori, 2018
“La nostra era una tristezza genetica, fatta di padri che raccomandano i figli in fabbrica e la mattina si alzano insieme per andare al lavoro. Quasi rassegnati, consapevoli di essere tra quelli che erano al mondo senza una vita. Eravamo capri espiatori di un sistema basato sulla paura. Il sistema che stabiliva i crimini che non avevamo commesso e per i quali venivamo giudicati ogni giorno. Il sistema che sosteneva l’idea che il colore nero rappresentasse qualcosa di negativo, la morte... La nostra era una tristezza genetica. Eravamo generazioni traumatizzate dall’idea di essere davvero il male”. Proprio quando sembra che le parole suonino inutili e non riescano più a raccontare la realtà ecco arrivare un libro e uno scrittore che sanno invece farlo. NON HO MAI AVUTO LA MIA ETÀ di Antonio Dikele Distefano è da una parte una conferma del talento del giovane scrittore italiano dall’altra una sorpresa per la maturità stilistica e la capacità di misurarsi con un romanzo dalla struttura tradizionale. Del suo talento Antonio Dikele Distefano aveva dato prova giovanissimo scrivendo i testi delle canzoni sue e per altri e con FUORI PIOVE DENTRO PURE PASSO A PRENDERTI che prima di essere pubblicato da Mondadori aveva avuto migliaia di lettori in rete. Già da quel primo libro si capiva che il ragazzo ravennate di origini angolane non era un fenomeno effimero nato dai social e NON HO MAI AVUTO LA MIA ETÀ lo dimostra pienamente. Il romanzo racconta gli anni dai sette ai diciotto di un ragazzo senza nome, chiamato dagli amici Zero. La sua vita è fatta di abbandoni e spostamenti, del legame con la sorella Stefy, dell’impossibilità di essere bambino, della paura del giudizio altrui che alla fine riesce a convincerti che comunque hai fatto o farai qualcosa di male: “Avrei voluto per tutta la mia adolescenza che a fotografare i neri fossero stati occhi neri, perché la società continuava a dire che noi eravamo criminali, invasori, sporchi senza che nessuno potesse ribattere. Qualcuno moriva in mare, qualcuno leggendo un giornale, andando a scuola tra la gente, tra gli insulti. Avremmo voluto andarcene subito da quei ristoranti, da quelle discoteche, dai camerini di quei negozi dove i commessi ci guardavano attenti appena voltavamo le spalle. Avrei voluto andare via dall’Italia, via da questa strana casa dove sono nato e cresciuto e che mi ha sempre chiesto dove vivessi e da dove fossi venuto”. NON HO MAI AVUTO LA MIA ETÀ è un romanzo necessario perché è la voce di una generazione non solo inascoltata ma del tutto incompresa, gravata di doveri ma privata dei diritti, una generazione di italiani che amano il nostro paese ma dal quale si sentono sempre respinti. Antonio Dikele Distefano li racconta grazie a una voce intensa e potente, che non induce mai nel pietismo ma fotografa con grande veridicità la realtà. Ma NON HO MAI AVUTO LA MIA ETÀ è importante anche perché ci conforta sul futuro della narrativa italiana e sulla sua capacità di saper raccontare il nostro paese. Grazie a una scrittura che ha superato la frammentarietà e le frasi a effetto delle opere precendenti, senza perderne però l’intensità e all’abilità con cui lo scrittore segue la crescita del suo personaggio senza mai tradirne o forzarne la personalità. Ed evitando di cadere nel facile sentimentalismo o nella banalità pur regalandoci un libro che rimarrà a lungo dentro di noi. Confortandoci sul fatto, se ce ne fosse bisogno, che la letteratura ha ancora il grande potere di dare voce a chi non ce l’ha: “Non ringrazierò mai ciò che non mi ha ucciso, ciò che avrebbe dovuto fortificarmi. Se avessi potuto, avrei scelto di essere debole, ma con meno mancanze. Per una volta avevo creduto che sarebbe stato facile e mi ero sbagliato. Noi non eravamo la strada, né i marciapiedi del nostro quartiere quando fuori pioveva. Noi eravamo la pioggia, le gocce che il giorno dopo non c’erano più”.

Beverley Nichols, MERRY HALL, Lindau 2017 (traduzione di Natalia de Martino)
“C’e chi s’innamora di una donna; c’è chi si innamora della morte. Io mi innamoro dei giardini, che in pratica è come innamorarsi di tutte e tre le cose allo stesso tempo. Perché un giardino è come un’amante e il giardinaggio è un’unione di tutte le arti, e sarei molto sorpreso se non fosse proprio un giardino a condurmi alla morte un giorno o l’altro... Anzi, forse, quando queste parole saranno pubblicate, mi avranno già trovato a galleggiare sotto un cespuglio di ninfee James Brydon, una varietà che i cataloghi descrivono come caratterizzata da un colore 'rosa antico intenso che alle volte tende a un vivace rosso cremisi'. Questo è un ottimo esempio della prosa in cui saranno senza dubbio scritti molti passaggi di questo libro. Quando inizio a scrivere di fiori perdo il senso della misura e ormai è davvero troppo tardi per farci qualcosa. Non potere dire di non essere stati avvertiti”. Come si fa dopo questo inizio a non proseguire la lettura di MERRY HALL il romanzo dello scrittore inglese Beverley Nichols che l’editore Lindau ha riscoperto per i lettori italiani? In realtà non serve avere il pollice verde o una passione per fiori e piante per godersi questo romanzo scanzonato e denso insieme che ci regala un personaggio che dopo poche righe avremo annoverato tra i nostri amici più cari. Perché non si può non appassionarsi alla vita di questo scrittore e giornalista inglese che cerca una casa ma soprattutto un giardino. Dopo innumerevoli delusioni e un ironico vademecum sul linguaggio degli agenti immobiliari, finalmente trova la casa dei suoi sogni, o... quasi. Perché l’antica dimora è stata deturpata dal precedente proprietario, il giardino è in abbandono ma come spesso accade un segnale anche minimo decide spesso per noi. Così succede al protagonista che decide di comprare la casa, nonostante il parere negativo dell’amico che lo accompagna, solo perché vede dei gigli fioriti a dispetto dell’incuria. Comincia così la grande avventura, anche per i lettori, che si troveranno coinvolti nelle scelte botaniche del protagonista ma soprattutto negli incontri o meglio scontri con la varia umanità del luogo. A partire da un vecchio e quasi mitologico giardinierie, sino alle vicine di casa ben più infestati delle peggiori piante. Senza contare due gatti molto vivaci e l’attività sociale del villaggio. Ma MERRY HALL non è solo un divertente ritratto della passione degli inglesi per i giardini, ma insieme uno spaccato di vita a cavallo della seconda guerra mondiale e una considerazione non banale sulle differenze di classe. Alla fine per gli amanti dei fiori sarà un’immersione inebriante in un catalogo mirabolante di forme e colori, ma persino i più allergici al verde guarderanno con occhi diversi anche il fiore spontaneo più banale.

Davide Longo, COSÌ GIOCANO LE BESTIE GIOVANI, Feltrinelli, 2018
E’ difficile dare una definizione precisa del nuovo romanzo di Davide Longo, COSÌ GIOCANO LE BESTIE GIOVANI, appena pubblicato da Feltrinelli. Ma del resto serve a poco sapere se prevale la trama gialla, il racconto civile o la forza di un personaggio dal nome strampalato come il commissario Arcadipane alle prese con i primi disturbi della mezza età, perché il libro dello scrittore piemontese è tutto questo e molto altro ancora. Già dalle prime pagine si incastrano due storie, una che prende il via di volta in volta nei tre prologhi ai tre capitoli del romanzo e l’altra che inizia subito come un classico giallo. Il commissario Arcadipane infatti viene chiamato in un cantiere nelle campagne torinesi dove sono stati rivenuti dei cadaveri. Il commissario non fa in tempo a prendere un bottone della Rifle nella fossa comune che il caso viene passato ai “milanesi” perché si tratta probabilmente di resti storici, risalenti alla seconda guerra mondiale (“Un caso su mille però, il resto è tutta roba così: partigiani, fascisti, rese dei conti durante o dopo la guerra... Eppure medico legale, scientifica, identificazione, scartoffie...”). Peccato che il bottone e il femore che Arcadipane riesce a fare analizzare smentiscono questa ipotesi e così il commissario decide di proseguire a suo rischio e pericolo l’indagine e si rivolge a Corso Bramard, il suo vecchio capo e mentore che si è rifugiato sulle colline dopo l’uccisione della moglie e della figlia, al centro del precedente romanzo di Davide Longo, IL CASO BRAMARD. A loro si unisce la giovane e tosta Isa e così scoprono che il femore analizzato appartiene al principale sospettato per l'incendio alla sede torinese dell'MSI dell’ottobre 1974, in cui restò ucciso uno dei militanti. Si mettono allora sulle tracce delle bestie giovani del titolo, per lo più di buona famiglia, che erano coinvolti nell’attentato. Sono molti i livelli di lettura e le declinazioni del romanzo ma una è sicuramente quella di raccontare una parte recente della nostra storia mai veramente metabolizzata: “Dicono che spagnoli e italiani abbiano tanto in comune... ma non è vero. Qui c’è sempre stato il senso della tragedia, un gusto per il dolore ben sentito, ben portato, una gran sobrietà della memoria delle cose terribili che sono successe a questo paese, mentre da noi... è difficile che qualcosa non finisca nel ridicolo, non credete?”. Il tutto con un liguaggio diretto, denso e ben costruito che molto concede anche all’ironia: “Arcadipane nota il fuoristrada di un giornalista della cronaca di Torino. Coglione, ma innocuo. Uno che pensa molto prima di pubblicare quando, nel suo caso, farebbe meglio a stampare la prima cosa che gli viene in mente. Se la cantina fa schifo, meglio non farci stagionare troppo i salami”.

Colum McCann, TREDICI MODI DI GUARDARE, Rizzoli, 2018 (traduzione di Marinella Magrì)
La lettura di TREDICI MODI DI GUARDARE di Colum McCann innesca una serie infinita di sentimenti, un catalogo imprevedibile di emozioni a partire da quella di trovarsi di fronte a un grande scrittore. Perché McCann trasmette insieme un senso di profonda familiarità ed empatia con i personaggi e la consapevolezza della magia che riesce a creare la letteratura. Tanto che, parafrasando il titolo, meriterebbe anche tredici letture per apprezzarne appieno la ricchezza. Il titolo, come tutto nel libro, non è casuale e lo sguardo, il guardare, è al centro delle storie, un racconto lungo e tre brevi, che compongono l’ultima fatica dell’autore irlandese, naturalizzato newyorkese. In una nevosa Manhattan ci troviamo infatti quando conosciamo J. Mendelssohn, anziano giudice della Corte Suprema, rimasto vedovo dell’amata moglie Eileen. Il suo è uno sguardo lucido e ironico sulla situazione in cui si trova, a partire dal freddo che lo accoglie al risveglio nella pur lussuosa dimora: “Tutti questi condotti di vapore sotterranei e cisterne di petrolio e riunioni di amministratori, e ingegneri e premi Nobel e architetti sputasentenze e specialisti del riscaldamento globale, un vero e proprio consorzio di cervelli, geni dal primo all’ultimo, eppure tutto quello che ti ritrovi la mattina è un clac clac terrificante. Dante nei sotterranei, intento ad avviare la caldaia”. Un altro sguardo è quello delle innumerevoli telecamere di cui l’indegno figlio dell’anziano giudice ha dotato l’appartamento e che inquadrano spesso la solare e solerte Sally, la badante di origine caraibica che vive con Mendelssohn: “Ha un odore tutto suo, un buon odore, simile alla cera per mobili, cara Sally da Tobago, o da Trinidad? E comunque che differenza fa? E poi, siamo onesti, gliene frega qualcosa a qualcuno? Ha davvero importanza che venga dal nord, dal sud, da sopra o da sotto, da est o da ovest, quando la questione pura e semplice è che il pannolone che lui indossa dev’essere tolto in tutta fretta e discrezione?”. Il racconto che apre la raccolta è così una descrizione insieme affettuosa e spietata della vecchiaia, grazie a un linguaggio preciso, immediato, ironico, ma anche elegante e ricco di riferimenti letterari, persino quando descrive le sitazioni più imbarazzanti: “Chi è che possiede questo corpo, questo piccolo rudere ripugnante, questa meshuggeneh, questa dimora dissennata? Chi ci consente questa sordida commedia? Divina non lo è di certo”. Ma TREDICI MODI DI GUARDARE è anche una denuncia senza sconti dell’ingiustizia sociale, una riflessione profonda sul rapporto tra vittima e carnefice, una discesa senza fondo nel rapporto genitori-figli. “Impossibile essere un bambino in eterno. Una madre lo sei per sempre” dice infatti Rebecca la protagonista di 'Sh'khol', dove le freddi acque dell’Atlantico sembrano scorrere anche nelle vene del lettore. In 'Trattato', il testo che chiude la raccolta, un'anziana suora sudamericana scopre per caso, una sera davanti alla TV, che l'uomo che decenni prima l'ha torturata ora fa il politico. Così lascia la casa in cui vive con altre religiose, “un piccolo profumato forno di amore e morte”, e intraprende un lungo viaggio per andare a... guardarlo negli occhi e scoprire che ha solo “lucidato le sue bugie”. “I poeti come i detective sanno che la verità è faticosa: non si ottiene per caso, è semmai frutto di cesello e di uno schiudersi lento, il prodotto di tempo e distanza e duro lavoro” dice a un certo punto del libro Colum McCann e TREDICI MODI DI GUARDARE dimostra il talento ma anche il grande lavoro dello scrittore per regalarci tanti sguardi sull’umanità e soprattutto su noi stessi perché “alla fine, comunque, ogni parola che scriviamo [e noi possiamo aggiungere che leggiamo, ndr] è autobiografica, soprattutto forse quando tentiamo di evitare l’autobiografismo. Malgrado tutti i suoi momenti immaginati, la letteratura agisce in modi inimmaginabili”.

Iwaki Kei, ARRIVEDERCI, ARANCIONE, e/o, 2018 (traduzione di Anna Specchio)
“Professore, io sono come un cane. Indosso un collare chiamato fedeltà che mi tiene legata al mio padrone, la mia patria. Niente e nessuno potrà mai spezzare la catena che ci unisce. Il giorno in cui sarò vecchia e il mio collo sarà così sottile da permettere al collare di sfilarsi, il giorno in cui la catena ormai arrugginita si spezzerà di colpo, sarà l’attimo in cui lascerò questo mondo e nel bene o nel male potrò ritenermi libera e sprofonderò nell’amore patriottico. Ma fino ad allora servirò fedelmente il demone di cui le ho già parlato, dalla prigione invisibile del paese straniero in cui sono rinchiusa come ribelle. Userò l’unica cosa che ho potuto portare con me dal mio paese d’origine e che mi dà nutrimento e con quella preparerò tutte le pietanze preferite dal demone e gliele servirò... Professor Jones, ecco che cosa rappresenta per me la mia lingua madre, il giapponese”. Sayuri è immigrata in Australia insieme al marito e si iscrive a un corso di inglese. Lì conosce Salima, fuggita dal suo paese africano funestato dalla guerra insieme ai due figli e al marito, che però la abbandona. Nella classe della generosa ed empatica insegnante dai capelli rossi siede anche Paola, di origine italiana ma sposata da trent’anni a un australiano. Le tre donne hanno vissuti e livelli culturali e sociali diversi ma tra loro si crea un legame che è il filo conduttore dell’intenso romanzo di Iwaki Kei, ARRIVEDERCI, ARANCIONE. Attraverso le vite delle tre donne la scrittrice giapponese riesce a trasmettere al lettore i sentimenti contrastanti di chi lascia il proprio Paese per trovare una vita dignitosa altrove: smarrimento e speranza, straniamento e gratitudine, solitudine e nostalgia. Ma anche il valore dell’amicizia che aiuta le tre donne a uscire dall’armatura che si erano costruite per sopravvivere. Così come pian piano cade la barriera linguistica, in seguito Salima e Sayuri si raccontano le loro storie così diverse ma uguali nel senso di estraneità che provano nel paese adottivo. Salima è quasi analfabeta, rimpiange i colori e la libertà del suo villaggio africano ma come la giovane donna giapponese che studiava all’università e sogna di diventare scrittrice, vuole dare un futuro migliore ai suoi figli ed è dotata di altrettanta volontà e intelligenza. Le due si ritrovano a lavorare fianco a fianco nel centro di inscatolamento di un supermercato, un lavoro pesante e impegnativo che permette però loro di mantenersi e non rinunciare alla loro dignità. Il corso di inglese per immigrati è il luogo dove si incrociamo i vari destini del romanzo tra cui quello di Paola, paciosa signora italiana che dopo trent’anni in Australia non padroneggia ancora la lingua e rimpiange il paese d’origine. Solo che quando decide di tornarci non trova più l’Italia dei suoi ricordi e soprattutto si sente anche lì “la straniera”. Ma ARRIVEDERCI, ARANCIONE vale la lettura anche solo per il personaggio di Salima, che nel corso della storia prende consapevolezza del suo valore e comincia a lasciar parlare i suoi desideri: “L’indomani avrebbe offerto al figlio più piccolo tutti i ricordi nei quali si era rinchiusa e che si era presa la briga di annotare e legare insieme con uno spago. Quanta pazienza e quanti sforzi le erano stati richiesti per arrivare ad ascoltare, parlare, leggere e scrivere in quella lingua straniera che aveva dovuto imparare come mezzo di sopravvivenza negli ultimi due anni ma che per il piccolo era diventata la lingua madre? Gli avrebbe comunicato tutti i suoi ricordi e avrebbe combattuto per lui... Lo avrebbe fatto per vedere il sole, l’unica cosa che non sarebbe cambiata ovunque fosse andata... 'Lo prenderò a tutti i costi. Quel colore arancione sarà mio e sarà caldo come il fuoco che scioglierà quell’anticonformista di ghiaccio'”.

Levi Henriksen, NORWEGIAN BLUES, Iperborea, 2017 (traduzione di Giovanna Paterniti)
Si può sfuggire al proprio talento? Secondo Jim Gystad, il protagonista di NORWEGIAN BLUES, il coinvolgente e ironico romanzo dello scrittore e musicista norvegese Levi Henriksen, ci si può provare. E così l’uomo, produttore discografico esperto di blues ma deluso dal suo mondo e dalle persone che lo infestano, decide di lasciare Oslo e i lussuosi studi di incisione per riciclarsi come elettricista sulle rive del fiume che lambisce la cittadina di Skogli. Qui affitta un piccolo cottage, fa bagni gelati, dedica mezza giornata agli impianti elettrici per potersi mantenere e cerca di ritrovare il filo della sua esistenza. Ma quando sembra aver trovato un precario equilibrio, anche grazie a sonore sbronze, mentre fa da padrino al battesimo del figlio di un amico, distingue nelle persone che cantano nella chiesa di Vinger i tre fratelli quasi ottuagenari Maria, Tulla e Timoteus Thorsen. Le loro voci gli procurano un'esperienza divina, un'epifania che lo fa sentire “vivo” con la stessa intensità di “chi è appena strisciato fuori dalla carcassa di un’automobile incidentata”. Tanto che rocambolescamente insegue i tre mentre lasciano la chiesa per avere un loro contatto e convincerli a incidere un nuovo disco. Ma i tre anziani musicisti non sono facilmente influenzabili e hanno ormai deciso di non cantare e suonare più in pubblico la loro musica religiosa. Grazie alle loro voci però Jim capisce che non può rinunciare al suo talento e alla sua passione e che riportare sul mercato il Trio Thorsen è la sua occasione per tornare veramente a fare quello che ama e alle sue condizioni. Ma di mezzo ci sono un vecchio ostinato, due cani poco amichevoli, una cava redditizia, un nipote avido e una casa da salvare. Il romanzo di Levi Henriksen, meritatamente candidato al Premio Acerbi 2018, è insieme una lettura piacevole e quasi comica e una profonda riflessione sul senso della vita. E ancora una denuncia di come la prospettiva del profitto economico come unico scopo stia rovinando il mondo musicale. E non solo. Lo scrittore norvegese dimostra una profonda conoscenza dell’ambiente discografico, ma ci regala anche un viaggio nel mondo della musica religiosa che è così familiare per il popolo norvegese che i cantanti biblici sono delle vere e proprie rockstar. Come i fratelli Thorsen che hanno alle spalle tournèe in tutto il mondo, compresi gli Stati uniti. Ma il romanzo ci fornisce anche uno sguardo lucido e a volte impietoso sulla società rurale norvegese, dal pregiudizio verso gli stranieri al ruolo sottomesso riservato alle donne. E per finire la voglia di ascoltare tutti i musicisti citati nel romanzo perché il libro sembra chiedere a gran voce la sua colonna sonora.

Nicole Krauss, SELVA OSCURA, Guanda, 2018 (traduzione di Federica Oddera)
“La cacciata dal paradiso è, nella sua parte essenziale, un fatto perpetuo, fuori del tempo. Voglio dire che la cacciata dal paradiso è, sì, definitiva, che la vita nel mondo è inevitabile, ma l’eternità del fatto (o per dirla in termini temporali: l’eterna ripetizione del fatto) ci rende possibile non solo il poter restare perennemente in paradiso, ma il restarci in effetti, e sempre, che noi lo si sappia o non lo si sappia quaggiù”: una volta chiuse le pagine del nuovo romanzo di Nicole Krauss SELVA OSCURA diventa chiara la citazione da Frank Kafka messa in esergo e anche il titolo dantesco. Leggere il romanzo è infatti insieme una discesa agli inferi e una passeggiata al Paradiso. Chi ha letto gli altri romanzi della talentuosa scrittrice americana e in particolare LA STORIA DELL’AMORE, non si meraviglierà degli incastri di storie, vicende, personaggi e del fatto che il tempo e la sua percezione sia uno dei protagonisti della storia. Che ci fa incontrare prima Jules Epstein, ricco avvocato newyorkese che decide di lasciare la moglie dopo trentacinque anni di matrimonio e tre figli e di alleggerirsi di tutte le ricchezze accumulate ossessivamente negli anni. E così abbandona il lussuoso appartamento di New York e intraprende un viaggio verso le sue radici ebraiche, soggiornando all'hotel Hilton di Tel Aviv, da dove un giorno scompare misteriosamente. L’immagine dello stesso hotel, un enorme cubo di cemento vista mare, ossessiona anche una giovane scrittrice americana, che vive a Brooklyn con marito e figli, e che a Tel Aviv passava le sue vacanze da bambina. Bloccata da una crisi creativa che è riflesso della crisi del suo matrimonio, la donna pensa che forse all’Hilton troverà l’ispirazione e qualche risposta. Così anche lei parte per Israele. Ma il viaggio vero lo fanno i lettori in questo romanzo straordinario che dimostra la vitalità della letteratura e il grande talento di Nicole Krauss. Che ci porta in un paese pieno di bellezza e contraddizione, violenza e filosofia, confini e libertà. E insieme indaga la personalità di due personaggi che si interrogano sulla vita in diverse età dell’esistenza, che ragionano sul matrimonio, sul loro posto nel mondo, su cosa significano l’arte e la letteratura. SELVA OSCURA non dà risposte ma fa molto di più: instilla nel lettore tantissime domande, innumerevoli riflessioni, apre continui punti di vista, senza risparmiare sorprese e colpi di scena. Grazie a una rete narrativa da subito irresistibile come il canto delle sirene e ugualmente pericolosa e alla mano sicura con cui la scrittrice americana ci immerge nella storia. “Un romanzo straordinario” dice Philip Roth e non si può che dargli ragione.

Jack Ritchie, IL GRANDE GIORNO, Marcos y Marcos, 2018 (traduzione di Sandro Ossola e Claudia Tarolo)
Forse il suo nome, Jack Ritchie, vi dirà, così alla sprovvista, poco, ma se aggiungo che ha scritto molti soggetti per i film di Walter Matthau e Alfred Hitchcock, allora scoprirete che in realtà lo conoscete. Nato nel 1922 a Milwaukee, il giovane Jack Ritchie fugge la vita di provincia e si arruola nell’esercito dove si scopre un grande lettore, soprattutto di gialli. Smessa la divisa, scrive a ventun anni il suo primo racconto e da lì non si fermerà più, scrivendo centinaia di racconti pubblicati e ripubblicati in tutto il mondo. Molti sono stati usati dal cinema: uno tra tutti “È ricca, la sposo e l’ammazzo”, con Walter Matthau e Elanie May. Altri fornirono lo spunto ai celebri telefilm da brivido di Alfred Hitchcock. IL GRANDE GIORNO è una nuova antologia di racconti con numerosi inediti. La cifra di Richtie è mischiare sapientemente giallo, mistero e umorismo nero. La sua missione, spesso raggiunta, è quella di stupire sempre il lettore, di metterlo a proprio agio per poi colpirlo a tradimento e alla fine divertirlo. A Jack Ritchie non mancano certo la fantasia e la capacità narrativa e così in un racconto ci troviamo in un elegante salotto dove un killer sta per uccidere il corrotto George Franklin, che dopo aver saputo per quanto è stato assoldato raddoppierà la posta per far uccidere il mandante. Ma la fregatura è in agguato. Poi ci troviamo in una misera prigione dove un detenuto politico deve essere sacrificato per il bene comune. Ma lui non ci sta e trova sempre nuove strategie per non essere giustiziato. Accomodati in un vetusto ed enorme castello assistiamo poi alla convivenza tra i tre cugini che hanno ereditato l’antica dimora. Peccato che uno dopo l’altro vengano uccisi e quello rimasto non capisca cosa sta succedendo ma soprattutto dove finiscano le sue contate sigarette. Ritroviamo il clima glamour e raffinato di molte ambientazioni hitchockiane in “Fai lavorare le dita” dove una donna molto affascinante assolda un detective privato per ritrovare lo zio. Ma l’investigatore presto scopre che la sua cliente non gli ha detto tutta la verità. IL GRANDE GIORNO si chiude, forse per risollevarci un po’ da omicidi e amari ma quanto mai plausibili colpi di scena, con “È sempre stagione”, una romantica e “pilotata” storia d’amore o forse... due. Inutile dire che tutti e quattordici i racconti di IL GRANDE GIORNO potrebbero essere altrettanti soggetti per il cinema, ma in realtà lo sono già nella mente del lettore. Perché lo scrittore americano in questo è un grande maestro: nel tratteggiare in poche righe un personaggio, nel creare con poche parole un ambiente, nel far stare nello spazio di un racconto il respiro di un romanzo. Grazie alla capacità di farci entrare immediatamente nel clima della storia, che davvero ha l’immediatezza dell’immagine cinematografica, ma senza sacrificare niente alla superficialità o alla prevedibilità. Perché la brevità non nuoce all’incisività emotiva ma anche intellettuale dei racconti di Jack Ritchie, che oltre che dirci che mai niente è come sembra, ci avvisano che ognuno di noi contiene tanti se stesso, che si palesano a seconda della situazione in cui ci troviamo. E spesso non possiamo prevedere quello che faremo...

Sylvie Schenk, VELOCE LA VITA, Keller, 2018 (traduzione di Franco Filice)
“Diventi una persona che solo di tanto in tanto pensa alle imperscrutabili possibilità di un precipizio. Ancora adesso che sei anziana, la calda superficie di uno scisto sulla guancia ti consola, ancora oggi provi piacere alla vista del verde intenso di un prato, dello scintillio del granito, della peluria di una giovane foglia, del lento affiorare delle vette nella nebbia, ma è soprattutto la luce che ti ha colpita: la luce autunnale che fa emergere il mondo dal grigiore, l’incandescente luce meridiana dell’estate che regala al mondo profili netti, irrevocabili, la luce accecante di una cascata ghiacciata e il luccichio della neve al crepuscolo. Il sole che nasce e tramonta, che abbellisce il tuo mondo reale, solido”: VELOCE LA VITA, il romanzo di Sylvie Schenk appena pubblicato da Keller nella bella traduzione di Franco Filice, è travolgente e intenso come la sua protagonista. Conosciamo Louise bambina, felice nel paesino delle Alpi francesi dove vive con la sua “piccola” mamma, sempre triste e intenta a sferruzzare, il padre dentista, un uomo realizzato e sicuro di sé, le sorelle e il fratello. Siamo negli anni Cinquanta e Louise lascia le amate montagne per frequentare l’università a Lione. Per lei è come un salto nel vuoto, emozionante e bellissimo, inebriante per la grande libertà conquistata. Lione risente ancora del dramma della guerra e della violenta occupazione che non si vuole passi sotto silenzio, ma si respira anche aria di rinascita e voglia di dimenticare il recente passato. E il jazz è la musica che meglio interpreta questi sentimenti e per Lousie scoprirla sarà l’occasione per entrare in una compagnia molto eterogenea dove spicca la personalità di Henri, pianista jazz molto dotato che non riesce ad accettare l’uccisione dei genitori da parte dei nazisti. Louise è ingenua, inesperta ma dentro di sé comunque solida, solare, sensibile, educata all’empatia dalla letteratura che ama e studia con passione. Così riesce a non soccombere alla personalità di Henri e a vedere l’amore verso di lei di Johann, un ragazzo tedesco affettuoso e accogliente che decide di sposare anche contro il volere dei suoi genitori, che vogliono per lei un marito francese o comunque non tedesco: “Uno straniero è un outsider. Tu ti sei sempre sentita così: estranea. In Germania sarai una straniera. Non è questa l’identità ideale che ti sei costruita a scuola dalle suore, a casa, in montagna, all’università, e che desideri ancora come status ufficiale? Un piede dentro e uno fuori, essere parte del tuo mondo, ma comunque diversa”. Così Louise imparerà una nuova lingua, un nuovo modo di vivere la famiglia, e soprattutto mostra come i giovani da una parte cercano di scrollarsi di dosso la pesante eredità della guerra e delle persecuzioni, dall’altra non possono non interrogarsi sul coinvolgimento dei loro genitori. VELOCE LA VITA è un libro in cui non ci si può non riconoscere, perché Sylvie Schenk riesce davvero a raccontare la pienezza dell’esistenza di tutti noi attraverso le parole e il percorso di vita di Louise: “... la vita intera è un gioco cattivo e talvolta divertente di maschere e ombre, la vita è una mescolanza arlecchina di dramma e commedia degli equivoci, è evidente che da Platone a Sartre, passando per Shakespeare e Marivaux, tutta la letteratura ha per oggetto un unico tema: apparire ed essere, la vita come illusione, succedaneo, come coperchio sul nulla. La vita è un inganno scintillante”.

Sherman Alexie, DANZE DI GUERRA, NNE, 2018 (traduzione di Laura Gazzarini)
Leggere il nome di Sherman Alexie sulla copertina di un libro italiano è una grande gioia: finalmente viene tradotta dopo molti anni una delle opere dell’autore di DIARIO ASSOLUTAMENTE SINCERO DI UN INDIANO PART-TIME. E’ grazie all’editore NN e alla traduzione di Laura Gazzarini che possiamo leggere questo DANZE DI GUERRA e presto anche gli altri libri di quello che è considerato uno dei maggiori scrittori americani viventi. NNE infatti il prossimo anno pubblicherà anche il suo ultimo libro, YOU DON’T HAVE TO SAY YOU LOVE ME. In DANZE DI GUERRA troviamo molti dei temi cari a Sherman Alexie: la comunità dei nativi d’America (Quando Lincoln ratificò il proclama di emancipazione, chi sapeva che, un anno prima, nel 1862, aveva firmato e approvato l’ordine per la più grande esecuzione pubblica degli Stati Uniti? Chi hanno giustiziato? “Mulatti, sanguemisti e indiani”. Perché li hanno giustiziati? “per sommosse contro lo Stato e i suoi cittadini”. Dove li hanno giustiziati? A Mankato, Minnesota. Come li hanno giustiziati? Be’, Abramo Lincoln ritenne cosa buona e giusta impiccare trentotto Sioux contemporaneamente. Sì, di fronte a una folla enorme ed esultante, trentotto indiani andarono incontro alla morte. Sì, trentotto colli si spezzarono”); la malattia, la percezione che gli altri hanno di noi, l’amore per lo sport e la poesia, gli attimi che possono cambiarci la vita per sempre. Come una danza riturale e movimentata siamo coinvolti da subito dalle pagine del libro, dove si alternano racconti, poesie, pensieri, considerazioni che mettono in scena personaggi indimenticabili, dal montatore cinematografico al venditore di abiti vintage, dagli ex compagni di liceo allo sceneggiatore esperto di fuoco. Con un ritmo incalzante che non va a scapito però della profondità del pensiero, lo scrittore americano ci fa entrare nel suo mondo e anche nel suo laboratorio creativo. Senza mai rinunciare a un’ironia tenera e disincantata, a un sottile rimpianto per il passato, a uno sguardo partecipe verso le debolezze umane. DANZE DI GUERRA riesce insieme a spiazzare il lettore ma anche a consolarlo, a sorprenderlo e contemporaneamente confortarlo sull’inevitabilità delle disgrazie umane: “Allora, quanti pianeti volete buttar giù? / Tranquillo, papà, è un gioco e niente più, / e la parte migliore è fare un gran rumore. / Figli miei, da bambino tiravo zolle di fango / e sassi di neve, combattevamo / nemici – altri bambini indiani – e pensavamo, / tutti noi, che giocare alla guerra ci rendesse divini”.

Hanns-Josef Ortheil, IL SUONO DELLA VITA, Keller, 2018 (traduzione di Scilla Forti)
“A differenza della maggior parte dei suoi colleghi scrittori, Ortheil non ha paura del lieto fine e del grande amore. Un romanzo confortante”. A ragione l’editore Keller, che non ringrazieremo mai abbastanza per gli autori che ci fa scoprire, mette questa frase della Frankfurter Allgemeine Zeitung sulla bella copertina de IL SUONO DELLA VITA dello scrittore Hanns-Josef Ortheil, considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura tedesca contemporanea. Conosciamo Joannes, il protagonista, tra le mura della sua casa di Colonia dove trascorre le sue giornate con la madre, che non parla per lo shock subito durante la seconda guerra mondiale e che passa quasi tutto il suo tempo a leggere, in attesa del ritorno a casa del marito. Anche il piccolo Joannes non parla, probabilmente perché assuefatto al silenzio della madre e quando escono vengono guardati con sospetto e compatimento. Fino a quando il bambino non incontra i tasti di un pianoforte: “Suonare equivaleva alla liberazione, alla fine dei giorni umilianti nei quali avevo bighellonato tutto solo nel corridoio del nostro appartamento ed ero stato deriso nelle botteghe e nei negozi del quartiere, oppure messo in disparte al parco giochi. Finalmente sapevo come tirarmi fuori da quella esistenza da idiota, finalmente avevo un piano concreto con un obiettivo preciso: da quel momento in poi volevo esercitarmi ogni mattina e ogni pomeriggio, volevo dimostrare di saper fare qualcosa anch’io, volevo diventare un bravo pianista e magari, col tempo, un organista anche migliore”. Joannes quindi lentamente comincia a parlare e grazie al suo talento di pianista comincia a viaggiare sino a quando non trova in Roma la sua città adottiva. Paradossalmente anche perché gli ricorda Colonia. Ma l’ex bambino muto scopre di avere un altro talento: “In sostanza non eri solo un pianista, ma anche uno scrittore, fin dai tempi dell’infanzia. Hai vissuto come uno scrittore e hai lavorato come tale! Tutta la tua vita è stata un’educazione alla scrittura e un’immersione in questa pratica”. Così gli appunti, le storie, i foglietti su cui Joannes annotava da sempre quello che vedeva e che gli accadeva si rivelano un materiale incredibile da cui partire per una nuova sorprendente avventura: “A stento so descrivere la mia felicità per questa scoperta importantissima. Insomma, la scrittura non mi aiutava soltanto indirettamente, conferendo chiarezza e struttura alle mie fantasie e ai miei pensieri, no, mi aiutava anche nel bel mezzo della vita, in maniera molto diretta, fornendomi varianti narrative dei frammenti della mia esistenza affinché potessi raccontarle a una persona quasi sconosciuta!”. IL SUONO DELLA VITA accompagna il lettore in un lungo viaggio, facendolo sedere su un confortevole treno con delle comode poltrone di velluto, per seguire via via l’esistenza di un bambino nato nel dopoguerra, che diventa l’occasione per tratteggiare uno spaccato vero e intenso della recente storia europea e della tragedia quotidiana della guerra, dai bombardamenti alle fughe spesso inutili, alla fatica della ricostruzione. Grazie a uno stile così poetico che sembra di sentire suonare le note del pianoforte mentre lo leggiamo.

Jessica Fellowes, L’ASSASSINIO DI FLORENCE NIGHTINGALE SHORE, Neri Pozza, 2017 (traduzione di Maddalena Togliani)
“C’è la Storia, i fatti storici, la realtà e poi ci sono, appunto, dei piccoli spazi tra questi fatti ed è li che io vado a insinuarmi per cercare di raccontare una storia”: così in un’intervista Jessica Fellowes spiega l’idea della serie 'I delitti Mitford' di cui Neri Pozza, nella vivace traduzione di Maddalena Togliani, ci propone L’ASSASSINIO DI FLORENCE NIGHTINGALE SHORE. Basato sul vero omicidio, rimasto irrisolto, dell’infermiera di guerra cinquantenne, questo è il primo romanzo di una serie di avvincenti gialli ambientati nell’Inghilterra degli Anni Venti e Trenta, con protagoniste le sei «leggendarie» sorelle Mitford. Jessica Fellowes, nipote dell’acclamato autore britannico Julian Fellowes, è scrittrice e giornalista, conosciuta per essere l’autrice di cinque libri sui retroscena della celebre serie TV 'Downton Abbey', molti dei quali sono apparsi nella lista dei bestseller del New York Times e Sunday Times. Ex vice direttrice di Country Life e giornalista del Sunday Mail, ha scritto per diverse testate tra cui il Daily Telegraph, il Guardian, il Sunday Times e The Lady. Tutto questo spiega l’atmosfera in cui ci troviamo immediatamente immersi e grazie all’indubbia capacità narrativa della Fellowes non riusciamo ad abbandonare le pagine prima di aver scoperto cosa è accaduto a Florence Nightingale. Ma nel romanzo della scrittrice inglese non sono solo il ritmo narrativo e il mistero a conquistare da subito il lettore; colpisce infatti la raffinata sicurezza della scrittura, la capacità di mescolare realtà e invenzione, la cura quasi maniacale della ricostruzione dell’epoca, dagli abiti ai mezzi di trasporto, dai rapporti sociali alle suppellettili di casa. E la scelta di far indagare una giovane poco più che adolescente, una ragazza di basso ceto che fugge da uno zio delinquente per andare a servizio a casa Mitford come aiuto bambinaia. Ma che è dotata di intelligenza ed empatia e del talento di sapersi muovere in qualsiasi ambiente. Così la diciottenne Louisa Cannon insieme a Nancy, la maggiore delle sorelle Mitford nonché la futura scrittrice, e a un giovane agente della polizia ferroviaria, Guy Sullivan, indagherà nella vita della donna uccisa e nel fitto mistero della sua uccisione. L’ASSASSINIO DI FLORENCE NIGHTINGALE SHORE è oltre che un riuscito giallo, uno spaccato della Londra degli Anni Venti e un abile e raffinato gioco letterario pieno di riferimenti e livelli di lettura. Un romanzo rilassante e intrigante insieme.

Puniša Kalezić - Diana Bosnjak Monai, DA SARAJEVO CON AMORE. DIARIO DALL’ASSEDIO, Besa, 2017
“Mi viene da pensare come sia possibile: fino a ieri abbiamo convissuto in pace, tranquilli, alle volte abbiamo tirato la cinghia, alle volte vissuto nell’abbondanza... come è possibile che dentro di noi non sia più rimasta una briciola di umanità? Esistono ancora persone ragionevoli per fermare questa strage? Quando finirà questa carneficina?”: DA SARAJEVO CON AMORE. DIARIO DALL’ASSEDIO, pubblicato da Besa riporta in copertina due autori. Uno è Puniša Kalezić e troverete le sue parole nel diario in corsivo che racconta i terribili anni della guerra balcanica. L’altro nome appartiene a Diana Bosnjak Monai, la nipote di Punisa, che quel diario ha ereditato e ne ha fatto il fulcro di questo straordinario libro. Diana Bosnjak Monai, nata a Sarajevo nel 1970, dal 2000 vive e lavora a Trieste, dove si occupa di architettura, pittura e illustrazione. E da artista compone il quadro di cosa significa ritrovarsi in guerra, isolati e senza i mezzi di sostentamento essenziali ma soprattutto sopraffatti dalla paura costante per sé e i propri cari e dal senso di profonda incredulità di fronte a quello che sta accadendo. Puniša Kalezić, scomparso nel 2004, nato in Montenegro, è stato un importante slavista, scrittore, giurista e veterano del giornalismo a Sarajevo. Partigiano durante la seconda guerra mondiale, ferito, riesce a raggiungere il territorio libero nel nord della Bosnia, dove organizza il primo liceo partigiano e porta avanti la sua lotta contro l’analfabetismo culturale. Ormai anziano, ogni giorno, dal maggio 1992 fino agli accordi di Dayotn non abbandona mai Sarajevo e annota tutto quello che succede nella città in quegli anni di guerra. Il diario arriva a più di mille pagine ed è una testimonianza unica perché figlia della mente lucida di un grande uomo e intellettuale che conosce bene da giornalista e da cittadino il clima politico e sociale del suo paese. La nipote Diana riesce nell’impresa insieme letteraria e intima di restituirci il diario e insieme la figura del nonno, raccontando la vita prima della guerra, i familiari lontani e però sempre con il pensiero a Sarajevo ma anche tutto quello che è stato detto, scritto ma purtroppo soprattutto non raccontato e non fatto sulla tragedia della guerra balcanica. Nonno e nipote dialogano nel libro passandosi il testimone tra passato e presente, ritrovandosi nella quotidianità in cui può ritrovarsi ognuno di noi ma che viene poi spezzata dalla guerra: “La nostra casa era sempre piena di libri... c’era sempre la narrativa, i romanzi, i grandi autori russi, tedeschi, anche cose assolutamente sconosciute e dimenticate al giorno d’oggi, insomma, tutto quello che da noi in Jugoslavia si poteva trovare tradotto in croato o in francese, che il nonno leggeva correttamente. Spesso però, come mi sono accorta uscendo dai confini, molti libri importanti della storia universale della letteratura non venivano tradotti. Penso che persistesse, in qualche modo, un limite sottile fra quello che si poteva leggere e quello che non si poteva. Succedeva spesso anche con la musica, con l’arte, con diverse altre cose belle della nostra quotidianità. In qualche modo, c’era un tabù, si pensava che se la gente avesse capito cosa stava succedendo al di fuori dei confini, avrebbe potuto chiedere di più”. Scrigno ricchissimo di storie, pensieri, considerazioni, DA SARAJEVO CON AMORE ci mette di fronte all’assurdità dei conflitti ma anche alla consapevolezza che al peggio non esiste limite: “Forse per me è più facile. Ho già vissuto due guerre. La prima guerra mondiale ha portato miseria e fame, soprattutto dopo. Ci fu una terribile epidemia di spagnola e le persone morivano come mosche. La Seconda guerra mondiale è stata dura, ma questa le supera tutte. Di gran lunga”.

William Kent Krueger, LA NATURA DELLA GRAZIA, Neri Pozza, 2017 (traduzione di Alessandro Zabini)
LA NATURA DELLA GRAZIA di William Kent Krueger è stato davvero una bella scoperta. Lo scrittore americano riesce a rievocare le atmosfere e il tono insieme comico e drammatico dei libri di Mark Twain e de IL BUIO OLTRE LA SIEPE di Harper Lee. Ma il libro rimanda anche alla durezza e al mistero dei romanzi texani di Joe Lansdale. La storia rievoca un’America che unisce al sogno di un paese pieno di possibilità la disillusione della guerra e i contrasti nati dalla disuguaglienza sociale. Con uno stile intenso e coinvolgente Krueger ci racconta il mondo di Frank, figlio tredicenne del pastore metodista Nathan Drum che per la chiesa ha lasciato una brillante carriera da avvocato e di Ruth, bellissima e piena di talento artistico che si ritrova a seguire il marito nella spesso desolata provincia americana. Nell’estate del 1961, teatro della storia, i Drum si trovano a New Bremen nel Minnesota proprio il paese da cui viene la famiglia di Ruth. Vediamo tutti i personaggi dagli occhi di un ragazzo, amante della natura e dell’avventura, curioso della varia umanità che, grazie anche al ruolo di suo padre, si trova spesso ad incontrare. Frank insieme al fratello minore Jake, che soffre di una umiliante balbuzie ma che è dotato di grande empatia, scopre i tanti momenti diversi della vita, tra cui la morte. Che si presenta quell’estate con il tragico incidente che vede protagonista un ragazzino un po’ speciale e prosegue con altri dolorosi lutti. Da una parte quindi la durezza della vita, con le sue lotte, i rimpianti, la violenza spesso gratuita, i danni dell’alcool, la diffidenza verso i nativi americani o in genere in chi non si riconosce in un determinato ordine sociale precostituito, dall’altra l’esempio del padre, sempre pronto ad aiutare ma soprattutto a comprendere gli altri, a scrutare nella loro anima. Un padre come Nathan è uan grande ricchezza per un ragazzo ma anche un modello difficile da emulare. Krueger riesce però a non farne un personaggio steretipato nel suo eroismo quotidiano ma un uomo a tutto tondo, sicuramente dotato di grande intelligenza e sensibilità ma che non si erge mai al di sopra degli altri. LA NATURA DELLA GRAZIA riesce a restituirci la complessità della vita e dell’essere umano senza mai diventare didascalico o banale. Anche le figure minori della storia hanno sempre la forza della necessarietà, non sono mai comprimarie ma essenziali alla piena definizione dei personaggi maggiori. LA NATURA DELLA GRAZIA è un romanzo di relazioni, di incontri, scontri, amicizie, segreti, promesse e menzogne. Aver affidato il punto di vista principale a un ragazzo regala al romanzo immediatezza senza fargli perdere profondità. Perché senza la rassegnazione o le sovrastrutture dell’età adulta, Frank denuncia prima emotivamente ma poi anche razionalmente le ingiustizie, i comportamenti scorretti e ambigui, il male che aleggia in ognuno di noi. Cogliendo dall’altra parte la felicità di una corsa lungo la ferrovia, la scoperta di un rifugio segreto, l’amore per il fratello che è però anche competizione nell’accappararsi l’affetto dei genitori, la voglia di essere considerati adulti e di essere al centro dell’attenzione. Frank non è un eroe dalle grandi imprese come vorrebbe essere ma lo è invece nella quotidianità delle sue giornate, nello sguardo ancora incantato verso il mondo ma già vigile sui lutti e le ingiustizie che inevitabilmente accadono. Leggere LA NATURA DELLA GRAZIA è come leggere un classico, una storia che sa parlare a tanti lettori.

Sonia Maria Luce Possentini, LA PRIMA COSA FU L’ODORE DEL FERRO, Rrose Selavy, 2018
Sono sempre una piacevole sorpresa i volumi dell’editore Rrose Selavy e in particolare quelli della collana 'Il Quaderno quadrone'. Grande formato ma anche l’idea di dare uguale spazio al testo e alle immagini con storie spesso autobiografiche o comunque punti di vista che mettono in gioco, senza rete di protezione, gli autori. L’ultimo uscito della serie ha anche il merito di farci scoprire le capacità narrative di un’artista che finora si era misurata solo con le immagini: in LA PRIMA COSA FU L’ODORE DEL FERRO Sonia Maria Luce Possentini rivela di avere talento non solo con matite e pennelli ma anche con le parole. In realtà, abituati alle sue immagini poetiche e insieme così tangibili, dove non manca un velo di malinconia, non ci meravigliamo più di tanto della capacità evocativa e insieme fisica che riesce a imprimere alla storia che ci racconta. Che è quella di una giovane donna, che trova lavoro come operaia in una fonderia e si trova ad affrontare un lavoro pesante e una materia che non sembra mai staccarsi dal corpo. La protagonista deve confrontarsi con il ferro e insieme con il materiale umano, con il lavoro fisico ma anche il lavorare insieme, i riti e i tempi della fabbrica, il lavoro necessario per vivere e il desiderio di comprendere il senso della vita: “Poi, come cani alla catena, ci si abitua a tutto. Al rumore, al freddo che spacca le ossa d’inverno, e al caldo soffocante d’estate. Ci si abitua anche a un nuovo vocabolario, perché più è sgomenta la sofferenza di ogni uomo, più il suo linguaggio diventa disprezzo, inchiostro nero senza sfumature e senza poesia. Tiriamo noi stessi come elastici. Fino a scoppiare. Una collisione umana. Di cui rimangono solo le smorfie”. In poche pagine Sonia Possentini ci restituisce la sua esperienza di vita e lavoro in fabbrica e insieme un ritratto vero del nostro paese, dalla fuga dalla provincia alle aspirazioni spesso deluse dei giovani, dal divario sociale al rapporto genitori-figli, che si porta dietro la voglia di indipendenza e la consapevolezza del proprio talento: “Disegnavo di tutto. La porta, la muffa, la fabbrica vuota. Il ferro. Disegnavo tra una pausa e lo stacco del pranzo. Disegnavo mondi possibili. Indugiavo a passi storti in quel mondo sognato. Ma muovevo i passi. Non volevo arrendermi”. Così il riferimento di vita è quella nonna che ha conosciuto la guerra, che dice “impara a fare tutto, anche quello che è brutto, perché non si sa mai...” e che però intanto ha nutrito la nipote di fiabe e sogni. Accade così che da un albo di poche pagine saltano fuori tantissimi pensieri, considerazioni, suggestioni, che nascono di pari passo dalle parole e dalle immagini. L’introduzione del sindacalista Maurizio Landini forse sposta lo sguardo più sulla fabbrica e il lavoro ma in realtà riesce a cogliere la poesia del libro, e soprattutto ci fa riflettere su come raramente gli scrittori italiani si misurino con il racconto del lavoro operaio. Tanto che per trovare dei riferimenti simili bisogna ricorrere al bellissimo graphic novel di Pia De Valentinis FERRIERA, dedicato al padre operaio, o tornare ai primi libri di Erri de Luca, dove lo scrittore napoletano racconta il suo lavoro nei cantieri edili e per questo probabilmente condividerebbe le parole di Sonia Possentini: “Cercavo la bellezza. Scintille di ferro come stelle dentro la polvere. Chiamavo a raccolta la forza”.

Edward Sorel, I DIARI BOLLENTI DI MARY ASTOR, Adelphi (traduzione di Matteo Codignola)
Cosa possono avere in comune un illlustratore di fama mondiale, nato nel 1929 a New York in un quartiere popolare e un’attrice hollywoodiana nata nel 1906 e che ha passato la sua carriera a interpretare per lo più donne estremamente eleganti e seducenti? In primo luogo un... pavimento. Perché è grazie a un vecchio linoleum se possiamo ora leggere I DIARI BOLLENTI DI MARY ASTOR che Edward Sorel dedica all’attrice americana degli anni Trenta: “Penso possiate tranquillamente dire che, come i protagonisti di qualsiasi commedia romantica che si rispetti, anche Mary Astor e io abbiamo avuto, ecco, un nostro 'momento'. E’ stato nel 1965. Io avevo trentasei anni, facevo l’illustratore freelance, e grazie al Vietnam avevo cominciato a pubblicare vignette satiriche su una rivista di sinistra, 'Ramparts'. Portavo i capelli lunghi e, tanto per rimarcare la distanza dai 'doppiopetti' che ci avevano trascinato in guerra, giravo vestito come uno straccione. Mary, come da lì a poco avrei cominciato a chiamarla, di anni ne aveva cinquantanove, e dopo una carriera spesa quasi per intero a impersonare ricche signore vestite molto bene e pettinate anche meglio si era appena ritirata dalle scene”. Durante un trasloco Sorel si appresta a divellere il linoleum che copre il pavimento del vecchio appartamento sull’Upper East Side che ha appena acquistato con la seconda moglie e qui trova uno strato di giornali usati come isolanti. Sono tutti numeri del “Daily News” e del “Daily Mirror” del 1936. I titoli a carattere cubitale sono tutti dedicati agli scandalosi diari di Mary Astor che il secondo marito minaccia di rendere pubblici se l’attrice non rinuncia all’affidamento della figlia. Mary Astor, al vertice della carriera, aveva infatti iniziato una relazione con George S. Kaufman, il più illustre commediografo di Hollywood. Il marito aveva però scoperto che la moglie teneva un diario dei suoi incontri sentimentali con, pare, valutazioni delle prestazioni sessuali dei suoi amanti. I diari quindi diventano arma di ricatto ma anche l’innesco di uno scandalo di ampie proporzioni. Ma torniamo a Edward Sorel che da quel 1965 affianca alla sua carriera professionale di grafico e illustratore, quella di investigatore e appassionato di tutto quello che riguarda Mary Astor. Ma solo cinquant’anni dopo concretizza questa sua ossessione in un libro che prende il via dal processo per l’affidamento della figlia di Mary Astor per raccontare l’intera vita dell’attrice, la magica Hollywood degli anni Trenta ma anche un paese in evoluzione e la vita dell’autore stesso. Già dalla copertina e dal formato I DIARI BOLLENTI DI MARY ASTOR con la riproduzione della pagina del Daily Mirror e l’immagine di una locandina cinematografica ci avvertono che ci troviamo di fronte a un libro non usuale, ma è cominciando a leggere che apprezzeremo davvero la capacità narrativa, l’ironia, lo sguardo acuto e affettuoso con cui Sorel racconta la sua eroina e un’intera epoca. Non manca naturalmente il suo tratto intenso e irriverente, ma le poche immagini del processo sono funzionali a entrare davvero nella vita di una donna dotata oltre che di un indubbio talento artistico e di una bellezza fuori del comune, anche di un’intelligenza viva e partecipe e di un coraggio che sfiora la sfrontatezza. La ricostruzione dello scandalo e dei suoi protagonisti offre a Sorel l’occasione per fare una sorta di bilancio quasi mai nostalgico della sua carriera artistica e della sua vita personale. Perché non c’è altro modo per raccontare un’esistenza che mettere a nudo anche la propria. Alla fine il lettore non può che ereditare l’ossessione di Sorel per Mary Astor e ammirare la capacità di Sorel di raccontare la fabbrica dei sogni.

Hella Haasse, L’AMICO PERDUTO, Iperborea, 2017 (traduzione di Fulvio Ferrari)
Non sembra davvero scritto più di settant’anni fa e non sembra neanche un romanzo d’esordio L’AMICO PERDUTO di Hella Haasse, appena proposto da Iperborea nella bella traduzione di Fulvio Ferrari. Il breve romanzo è in realtà un classico della letteratura olandese ed è una bella scoperta per i lettori italiani. Che si ritroveranno in questa storia che sembra da una parte fuori dal tempo, dall’altra intrinsecamente legata al luogo e all’epoca in cui è ambientata. Siamo in Indonesia durante la dominazione coloniale olandese e chi ci parla è un ragazzino, figlio del direttore di una piantagione: “Come potevo spiegare in poche parole chi era e cosa rappresentava per me Urug? Urug era il mio amico, era l’unico essere vivente vicino a me con cui fin dalla nascita avevo condiviso ogni fase della mia esistenza, ogni pensiero, ogni sensazione. E non solo. Urug era di più. Urug significava – benché non riuscissi a esprimerlo a parole – la vita a Kebon Djati e intorno a Kebon Djati, le escursioni in montagna, i giochi tra i filari del tè e sulle pietre del fiume, i viaggi in treno, l’andare a scuola... l’ABC della mia infanzia”. Attraverso il legame tra il protagonista e Urug, ragazzo indigeno, primogenito di una famiglia povera e numerosa, Hella Haasse racconta come si forma un’identità e come non si possa sfuggire al luogo da cui si proviene. Così Urug si illude di poter lasciare senza rimpianti la piantagione in cui è nato per studiare medicina e andare in America, mentre il suo amico olandese è sicuro di appartenere all’Indonesia e di non poter vivere altrove. Con uno stile apparentemente semplice e un ritmo che sembra lento ma che in realtà avvolge sempre più il lettore, la scrittrice olandese indaga in profondità i sentimenti dei due amici ma tratteggia al meglio anche le figure comprimarie come il direttore della piantagione e la sua triste moglie o Sidris, la bellissima mamma di Urug. Come in un delicato acquerello le figure via via si fanno sempre più definite ma rimane una sorta di sottile nebbia come quella che aleggia sul lago nero, dove cambierà la vita di Urug. Crescendo, però, il legame tra i due amici cambierà e cominceranno a risaltare i destini diversi che li aspettano: “Urug vale meno di noi? È diverso?” chiesi con impeto. “Sei matto?” rispose Gerard calmo, senza levarsi la pipa di bocca. [...] “Una pantera è diversa da una scimmia”, disse Gerard dopo una pausa, “ma una delle due vale meno dell’altra?... Essere diversi... è normale. Ognuno è diverso dagli altri. Anch’io sono diverso da te. Ma valere di più o di meno a seconda del colore della pelle o di chi è tuo padre, questa è un’assurdità. Urug è tuo amico, no? E se può essere tuo amico... com’è possibile che valga meno di te o di qualcun altro?”.

Don Robertson, L’ULTIMA STAGIONE, Nutrimenti, 2017 (traduzione di Nicola Manuppelli)
L’ULTIMA STAGIONE concorre sicuramente al titolo per il miglior libro letto nel 2017. Se avete poi qualche giorno di vacanza allora è perfetto per riempirvi le giornata con le sue parole. “All’inizio ho scritto che questo sarebbe stato un 'tentativo di mettere ordine nella confusione'. Ma più scrivo e più mi domando: può la vita di un uomo essere definita in termini diversi dalla confusione? E la confusione non è, per sua stessa natura, qualcosa a cui è impossibile 'mettere ordine'? Si può spiegare un uomo negli stessi termini che si utilizzerebbero per descrivere un sistema di cablaggio elettrico?”: chi scrive è Howard Amberson, settantaquattro anni trascorsi per lo più a Paradise Falls e sposato con Anne da oltre cinquant’anni. Il protagonista di L’ULTIMA STAGIONE, lo straordinario romanzo di Don Robertson, decide di partire per un viaggio senza meta, insieme alla moglie e al gatto Sinclair. Come spiega alla figlia Florence vuole vedere un po’ di mondo per capire la 'struttura' della vita: “Anche noi siamo alla ricerca dell’essenza delle cose. Quando le persone invecchiano come noi, un bel giorno si svegliano e scoprono che tutta la mole di eventi, accadimenti, storia e tecnologia, il variare delle abitudini hanno calato un velo d’ombra sulla loro vita. E a quel punto si chiedono: qual è il vero senso del mondo, oggi? Qual è il vero schema? E la maggior parte di loro non ha la benché minima idea di come rispondere a queste domande”. Il romanzo dello scrittore americano si sviluppa su due piani temporali: il viaggio degli anziani coniugi raccontato in terza persona e il dario che Howard scrive di nascosto dalla moglie e che conserva dietro la ruota di scorta, dove registra gli eventi essenziali della sua e della loro esistenza. Dall’amore per il primogenito Henry, un ragazzo straordinario che passa la vita a cercare di nascondere la sua eccezionalità al fratello minore Lewis che si sente in eterna competizione con la perfezione di Henry sino alla dolce e bella Florence capace di un amore identico per i due fratelli maggiori. C’è poi la storia d’amore tra Howard e Anne, una donna intensa e dotata di senso dell’umorismo. La professione di insegnante di letteratura di Howard, il rapporto con gli amici e i parenti, i lutti, le malattie, le nascite, il microcosmo di ogni famiglia. Ma L’ULTIMA STAGIONE è anche un ritratto mai banale della provincia americana e del suo rapporto con i grandi eventi della storia, dalla seconda guerra mondiale alle elezioni presidenziali, dalla discriminazione razziale alla grande crisi economica. Don Robertson riesce con apparente facilità a dipingere un’esistenza e il mondo che la circonda, grazie a una scrittura efficace e vitale, precisa ma mai pedante, elegante e colloquiale insieme. E che possiamo apprezzare a fondo grazie all’ottima traduzione di Nicola Manuppelli che mette davvero in campo i vari registri e il vasto lessico della nostra lingua per restituirci la ricchezza della scrittura dello scrittore americano. Senza dimenticare l’editore Nutrimenti che ci permette di riscoprire uno scrittore di grande qualità letteraria e ancora attualissimo perché attraverso il viaggio di Howard e Anne riflettiamo anche noi sul senso della vita e se abbia in realtà senso cercarlo. Don Robertson riesce a trasmettere con le parole al lettore un grande sentimento di familiarità, ci fa sentire e casa e nello stesso tempo continua a sorprenderci, a porci delle domande con le quali è necessario fare i conti: “Ho ripreso dall’inizio questo taccuino e ho letto tutte le parole che ho scritto finora. L’ho fatto perché cerco, come sapete, un disegno, una progressione logica che possa spiegare la mia personale struttura. E’ un fiume di parole, giusto? Un susseguirsi di nascite e morti e vicende e scontri, esatto? ... Ma ancora non riesco ad arrivare al nocciolo; le mie parole non conducono ad alcuna essenza”.

RACCONTI DA RIDERE a cura di Marco Rossari, Einaudi 2017
“S’intitola RACCONTI DA RIDERE ma ridere non è nemmeno necessario. Pur mancando tanti nomi che per svariati motivi non è stato possibile inserire, ci sono racconti satirici, ironici, puramente comici, amari, demenziali, intellettualissimi. Esemplari, sorprendenti, inediti, dimenticati. Sagaci, irriverenti, profondi. Qualche premio Strega e perfino un premio Nobel. Tutte queste storie mi hanno fatto ridere ad alta voce o in silenzio, ma anche pensare, riflettere, annuire, ammirato da un lato dell’animo umano a cui non avevo fatto caso o semplicemente dall’arguzia di un personaggio o di una situazione o anche solo dal talento di uno scrittore”. Libro perfetto per iniziare l’anno non solo perché tenta e quasi sempre riesce a farci ridere ma soprattutto perché diventa una ricca fonte di letture. RACCONTI DA RIDERE curato dallo scrittore e traduttore Marco Rossari è un’antologia di storie, dove l’umorismo è declinato in talmente tante varianti, sino a sfiorare persino la tragedia... che è impossibile che un lettore non trovi la cifra comica che gli corrisponde. Tra certezze come Stefano Benni e Mark Twain, che non fa mai male anche rileggere, ci sono alcune divertenti sorprese come Jorn Riel e Anton Cechov. “Lo humour è irruenza, ma anche seduzione. La narrazione umoristica ha in comune con quella erotica la necessità di appellarsi all’altro, di strappargli dei suoni, di farlo partecipare fisicamente – tangibilmente – a ciò che viene rappresentato. Il fantasma dell’umorismo è il partner, cioè il lettore. Non ci si può fare il solletico da soli: c’è bisogno di connivenza”. Lo stesso principio Marco Rossari lo ha usato per compilare l’antologia, che è sicuramente frutto della sua storia di lettore e quindi anche personale ma non manca mai l’attenzione e lo sguardo verso chi legge. Così le brevi introduzioni alle varie sezioni dell’antologia dove Rossari dà ragione del tema umoristico e degli attori scelti, sono un dialogo quasi personale con chi legge e aggiungono inoltre nuovi nomi e nuove suggestioni di letture che sta al lettore cogliere e magari rilanciare. Perché RACCONTI DA RIDERE e non per ridere può essere usato come un catalogo di punti di vista e un excursus sul senso del comico ma anche del ridicolo nella letteratura ma soprattutto nella vita reale. Per mostrare come i meccanismi del riso non temono il passare del tempo ma anzi semprano affinarsi con l’età. Come nel caso del sempre intelligente e acuto Wodehouse, che rimane un maestro della comicità raffinata e insieme spietata verso le universali devolezze umane. O gli imprevedibili maestri della nostra letteratura come Umberto Eco e Michele Mari. Non ci resta che trovare il nostro livello di tasso comico.

Elvis Malaj, DAL TUO TERRAZZO SI VEDE CASA MIA, Racconti, 2017
“Tutti mi chiamavano Glen, in realtà in pochi conoscevano il mio nome e il suo significato. Mi chiamo Marenglen. E’ un nome che esiste solo in Albania. Andava molto di moda negli anni Settanta e Ottanta, quando l’Albania era lo zoccolo duro degli ideali proletari. Marenglen è l’acronimo di Marx, Engels e Lenin. E non dico altro”. Il protagonista di “Vorrei essere albanese” il racconto di apertura della raccolta DAL TUO TERRAZZO SI VEDE CASA MIA rivela il tono intenso e scanzonato insieme che caratterizza la scrittura di Elvis Malaj. Nato nel 1990 in Albania arrivato in Italia a quindici anni, (vive tuttora a Padova) e primo autore italiano pubblicato dalla casa editrice Racconti, che, nella sua breve storia, si è guadagnata la stima e la fiducia dei critici e dei lettori, tanto che si possono acquistare tutti i loro libri e non pentirsene mai. Come accade con le storie di Elvis Malaj che catturano da subito il lettore per lo sguardo insieme affettuoso e disincantato verso la quotidianità e soprattutto verso i suoi protagonisti, dall’albanese che detesta gli albanesi Glen all’affascinante e killer di piante Veronica, dalla pudica Maria alla coppia Agron e Silvia. Tutte storie dove si moltiplicano i punti di vista e dove un’eterea malinconia va di pari passo con un’ironia insieme affettuosa e spudorata: “Senti questa: gli ho regalato un libro che a me era piaciuto molto, e dopo qualche giorno lui viene da me e mi dice come l’aveva trovato, quanto gli era piaciuto eccetera eccetera. Il suo commento era spiccicato a una recensione di internet, il libro non l’aveva neanche aperto.” “Almeno apprezza lo sforzo. E’ andato a cercare le recensioni su internet. E poi, scusa, non puoi regalare a Sulejman un libro.” “Perché?” “Perché è uno scrittore. Gli scrittori detestano i libri, per questo li scrivono”. Elvis Malaj rappresenta con verosimiglianza chi soffre di sbandamento sociale e nazionale, ma riesce anche a trasmettere la ricchezza di chi vive tra due culture. Ma al di là della capacità di raccontare la migrazione, maneggiando con grande maestria la lingua di adozione, DAL TUO TERRAZZO SI VEDE CASA MIA rivela una voce di indubbio talento che forse anche grazie alla doppia cittadinanza riesce a raccontare il nostro paese e tutti noi. Certo in Italia, al contrario di paesi come gli Stati Uniti ma anche la Francia o la Svezia, sono rari questi scrittori che si appropriano della lingua di adozione tanto da usarla per mettere a frutto il proprio talento narrativo, ma qui possiamo anche semplicemente affermare che ci troviamo di fronte a un giovane scrittore molto promettente. “Avevo smesso di fumare. Avevo tanti parenti albanesi che vedevo poco, di me avevano l’idea che ero una persona fredda e boriosa. Una volta mi ero messo a contarli: avevo ventotto cugini. Avevo fatto un viaggio in Albania e ci avevano provato con la mia ragazza. Avevo fatto un viaggio in Albania e mi avevano derubato. Avevo incassato una valanga di cortesi rifiuti dagli editori a cui avevo mandato il manoscritto. Avevo ricominciato a fumare – ma con questo il libro non c’entra niente – non avevo grandi pretese e comunque ne fumavo solo due o tre al giorno. Avevo problemi con le doppie, gli accenti e i complementi di termine. Avevo la faccia da albanese, a detta di tutti, ma io non sapevo com’era una faccia da albanese, la mia mi sembrava normale e francamente anche bella”. Tanto che è difficile restituire la ricchezza delle storie di Malaj dove leggerezza e profondità vanno di pari passo, dove la comicità non risparmia le storie d’amore e il sesso, dove il televisore della copertina passa di mano in mano come una sorta di testimone della scala sociale.

George Saunders, LINCOLN NEL BARDO, Feltrinelli, 2017 (traduzione di Cristiana Mennella)
L’illustrazione di Michele Cerone in copertina di LINCOLN NEL BARDO, il romanzo dello scrittore americano George Saunders che è appena stato premiato con il Man Booker Prize, il più prestigioso premio letterario britannico, è estremamente evocativa. Paradossalmente non per la figura dell’austero presidente americano, ma soprattutto per il cavallino a dondolo su cui è seduto. Che ci rimanda alla stanza dei giochi del piccolo Willie, il figlio di Lincoln morto di malattia a soli undici anni, ma anche all’atmosfera del luna park. Perché quello che il romanzo ci regala è un incredibile giro in giostra. E anche se la vicenda si svolge in una sola notte in un cimitero, il luna park è il paragone più adatto per questa storia dal ritmo suadente che ricorda il jazz e che come la musica penetra nel lettore anche quando non capisce che cosa stia accadendo. E i lettori italiani devono ringraziare Cristiana Mennella per la traduzione veramente all’altezza. LINCOLN NEL BARDO sicuramente è stata una sfida (vinta) per l’autore ma lo è anche per il lettore che si trova di fronte un alternarsi di voci, fonti storiche, corsivi, epigrafi, a capo, frasi brevi, dialoghi, linguaggi diversi tanto da rimanere stordito e quasi sospeso in aria come i protagonisti della storia. Che ci viene raccontata da tante voci a partire da tre anime che vivono in questa sorta di limbo che è il Bardo (un non-luogo buddhista-tibetano in cui i defunti soggiornano prima di ultimare il passaggio da una vita all’altra) perché non riescono ad accettare la propria morte: un devoto reverendo, un giovane omosessuale irrisolto e suicida e un cinquantenne morto prima di poter consumare il matrimonio con la giovanissima moglie. Sono loro ad accogliere Willie, undici anni, figlio del presidente americano, morto per polmonite. “Willie Lincoln era il bambino più caro che abbia mai conosciuto, sveglio, giudizioso, dolce d’indole e gentile di modi... era come ci si immagina sarà il proprio figlio, prima di avere figli...”. Così Saunders lo ritrae utilizzando le biografie del presidente e le fonti dell’epoca. E anche se la storia si sviluppa in un luogo e con personaggi immaginari e al centro del racconto c’è un dolore personale come la prematura morte di un figlio, non manca un inquadramento storico che rievoca le sorti avverse ma soprattutto le perdite umane della guerra civile, e la persecuzione razziale. Perché Lincoln è padre di Willie ma anche padre della patria ed è in questo intrecciarsi di ruoli di presidente e di genitore che si sviluppa una delle tante riflessioni dello scrittore americano. LINCOLN NEL BARDO, nella sua singolarità, richiama alla mente innumerevoli riferimenti letterari, alcuni forse nati solo dalla lettura e non previsti dall’autore. Si sente nel romanzo il ritmo della tragedia classica per la polifonia delle voci che ricorda il coro greco; ma si torna alla letteratura contemporanea con gli echi dell’irriverenza di Charles Bukowsky. Vengono evocati i viaggi nel regno dei morti, da Dante a Orfeo ma anche la magia dei personaggi che abitano l’Odissea, a partire dalle insidiose sirene, mentre la struttura e la durata temporale ci riportano all’ULISSE di Joyce. Le scelte linguistiche e stilistiche così accurate e coraggiose, le invenzione fantastiche all’altezza dei migliori distopici, impediscono al romanzo di cadere nel sentimentalismo e gli danno una tale forza espressiva da renderlo vitale sino alla frenesia anche se parla di morte. O meglio dell’illusione della vita. Ma non siamo anche noi in una sorta di limbo tra la nascita e la morte? Non ci culliamo nei rimpianti, sperando di rimediare ai nostri errori? Non ci capita di immaginare un futuro che sappiamo impossibile e tentare addirittura di cambiare il passato? LINCOLN NEL BARDO è alla fine la rappresentazione della condizione umana.

Minh Tran Huy, VIAGGIATORE SUO MALGRADO, O barra O edizioni, 2017 (traduzione di Giusi Valent)
Line, la narratrice di VIAGGIATORE SUO MALGRADO, il romanzo di Minh Tran Huy appena pubblicato da O barra O, lavora per un’agenzia di produzione fonica. Registra e archivia suoni per il cinema, la radio, la televisione. Viaggia quindi sempre con un registratore per catturare le onde del mare, piuttosto che il traffico di New York, campane di chiese e i suoni dei bar all’aperto, il vento nei boschi piuttosto che la pioggia sull’asfalto. Paradossalmente Line registra anche i silenzi perché è diverso quello di una foresta rispetto alla mancanza di rumori di una strada deserta. Poi c’è il silenzio come non detto o rimosso ed è quello di cui parla il libro della scrittrice francese, figlia di genitori vietnamiti. Si capisce dalle prime pagine che il nucleo vitale del memoir è nel rapporto padre-figlia e nel silenzio sul passato dell’uomo che anno dopo anno diventa sempre più pesante e misterioso per Line: “I musei erano diventati a poco a poco dei punti di riferimento, degli ancoraggi nel moto perpetuo che guidava i mei passi... Mi aggiravo al loro interno come dentro un bozzolo, ma senza avere l’impressione di esservi rinchiusa, perché ogni dipinto, ogni quadro, ogni scultura costituiva di per sé un universo: me lo aveva detto un giorno mio padre, che mi aveva trasmesso quella passione così come mi aveva trasmesso i suoi occhi neri, il suo carattere riservato e la sua distrazione. Non era un grande intenditore d’arte... ma ne era sempre stato attratto. Quando il piccolo contadino vietnamita che era, con il passare del tempo, degli studi e anche delle difficoltà, si era trasformato in un ingegnere francese in grado di provvedere alle esigenze della sua famiglia, mio padre aveva cominciato a varcare le porte di quei templi della cultura”. La scoperta che ognuno di noi a un certo punto della sua infanzia fa che i nostri genitori hanno avuto una vita prima di noi, la consapevolezza insieme fonte di curiosità ma anche di stupore che mamma e papà sono stati bambini e il voler sapere come e con chi hanno vissuto da piccoli di solito porta a un dialogo affettivo intenso e coinvolgente. Per Line e suo padre non è così: lui si sottrae sempre quando si parla del suo passato in Vietnam, non vede la necessità di rievocarlo: “A suo dire erano solo vecchie storie che era inutile rinvangare. Io ero nata in Francia e non avevo mai conosciuto la penuria di soldi e di cibo, il lutto, gli scontri mortali che avevano spinto i miei genitori all’esilio: perché non lasciarmi in un’ignoranza che era anche una grazia?”. Solo alla fine della vita il padre la mette a parte del suo passato, attraverso le figure dei cugini con cui è cresciuto e che hanno avuto un destino diverso dal suo. Ma in VIAGGIATORE SUO MALGRADO sembra che Minh Tran Huy debba preparare il terreno prima di arrivare alla storia del padre che è anche un doloroso capitolo della storia del Vietnam. E così ci racconta l’incredibile esistenza di Albert Dadas, operaio francese ammalato di dromomania, una forma di follia del fuggiasco. Albert infatti appena sente nominare un paese deve fare di tutto per raggiungerlo abbandonando casa, affetti, lavoro. Poi ci sono i viaggi, compreso l’ultimo, quello della speranza naufragata, dell’atleta somala Samia e i viaggi della protagonista per cercare i suoni da archiviare per il suo lavoro. Infine la voce del padre che evoca l’infanzia felice nella tenuta agricola della famiglia in Vietnam e le successive persecuzioni sino alla decisione di lasciare il paese per cercare un futuro migliore in Francia. VIAGGIATORE SUO MALGRADO racconta di andate e ritorni, viaggi obbligati e perdita di radici, ritorni mancati, ingiustizie, speranze, mancanze, ricordi preziosi e silenzi densi e pieni di parole non dette. Perché il silenzio diventa scudo dalla memoria, un velo steso sui lutti e le sofferenze del passato.

Anna Osei, DESTINAZIONE SOSTANZA, Europa edizioni, 2017
“Solo quando si capirà quanto la diversità culturale sia un privilegio ed una ricchezza, forse, forse il mondo sarà un posto migliore. Per questo scrivo. Scrivo per dar sfogo a tutte quelle parole mai dette a coloro che mi hanno ferito. Scrivo per dar voce a quelli che hanno vissuto almeno in parte ciò che ho vissuto io. Scrivo per tutte quelle piccole principesse che a carnevale verranno travestite da Spiderman. Scrivo nella speranza che la gente, in futuro si ritroverà a vivere in un paese più aperto. Scrivo per me stessa. Scrivo per voi. Scrivo per noi. Sto ancora camminando. Destinazione Sostanza. Un luogo in cui l’apparenza ha poco conto”. DESTINAZIONE SOSTANZA di Anna Osei in poche pagine è tantissimi libri: è la storia di Anna, nata a Mantova nel 1999, e della sua famiglia di origine ghanese; è una riflessione mai banale su come il colore della pelle condizioni, a volte senza che ci sia una via d’uscita, tutta la tua vita; è un intelligente analisi su cosa significa essere immigrati di seconda generazione; è un atto di accusa su come la parole possano ferire più dei colpi fisici e di come basterebbe usare quelle giuste come nero e afro-italiano. Ma soprattutto è il racconto di chi non si sente mai a casa, non per colpa sua ma per come lo fanno sentire gli altri: “Estranea in Occidente. Estranea in Africa. Troverò mai una casa?” si chiede Anna. Che in realtà una casa ce l’ha ed è Mantova dove è nata. Se non fosse che ogni anno deve rinnovare il permesso di soggiorno, che le insegnanti sottolineino il suo non essere veramente italiana, che le persone continuino a chiederle da dove viene e come mai parla così bene l’italiano. Per non parlare degli insulti e delle provocazione dei bulli già dalle scuole elementari. Tra episodi della sua infanzia e considerazioni che arrivano dalle sue riflessioni ma anche da letture e incontri, Anna cerca di bucare quella nebbia di stereotipi che impediscono di vederla per quella che è, una ragazza italiana che ama andare a scuola e ha tanti sogni per il futuro. Alcune delle situazione descritte da Anna sono talmente paradossali da risultare ridicole ed è in questo sguardo che riesce a sottolineare la comicità dei comportamenti discriminatori che si vede la capacità narrativa di Anna Osei. Così DESTINAZIONE SOSTANZA non è una mera cronaca di episodi da condannare - e già questo avrebbe dato senso alla pubblicazione -, ma un racconto pensato e articolato, pieno di punti di vista imprevisti, in cui ognuno di noi può riconoscersi. Questo grazie al talento narrativo della giovane autrice alla quale auguriamo di mettere tra i suoi sogni anche quello di continuare a scrivere per dare voce a chi spesso non ce l’ha.

Velibor Colic, MANUALE D’ESILIO IN TRENTACINQUE LEZIONI, Bompiani, 2017 (traduzione di Ileana Zagaglia)
E’ pieno di storie, libri, scrittori, ma anche di vita pulsante, odori, suoni, corpi, pensieri, MANUALE D’ESILIO, il nuovo romanzo di Velibor Colic, appena pubblicato da Bompiani nell’ottima traduzione di Ileana Zagaglia. Già dalle prime parole (“Ho ventotto anni e arrivo a Rennes con un bagaglio di sole tre parole francesi: Jean, Paul e Sartre”) ci troviamo su un confine a volte illimitato, a volte pericolosamente stretto tra la vita vera e la letteratura. Tutto il libro gioca in una sfida continua e inarrestabile tra le vicende del protagonista, ispirate a quelle dell’autore, fuggito in Francia per non combattere più nella guerra del suo paese, in Bosnia e il rapporto con la lettura e la scrittura. È una continua sfida che Velibor Colic lancia al lettore e per questo MANUALE D’ESILIO merita più letture. Perché da subito abbiamo una reazione emotiva nell’immergerci nella storia d’esilio e nella perdita di identità di cui soffre chi è costretto a lasciare il proprio paese: “Sono seduto su una panchina a Rennes. Sulla città piove un’acqua tiepida e benedetta. A poco a poco mi rendo conto che sono il rifugiato, l’uomo senza documenti e senza volto, senza presente e senza avvenire. L’uomo dal passo pesante e dal corpo spezzato, il fiore del male, inconsistente e disperso come polline. Non ho più nome, non sono più grande o piccolo, non sono più figlio o fratello. Sono un cane fradicio d’oblio in una lunga notte senza alba, una piccola cicatrice sul viso del mondo. Sono il rifugiato. Ora e domani. Qui e altrove. Sotto la pioggia o sotto il sole, d’estate come d’inverno. Davanti agli uomini e davanti alle donne. Davanti ai saggi e ai pazzi, vicino agli alberi e ai fili d’erba. In città e in campagna. Sono il rifugiato. Come in terra così in cielo”. Colic riesce a raccontare lo straniamento, la disperazione, ma anche gli aspetti involontariamente comici che accompagnano la non conoscenza della lingua e delle abitudini di un paese. Mettendo sempre al centro il corpo del rifugiato che non è solo da coprire e sfamare ma a volte anche da nascondere, da non ascoltare, da desiderare diverso per essere accettato: “Sono cosciente che il mio corpo è sfinito, percepisco le varici, le emorroidi, le carie, il ventre all’improvviso gonfio, la vescica che brucia, le mani che tremano come due foglie al vento del Nord”. Perché il rifugiato è il suo corpo e quello che la sua faccia dice di lui anche se spesso non rispecchia la realtà. Ma il migrante è anche in qualche modo letteratura perché il suo destino dipende da come racconta la sua storia. Il racconto quindi diventa quasi vitale. Il rifugiato è una moderna Sheherazade che deve essere capace di raccontare la storia giusta nel momento giusto. Così può accadere che prenda a prestito una storia o aggiusti il racconto del suo passato per essere accolto e ottenere la possibilità di una nuova vita. In MANUALE D’ESILIO la poesia è, insieme all’alcol, un rifugio per il protagonista e le letture diventano parte essenziale della sua storia di vita, perché le parole lette sono parte della sua identità. Forse la sola che gli è rimasta. E qui Colic passa dal dissacrante racconto della realtà spesso tragicomica del migrante a quella non meno vera della letteratura e ci mette di fronte a un interrogativo a cui già risponde con il suo lavoro: “Dio creò ex nihilo e noi a partire da rovine, ha detto in sostanza Jorge Louis Borges. Sempre secondo Borges, lo scrittore è una sorta di testimone. Di coscienza dell’umanità. Sono stati scritti libri dopo i gulag, dopo Hiroshima, dopo Auschwitz e Mauthausen... Si può scrivere dopo Sarajevo?... Per scrivere dopo una guerra bisogna credere nella letteratura”.

Lyndsay Faye, IL DIO DI GOTHAM, Einaudi, 2012 (traduzione di Norman Gobetti)
Lyndsay Faye, IL SEGRETO DI GOTHAM, Einaudi, 2016 (traduzione di Norman Gobetti)

New York è sicuramente una città letteraria. Molti di noi hanno percorso le sue strade anche solo grazie alle pagine del GRANDE GATSBY di Fitzgerald o ai romanzi di Paul Auster, abbagliati dalle mille luci di McInerney piuttosto che inebriati dallo shopping di Sophie Kinsella o dal glamour di COLAZIONE DA TIFFANY. Non è certo difficile trovare pagine che ci portino nella Grande Mela. Per non parlare naturalmente dei film. Non sorprende quindi che Lyndsay Faye abbia ambientato la sua trilogia di gialli, di cui Einaudi ha per ora tradotto IL DIO DI GOTHAM e il recente IL SEGRETO DI GOTHAM, a New York. Quello che però subito incuriosisce il lettore è che la scrittrice abbia scelto di raccontare la città a fine Ottocento quando nasce la prima forza di polizia professionale, le stelle di rame e soprattutto quando ancora sono ben presenti le sanguinose conseguenze della guerra civile. Una New York sicuramente molto diversa da quello di oggi. Dove però grazie alla capacità narrativa della Faye ci troviamo subito a casa. I due romanzi infatti mettono insieme atmosfere cinematografiche e letterarie, con un protagonista insieme dannato e romantico che perfeziona sempre più le sue doti investigative senza rinunciare mai alla sua umanità. Timothy Wilde, giovane brillante e pieno di sogni, in seguito a un incendio rimane sfigurato, senza lavoro e senza casa. E perde anche la ragazza che ama, che parte per l’Inghilterra. Valentine, l’influente fratello capo dei pompieri, riesce a farlo assumere nella neonata polizia cittadina e anche se all’inizio non è convinto, Timothy dimostrerà di avere un’acuta capacità di osservazione. E anche una notevole dose di empatia che gli permette di risolvere il suo primo caso, una terribile tratta di bambini gestita dalla pericolosa e affascinante tenutaria di un bordello, una sorta di Milady spietata e senza cuore. Ne IL SEGRETO DI GOTHAM ritroviamo il “nostro” Timothy e scopriamo il violento e spietato mondo dei black-birders, delinquenti e trafficanti di uomini in grado di rapire persone di colore, per portarle nel Sud degli Stati Uniti d’America e rivenderli come schiavi ai proprietari delle piantagioni. Anche in questo secondo libro non mancano violenza, povertà, maneggi politici ma sempre senza compiacimenti e senza rinunciare a un buon ritmo narrativo con un linguaggio adeguato all’epoca in cui si svolgono i fatti e studiati colpi di scena. E non possiamo non ammirare la precisa ricostruzione storica che ci racconta la crisi delle patate che spinge tantissimi irlandesi verso gli Stati Uniti, le differenze razziali, la tratta degli schiavi, la corruzione, la diffusione delle droghe, tanto che IL SEGRETO DI GOTHAM ci offre un ritratto della società newyorkese dell’Ottocento che diventa indispensabile per capire la New York di oggi. Non ci resta che aspettare la traduzione del terzo e ultimo romanzo della serie.

Sara Zarr, LE VARIAZIONI LUCY, EDT-Giralangolo, 2017 (traduzione di Aurelia Martelli)
Esiste una famiglia perfetta? Forse no, ma quella di Lucy, sedici anni, brillante pianista, enfant prodige già affermata sulla scena internazionale, potrebbe dall’esterno ambire al titolo. Una famiglia unita, una bella casa, un talento per la musica che sembra far parte del DNA e trasmettersi di generazione in generazione. E così concerti, gala, concorsi si susseguono in un crescendo di aspettative famigliari: i Beck-Moreau, facoltosa famiglia di San Francisco, sono musicisti da generazioni, e Lucy e il fratello Gus sono destinati a seguirne le orme. Fino a quando durante un prestigioso festival a Praga, Lucy abbandona il palcoscenico lasciando il pubblico allibito e il nonno furioso. Che cosa è successo? Lucy non vuole più che gli altri prendano tutti le decisioni per lei. Anche cosa dirle e tenerle nascosto. Il suo gesto, come era prevedibile, non spinge gli adulti a interrogarsi sulle motivazioni di Lucy ma, in particolare il severo nonno Beck, decidono di escludere Lucy dai loro progetti futuri per la musica e si concentrano sul fratello minore. Al quale viene affiancato un nuovo maestro, molto diverso dalle spigolose e severe insegnanti a cui erano abituati i due ragazzi. Il nuovo maestro porta una ventata di allegria e leggerezza e sembra mostrare che c’è un’altra strada per non sprecare il proprio talento. Ma è davvero un maestro perfetto? LE VARIAZIONI LUCY è un romanzo intenso e mai banale, scritto per gli adolescenti ma anche per i loro genitori. E’ un romanzo sul peso delle aspettative e su come neanche da genitori si riesca a uscire da un perverso meccanismo di eredità sbagliate. LE VARIAZIONI LUCY riflette anche sul valore e su come usare il proprio talento, sulla mitizzazione dei maestri e sulla delusione che subentra quando si scopre che non sono così perfetti. Come è naturale che sia. Il romanzo di Sara Zarr riesce a indagare il rapporto genitori-figli senza essere indulgente né con gli uni né con gli altri, ma mettendo in luce come anche in una situazione intellettualmente privilegiata le incomprensioni possano allontanare gli adolescenti dalla famiglia e paradossalmente spingerli a rinunciare a un prezioso talento. E come una cosa che dovrebbe far sentire liberi e dare gioia come la musica invece possa farti sentire imprigionato, incompreso e infelice.

Richard Bausch, LA PACE, Playground, 2017 (traduzione di Martino Adani)
Nutrivo grandi aspettative per il romanzo di Richard Bausch, per la prima volta tradotto in italiano, e non sono andate deluse. Lo scrittore americano descrive magistralmente pensieri e stati d'animo dei soldati protagonisti della storia, sollevando dubbi etici e questioni religiose. Si può mantenere un barlume di umanità quando si è circondati da morte e violenza? La vicenda si svolge in poche ore in una fredda e piovosa giornata invernale del 1944. Le truppe alleate sono sbarcate in Italia e un manipolo di soldati americani sta scalando una ripida collina nei pressi di Cassino per stanare i soldati tedeschi. I militari non potrebbero essere più diversi per origine e caratteri: il capitano Marson è figlio di militari, Saul Ash è ebreo e pacifista e Benny Joyner reagisce alla paura con espressioni volgari e offese razziste. Quando scoprono un soldato tedesco nascosto nel carro di un contadino rispondono al fuoco e lo uccidono. Spunta però fuori una prostituta che inveisce contro i soldati e viene freddata. Per alcuni è stata un’azione normale e giustificata dal contesto di guerra, per altri un vero e proprio omicidio a sangue freddo. Ma la discesa all’inferno prosegue all’esterno con il freddo e la pioggia battente e all’interno dei soldati con la paura e i sensi di colpa, la nostalgia per la famiglia e il dolore per i compagni persi. Ma la guerra ha un senso? E questo è l’unico modo per conquistare la pace? LA PACE è un libro lucido e commovente, duro e raffinato, che riesce a raccontare la disumanità della guerra e l’umanità di chi la combatte.

Rose Tremain, GUSTAV SONATA, 66thand2nd, 2017 (traduzione di Fiorenza Conte)
Ci sono libri che hanno il potere di riconciliarti con la letteratura ma anche con il mondo editoriale. E ti restituiscono il piacere della lettura ma anche quello della fisicità del libro. Mi spiego meglio. Nutro una grande passione per Rose Tremain, la considero una delle migliori scrittrici al mondo e ho letto tutto quello che è stato meritoriamente pubblicato in Italia da Marco Tropea editore. Che purtroppo ha chiuso e ha lasciato così orfani molti bravi autori stranieri. Ora 66thand2nd ha acquisito i diritti di alcuni libri di Rose Tremain e ha appena pubblicato il romanzo più recente, GUSTAV SONATA. Che ho leggo sul kindle e mi ha confortato sul talento della scrittrice inglese. Poi però ho ricevuto la copia cartacea e l’ho riletto. Ma soprattutto ho ammirato la rilegatura svizzera (capirete leggendo il perché), la grafica, il carattere scelto, la scansione dei capitoli. L’estrema cura perché il vestito del libro corrispondesse alla ricchezza e alla raffinatezza del romanzo. Con GUSTAV SONATA, un romanzo dal sapore mitteleuropeo, Rose Tremain ci porta in Svizzera e sviluppa la trama su tre fronti temporali, che vanno dal 1937 al 2002. Cominciamo con l’immediato dopoguerra dove conosciamo il Gustav del titolo a Matzlinger, allevato dalla madre rimasta vedova quando lui era ancora neonato. Poi la scena fa un passo indietro, al 1937, agli anni della guerra per vedere cosa è accaduto al padre del protagonista, Erich Perle, vicecapo della polizia della cittadina svizzera. Infine gli anni Novanta. Il cuore del romanzo è l’amicizia tra Gustav e Anton, che si incontrano sui banchi della scuola d’infanzia, e stringono un legame che li accompagnerà per tutta la vita. Da una parte il concreto, preciso, affettuoso Gustav: “Nonostante Emile Perle lo avesse addestrato ad amare senza essere riamato, Gustav riuscì a capire solo ora che era stata questa mancanza d’amore a renderlo così ossessivo nel perseguire un ordine e un controllo del tutto esteriori”; dall’altra il talentuoso Anton, sostenuto da una famiglia affettivamente ricca. GUSTAV SONATA è un romanzo intenso e mai banale, dove una scrittura efficace ed elegante ci accompagna all’interno delle dinamiche familiari, nel profondo dell’animo dei personaggi, e scava nelle questioni più controverse del nostro essere umani: “Amici miei, questo è il grande quesito dei nostri tempi: fin dove bisogna spingersi, nel farsi gli affari dei nostri simili, gli essere umani? Ci sforziamo in tutti i modi di arrivare all’indifferenza... Ma l’indifferenza, non è forse un crimine sul piano morale?”.

Olja Savicevic, ADDIO, COWBOY, L’Asino d’oro, 2017 (traduzione di Elisa Copetti)
“Avevo visto giusto: tutto era cambiato più velocemente e più profondamente di quanto fossi cambiata io, che avevo trascorso gli ultimi anni ferma su un nastro trasportatore, mentre tutto il resto correva e cresceva. Raramente scendevo alle grandi spiagge fatte di placche di cemento, sedie a sdraio e cocktail bar, alle marine dove erano ancorati gli yacht russi, più grandi delle nostre case, e ai quartieri di hotel con tanto di sbarra e custode; la potenza del carso e del rovere, gli scavatori e i camion, gli scheletri d’acciaio e i prismi lisci di vetro nero opaco il cui riflesso metallico nel giorno rovente uccideva qualsiasi desiderio dell’occhio”. Dada, una giovane studentessa fuori corso, è la protagonista di ADDIO, COWBOY, il sorprendete romanzo di Olja Savicevic, pubblicato da L’Asino d’oro edizioni, nell’ottima traduzione di Elisa Copetti. Ottima, perché non è stato sicuramente facile restituire lo stile della giovane scrittrice croata, fatto di raffinate metafore, immagini quasi dolorose nella loro profondità, unite a un’ironia insieme spietata e malinconica. Perché è la scrittura che colpisce da subito, anche per il fatto che mai diventa sfoggio di bravura, ma è sempre necessaria per immergerci nei luoghi della storia e ritrarre a fondo i personaggi del romanzo. Dada lascia Zagabria dove studia stancamente all’università per tornare nel paese natio vicino a Spalato per occuparsi della madre, che nel romanzo è sempre “Ma” e che alterna un’estrema fragilità a una tempra indomita. Non abbandona mai le due donne il pensiero di Danijel, il figlio minore, un diciottenne introverso e solitario con una grande passione per i film western, che si è tolto la vita. ADDIO, COWBOY non è solo la storia di una famiglia ma il ritratto di un paese ferito dopo la guerra civile, la voce di una generazione che non ha vissuto la guerra ma ne paga pesantemente la conseguenze, la fotografia di un doloroso contrasto tra la Croazia paradisiaca dei turisti e la vita desolante e quasi infernale degli autoctoni. Olja Savicevic, considerata tra i maggiori narratori europei, dà voce a una generazione che non vuole dimenticare perché “la guerra ha bisogno di essere completamente demistificata e questo non potrà mai essere fatto dai politici... Solo gli scrittori, gli artisti e i filosofi lo potranno fare”.

György Dragoman, FIAMME, Einaudi, 2017 (traduzione di Andrea Rényi)
“Sogno di un fuoco. Non so cosa bruci. Vedo alte fiamme rosse, dalla cima, dalla cima si innalza del fumo fuligginoso, il fuoco crepita, sibila e scoppietta, le fiamme stormiscono come il vento. Fa buio, c’è solo il fuoco a illuminare, non voglio guardarlo ma non riesco a voltarmi, devo guardarlo per forza, in mezzo alle fiamme vedo assi e travi, fogli carbonizzati, nella brace si muove qualcosa di rosso, non vedo cosa sia, non so cosa sia, non lo voglio sapere”. Questo il primo sogno che fa Emma, tredici anni nella sua nuova casa. In FIAMME, il secondo volume della trilogia dello scrittore ungherese György Dragoman, cominciata con IL RE BIANCO, tradotto con grande sensibilità da Andrea Rényi, la protagonista rimane orfana di entrambi i genitori a causa di un incidente automobilistico e viene accolta in un orfanotrofio. Sino a quando non si presenta un’anziana donna, che le dice di essere la nonna materna, che non ha mai conosciuto e di cui non conosceva neppure l’esistenza. Emma la segue nel villaggio natale della sua famiglia e scopre che la nonna è vista con timore perché capace di riti magici e di prevedere il futuro. Il nonno inoltre, scomparso da due mesi, sembra vivere ancora nella casa. FIAMME ci immerge da subito nei misteri che circondano la vita dell’anziana donna, ma la magia lascia presto il posto alla durissima realtà. Ne fa le spese subito Emma, appena entrata a scuola, emarginata perché accusata di far parte di una famiglia di traditori. La ragazzina cerca di ricostruire il passato dei genitori e nello stesso tempo di non pensare troppo a loro. La memoria personale e collettiva è uno dei temi centrali del romanzo: “Nonna dice che devo sapere che dimenticare è facile. Forse credo che non dimenticherò mai nulla, che ricorderò sempre tutto, ma non sarà così. Si possono dimenticare anche le cose più importanti, le migliori e le peggiori, il dolore più grande e la gioia più grande, tutto, proprio tutto. Mi guarda negli occhi e dice che l’oblio è come una maledizione che si posa sulle spalle di tutti, sulle mie, sulle sue, solo che sulle sue pesa di più”. Da una parte i ricordi familiari di cui la casa della nonna è una sorta di catalogo più o meno misterioso, dall’altra la memoria storica, la persecuzione nazista, il comunismo, la violenza, le rappresaglie, le divisioni sociali. Il romanzo è come la magia che la nonna fa con la farina: “sparge della farina sulla spianatoia, la liscia, crea uno strato uniforme... disegna un volto, lo riconosco. E’ il viso di nonno... immerge i palmi nella farina, li solleva, sulla spianatoia restano le impronte delle sue mani, si vedono le linee dei palmi, le grinze vorticose dei polpastrelli, si mescolano alla venatura del legno della tavola. Sospira, non profondamente, causando appena un lieve turbinio della farina, dice che sa da tempo che si può dimenticare tutto, che infatti dimenticherà tutto...”. Dalla polvere bianca pian piano si riconoscono i volti, gli oggetti, le storie, i pensieri. Si torna al passato e si vede un futuro che non riesce a scrollarsi di dosso la pesante eredità di ciò che è accaduto. Il lettore all’inizio rimane sorpreso e diffidente, come Emma, poi via via la farina si spiana e cominciamo a capire quello che è accaduto al professore, chi è in realtà Peter, cosa ha sofferto la nonna. Grazie anche allo stile duro e incisivo di Dragoman, che riesce, quasi magicamente, a risultare insieme evocativo e poetico.

Arno Camenish, LA CURA, Keller, 2017 (traduzione di Roberta Gado)
“Quanto dobbiamo restarci quassù, chiede lui mentre la segue zoppicando per la scarpata dell’albergo. Indossa un completo verde scuro e delle scarpe da ginnastica blu con la chiusura a strappo. I calzoni gli vanno corti. Quattro notti, dice lei, dai, vieni. Mamma mia, era meglio se ce ne restavamo a casa, dice lui, ho fame. Ha un sacchetto di plastica in mano. Una buona volta che abbiamo vinto ci andiamo eccome, fa lei. Vinci una volta a tombola, dice lui, una volta nella vita sei il grande vincitore, il re del montepremi, e per punizione ti tocca dormire quattro notti fuori casa, e per di più il trentunesimo anniversario di matrimonio, ma ti sembra giusto, sospira lui, cristo se è ripido...” È sempre una gioia per i lettori la pubblicazione di un nuovo libro dello scrittore svizzero Arno Camenish. Perché sanno che troveranno ne LA CURA, come nei libri precedenti, un insieme unico di invenzione letteraria e capriole linguistiche, umorismo e malinconia, pensieri profondi sempre veicolati con calviniana leggerezza. Nato nel 1978 a Tavanasa nel Cantone dei Grigioni, Arno Camenisch scrive in tedesco e in romancio sursilvano. È autore di poesia e prosa, i suoi libri sono tradotti in più di venti lingue e ha vinto numerosi premi in Italia e all’estero. Ne LA CURA, come sempre tradotto da Roberta Gado che merita un ulteriore plauso per il suo ottimo lavoro e la capacità di restituire la musicalità e il ritmo del romanzo, assistiamo al dialogo tra due anziani coniugi che passano quattro giorni in un lussuoso albergo dell’Engadina. La vacanza è il primo premio della tombola del piccolo paese da cui provengono e per lei è un sogno realizzato, l’occasione per riassaporare la giovinezza perduta. Lui invece affronta tutto come se fosse il suo ultimo viaggio. Armato dell’inseparabile borsa di plastica dove tiene tutto quello che gli può servire, affronta con un mugugno di malumore tutte le attività che la moglie propone e rimpiange il secondo premio della tombola, che gli avrebbe permesso di stare comodamente a casa sua: “Avessimo vinto il secondo premio, dice lui, hai visto che cesta di roba da mangiare che era? Non li trovi neanche in Croazia dei cesti grossi così. E invece no, il bel cesto se l’è beccato quel testa di legno dell’Hans che adesso se ne sta a casa come un pascià e se la ride fin dentro i calzoni”. E così tra brevi escursioni, cene esclusive, visite alle bellezze locali i due anziani coniugi ripercorrono il loro matrimonio e anche la loro vita, in un percorso a tappe che è quasi una sorta di via crucis. Inutile e faticosa per lui, vitale e appassionante per lei. Attraverso i quadri narrativi ci troviamo anche noi in riva al lago, nella confortevole camera da letto, nella sala da pranzo, sul bordo della piscina dove lui e lei guardano sempre con occhi diversi alle cose e alle persone che intercettano con il loro sguardo. Così conosciamo i tanti rimpianti di lei, che cerca ancora di fare ingelosire il marito, parlando dell’atletico primo fidanzato, un italiano di nome Renzo. E la visione limitata e comoda della vita di lui che è frutto però di un’esistenza di lavoro e sacrificio. LA CURA ci regala sorrisi e pensieri e si può leggere come un piccolo bignami di filosofia del matrimonio: “Del coraggio non ci si pente, dice lei... Ma dei guai che combina, fa lui, di quelli sì”.

Kim Thuy, IL MIO VIETNAM, Nottetempo, 2017 (traduzione di Cinzia Poli)
“Come tutti i profughi aveva imparato in fretta a rifugiarsi nella sua bolla per potersi trovare da sola. La prima volta che in Quebec ho sentito l’espressione 'sei nella mia bolla', pensavo che il mio interlocutore mi dichiarasse la sua amicizia permettendomi di stare nei suoi pensieri, nel suo spazio interiore, in realtà voleva piuttosto che mi togliessi dai piedi. Mentre la cultura occidentale incoraggia a esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, i Vietnamiti li serbano gelosamente per sé o li comunicano a parole con molto ritegno, perché lo spazio interiore rappresenta l’unico luogo inaccessibile agli altri. Il resto, dai risultati scolastici fino agli stipendi passando per il sonno, è di dominio pubblico, comprese le storie d’amore”. Come sempre in bilico tra Vietnam e Canada, Kim Thuy anche ne IL MIO VIETNAM, il suo terzo libro tradotto in italiano, ci parla della fuga e dell’esilio. Con una scrittura evocativa e profonda e brevi capitoli che sembrano quasi racconti a se stanti. Seguiamo le vicende che vedono protagonista Vi, titolo tra l’altro dell’edizione originale del libro, una ragazza apparentemente fragile come il suo nome che significa “preziosa”, “minuscola” e sembra destinarla a un’immagine di estrema timidezza e riservatezza. In realtà Vi osserva con molta attenzione quello che le accade intorno e non accetta passivamente i piani sul suo futuro della madre e dei tre fratelli maggiori. Come sempre nei libri della scrittrice vietnamita nella vita dei protagonisti c’è un prima e un dopo e un viaggio verso l’ignoto che però è l’unica speranza per un futuro migliore. La vita di prima di Vi la vede appartenente a una grande e ricca famiglia di Saigon, con una madre infaticabile e molto intelligente che sa sfruttare i suoi grandi talenti e un padre affascinante e viziato che si lascia guidare dalla moglie. Vi è l’unica figlia femmina: “Ero la più piccola, l’unica femmina con tre fratelli maggiori, protetta da tutti come le preziose boccette di profumo dietro le vetrine”. Il suo dopo è il Canada raggiunto a causa della guerra dopo una drammatica fuga che ha segnato un’intera generazione di vietnamiti ma di cui nessuno pare più ricordarsi. I “boat people” infatti hanno segnato la vita del Vietnam degli anni Settanta ma il paese sembra aver dimenticato questo drammatico esodo verso l’Occidente. Grazie al suo talento di scrittrice Kim Thuy riesce a descrivere cosa significhi lasciare un’infanzia trascorsa nel benessere e nella sicurezza per affrontare un paese con un clima diverso, suoni e profumi estranei e soprattutto una lingua che non si riesce mai a maneggiare con una vera corrispondenza tra il pensiero e la parola. Alla fine Vi non riesce a mettere d’accordo ma accetta le sue due anime: da una parte l’amore e la stima per la madre e i valori fondanti della società da cui proviene; dall’altra l’esigenza di adeguarsi agli usi e costumi del suo nuovo paese e soprattutto l’affermazione dei suoi veri desideri. Così IL MIO VIETNAM è anche un delicato e intenso romanzo sull’innamoramento e l’amore, in cui ognuno può o può sperare di riconoscersi. Come Vi, insieme fragile e rocciosa, così è il romanzo di Kim Thuy: raffinato, delicato ma indistruttibile e incisivo come un diamante.

Marcello Fois, DEL DIRSI ADDIO, Einaudi, 2017
“Secondo alcuni le parole sono auspici. Sono chiavi che aprono le porte di stanze oscure. Di quelle tenute chiuse per anni, di quelle di cui ci si dimentica. Magari questo è quanto succede agli uomini e alle donne di questa terra, è cioè di abitare in case che hanno stanze chiuse che possono nascondere tesori, ma anche, molto opportunamente, custodire segreti indicibili”. Il nuovo romanzo di Marcello Fois, DEL DIRSI ADDIO, conferma il talento dello scrittore nell’usare o meglio nel “far suonare” la lingua italiana per illuminare sentimenti per lo più indicibili. Per questo non è facile raccontare la storia di PER DIRSI ADDIO, che si svolge per lo più a Bolzano, perché anche se c’è un filo conduttore che è la misteriosa scomparsa di un bambino, in realtà il romanzo è un caleidoscopio ricco e complesso. In cui il lettore si immerge e quasi si perde in un’atmosfera sospesa e tangibile insieme. Dalla scomparsa di Michele, 11 anni, un piccolo genio che riversa sui genitori il suo sapere enciclopedico, si dipanano le storie degli altri personaggi che sono talmente dense che sembrano quasi far dimenticare il bambino. Che pare scomparire anche dal libro. Rimane come sfuocato sullo sfondo intanto che seguiamo le indagini, ma sopratutto la vita privata dell’ispettore capo Sergio Striggio, fuggito da Bologna per non respirare la delusione del padre poliziotto che non avrebbe voluto che il figlio seguisse le sue orme. E soprattutto Sergio vuole mettere tra loro una distanza per non dovergli confessare la propria omosessualità. Anche se Leo, il suo compagno, è stanco di aspettare una sorta di ufficializzazione del loro rapporto o comunque un atteggiamento più sereno di Sergio verso la sua sessualità. Una dinamica di coppia complessa come quella che vivono i genitori di Michele, Gea e Nicola. La prima con un passato inquietante, il secondo disilluso e insoddisfatto. Via via entrano in scena gli altri personaggi, dal sacerdote che ha chiamato la polizia quando i genitori si sono resi conti della scomparsa di Michele in una piazzola di sosta vicino al bosco sino alla sua giovane insegnante. Striggio sembra non trovare un senso ai tanti indizi che portano in varie, troppe, direzioni le ipotesi investigative. E intanto deve misurarsi con la visita del padre, la sua malattia, che lo costringe a guardarlo dritto negli occhi, prima di dirsi addio. Il romanzo di Fois, come dice il bellissimo titolo, è la parabola dei figli, di cosa sono diventati e del più o meno voluto o doloroso distacco dai padri. È un’indagine accurata e intensa, grazie alla letteratura, dei meccanismi più nascosti dei legami familiari. In una Bolzano imprevista, ritratta geometricamente attraverso i percorsi dei personaggi e le case che abitano, si muovono i tanti fili della storia sino allo scioglimento finale dove ogni tassello trova posto. In DEL DIRSI ADDIO si respira il clima della tragedia greca e insieme si freme come in un noir contemporaneo, forse perché le due cose non sono poi così lontane, come la mitologia che Michele ama applicare alla realtà. Ma alla fine è anche un romanzo sull’amore, sulla sua ineluttabilità e sulle sue tante declinazioni. Perché non ci sono confini al sentimento, nel bene e nel male: “Proprio non capiva come si poteva essere tanto infelici e tanto felici nello stesso momento”.

Joann Sfar, LUI ERA MIO PADRE, Clichy, 2017 (traduzione di Tania Spagnoli)
“... Quest’opera racconta il conflitto più comune che esista: sopravvivere al proprio padre e accorgersi, talvolta con orrore, di somigliargli”. Colpisce da subito in LUI ERA MIO PADRE, monologo intenso e spietato, tradotto da Tania Spagnoli, la capacità di Joann Sfar, fumettista, regista, sceneggiatore, di disegnare con le parole i suoi sentimenti in seguito alla morte del padre. Nato a Nizza nel 1971, Joann Sfar esplode come autore di fumetti già a 23 anni, e si impone come uno dei più grandi autori con opere come IL GATTO DEL RABBINO, PROFESSOR BELL e PICCOLO VAMPIRO. Nel 2010 ha diretto il film GAINSBOURG. VIE HÉROIQUE, che si è aggiudicato il Prix César come miglior film. In questo breve e incisivo memoir tratteggia la figura del padre attraverso il racconto della sua vita personale e professionale: “Devo molto a mio padre, ma il regalo più grande che mi ha fatto consiste nel non saper disegnare. Grazie papà di aver lasciato uno spazio vergine in cui ancora oggi mi sforzo di crescere”. Nelle poche pagine del libro il lettore può trovare tanti libri: la ricostruzione del rapporto padre-figlio; le considerazioni mai banali sulla malattia e la morte; un’analisi ironica e profonda sulla religione ebraica; la storia di un talento e della passione per il disegno; la complessità dei rapporti sentimentali. La parola “padre” può essere declinata in vari modi perché Joann Sfar non ci parla solo del padre biologico e dei suoi parenti di sangue ma anche dei suoi maestri artistici e cinematografici e dell’eterna ricerca di maestri. Fino alla considerazione che siamo cresciuti quando non cerchiamo più dei padri o cominciamo a guardare ai maestri con spirito critico e meno timore reverenziale. Il racconto della vita del padre, del suo successo professionale e con le donne, del suo carattere affascinante e volitivo si accompagna alla fallimentare vita sentimentale del figlio, al controverso rapporto con la religione ebraica, alla difficoltà di relazionarsi con gli altri, in particolare quando si gira un film. Da LUI ERA MIO PADRE nasce prima di tutto un ritratto di Joann più che di André perché “a quanto pare diventare adulti significa questo: il padre muore, non si hanno più altri nemici oltre a se stessi”. La morte del padre costringe il figlio a guardare con occhi diversi alla propria vita, a fermarsi per riflettere sul passato ma soprattutto sul futuro perché si abbandona il ruolo di figlio e si inizia un nuovo capitolo di vita. LUI ERA MIO PADRE è anche una riflessione sul senso del raccontare e sugli strumenti che abbiamo per illustrare e riflettere sulla realtà. Sfar vuole restituire l’intera esistenza del padre e non i suoi ultimi e sofferenti giorni. E anche se sulle tombe ebraiche è vietato mettere fotografie per impedire che la memoria si fissi su un momento preciso dell’esistenza del defunto, non è facile lasciarsi indietro le immagini della malattia e della vecchiaia. “Non scrivo perché ci si ricordi dell’agonia. Mi auguro di sbarazzarmene” dice Sfar e quindi “Ricordo mio padre, André Sfar, che rideva sino alle lacrime quando guidava la sua barca. Ricordo la neve sui suoi denti quando facevamo una gara di sci, e a volte vincevo io. Ricordo che le sue Alfa Romeo non soddisfacevano i suoi sogni di ragazzino. Sognava di guidare un giorno una Porsche. Non è mai successo”.

Mariana Enriquez, LE COSE CHE ABBIAMO PERSO NEL FUOCO, Marsilio, 2017 (traduzione di Fabio Cremonesi)
Le storie sono storie ma quando le racconta uno scrittore acquistano un potere quasi magico. Non è facile spiegare come accade ma è invece molto semplice capire quando ciò avviene. Già dalle prime parole delle storie di Mariana Enriquez sentiamo subito di trovarci di fronte a una scrittrice dalla voce autentica e coinvolgente. Nata a Buenos Aires nel 1973 è considerata una delle scrittrici più dotate e brillanti della sua generazione. Laureata in giornalismo, dirige il supplemento culturale del quotidiano argentino Página/12. I suoi racconti sono apparsi su prestigiose riviste internazionali, tra cui il New Yorker, Granta e McSweeney’s. LE COSE CHE ABBIAMO PERSO NEL FUOCO, una raccolta di racconti neri che ha conquistato pubblico e critica di tutto il mondo, verrà pubblicato in 20 paesi. In Italia lo propone Marsilio nell’ottima traduzione di Fabio Cremonesi che riesce a restituirne la ricchezza stilistica e il ritmo incalzante e inquietante. Per i racconti di Mariana Enriquez sono stati scomodati nomi illustri come quello di Edgar Allan Poe ma soprattutto il termine gotico. Che sicuramente descrive il sapore delle storie ma che risulta comunque riduttivo per questi racconti che pulsano di realtà e magia insieme. Le storie di Mariana Enriquez infatti sono effettivamente giocate sul filo della credulità ma sempre quasi dolorosamente legate alla realtà. In particolare alla storia argentina, ai quartieri degradati di Buenos Aires, alle differenze sociali, alla povertà come condanna a morte. Così nel primo racconto “Il bambino sporco” convivono una casa borghese e di fianco un materasso sudicio su cui vive un bambino di cinque anni, denutrito e costretto a mendicare dalla madre tossica. E quando i due mondi sembrano potersi toccare l’orrore segna la fine del contatto. La scrittrice argentina è maestra nell’usare tutti i registri del noir e dell’horror, del surreale e del fantastico senza mai perdere un’empatia affettuosa e quasi commossa verso i suoi personaggi. Così i racconti sembrano spaccati di cronaca sublimati dallo sguardo letterario che li eleva a perfetti meccanismi di visione del mondo. E’ questo infatti che Mariana Enriquez riesce a fare con la scrittura: restituirci uno sguardo vero sull’umanità senza falsi moralismi o cedere allo splatter gratuito. Si sente una sorta di patto non detto con il lettore, dove la scrittrice si ferma sull’orlo dell’eccessivo senza mai superarlo. LE COSE CHE ABBIAMO PERSO NEL FUOCO è un catalogo di personaggi e situazioni della quotidianità che convivono con il magico e la superstizione, fantasmi, ossessioni, esseri a metà tra il reale e il fantastico ma sempre dotati di una loro ingombrante fisicità. I racconti si leggono con la costante certezza che sta per accadere qualcosa che sfuggirà alla razionalità ma a cui è impossibile sottrarsi. Come impossibile diventa smettere di leggere queste storie ambientate in luoghi incombenti, case misteriose, calli senza uscita, mariti che spariscono, bambini che appaiono, visioni che obbligano all’autolesionismo. Fantasmi che sembrano più reali delle persone in carne ed ossa. E già aspettiamo con ansia il romanzo che Marsilio tradurrà il prossimo anno.

Gusti, MALLKO E PAPÀ, Rizzoli (traduzione di Elisabetta Tramacere e Riccardo Zanini)
Nicoz Balboa, BORN TO LOSE, Coconino Press - Fandango, 2017

Due diari per immagini che mi hanno colpito e soprattutto convinto. MALLKO E PAPÀ di Gusti e BORN TO LOSE di Nicoz Balboa sono due storie autobiografiche raccontate da due artisti, maestri del graphic novel che mettono sulla carta momenti della loro vita e il rapporto con i figli. Gusti ovvero Gustavo Rosemffet è nato a Buenos Aires e vive da 30 anni a Barcellona. E' musico, ornitologo, illustratore e autore. Ha illustrato molti libri per l'infanzia e ha pubblicato in più di 20 paesi. In MALLKO E PAPÀ racconta la nascita del figlio con la sindrome di down, l’immediata non accettazione e l’innamoramento per Mallko e il suo mondo perché come dice nella bellissima frase iniziale: “Ricordo che alcuni anni fa chiesi all’universo, al grande spirito, o come volete chiamarlo, la possibilità di provare 'l’amore totale'. Non qualcosa che ci si avvicinasse, no, proprio l’amore vero. Si deve stare attenti a ciò che si desidera, perché si può avverare...”. Il libro è una sorta di album di crescita di Mallko e del rapporto con il padre. Dal castello iniziale dove Gusti si sente attaccato dalla nascita di Mallko sino all’immediata accettazione della madre Anne e del fratello maggiore Theo. Dalle snervanti lotte per dormire e mangiare al rapporto con gli altri bambini, alle scoperte che Mallko regala ogni giorno agli altri. Un diario di crescita e paternità che riguarda tutti noi perché alla fine racconta una famiglia. La famiglia fortunata di Mallko. BORN TO LOSE nasce da un diario grafico giornaliero dal titolo MOMeskine che Nicoz Balboa tiene da anni online. Nata a Roma, l’artista e tatuatrice vive in Francia dal 2001. I suoi fumetti autobiografici appaiono dal ’96 prima nelle sue fanzine autoprodotte e fotocopiate, poi nel suo blog a fumetti. Partecipa a diverse antologie e lavora come illustratrice e pittrice, partecipando a mostre collettive e con personali a Parigi, Berlino e New York. In BORN TO LOSE giorno per giorno ci racconta la difficoltà di conciliare il lavoro con la maternità, il complicato rapporto con il marito francese, l’amore per la figlia Mina, la nostalgia dell’Italia, la scoperta dei tatuaggi, l’alternanza tra forza e fragilità che la caratterizza, o meglio che ci caratterizza. Una donna unica come tante.

Francesca Scotti, ELLISSI, Bompiani, 2017
Ci sono temi che come comete attraversano il mondo editoriale per poi scomparire. Così negli anni Novanta abbiamo assistito a un proliferare di auto fiction e romanzi sui disturbi alimentari senza che nessuno di questi titoli, per quanto validi, varcasse il confine della letteratura. Lo fa ora ELLISSI di Francesca Scotti. Che sarebbe riduttivo catalogare come un romanzo sull’anoressia, perché è molto di più ma, sicuramente, riesce a rappresentare letterariamente il rapporto malato tra un’adolescente e il suo corpo. La storia vede al centro della scena Erica e Vanessa, quindici anni, legate da un’amicizia che è un patto di ferro per liberarsi del peso del corpo e trasformarsi in due leggere ed eteree libellule. Prima di tutto Francesca Scotti mette in scena con una veridicità poetica e spietata insieme la potenza del sentimento dell’amicizia. E soprattutto le tantissime diramazioni di un riconoscimento di anime che fa quasi sembrare le due ragazze, sempre in sincrono, una realtà sola. Per fortuna c’è quel “quasi” che all’inizio è pressoché impercettibile ma via via prende lentamente e inesorabilmente sempre più spazio. ELLISSI però è un romanzo fatto di intersezioni e la storia di Erica e Vanessa non può prescindere da quella delle loro famiglie, orfana della madre quella di Erica, con una madre ingombrante quella di Vanessa. Poi ci sono gli abitanti di Villa Flora, la clinica sul lago in cui le due amiche vengono ricoverate: le ragazze con problemi alimentari come loro e soprattutto Diego, sfuggente e imprevedibile ma per questo estremamente attraente. Al di là della storia sicuramente ben orchestrata, che riesce a dare corpo all’adolescenza e al legame dell’amicizia, il valore di ELLISSI è nella scrittura apparentemente semplice, ma in realtà ricca e precisa. Una scrittura che spesso sorprende per come riesce a rappresentare senza cambiare tono le situazioni più fisiche e scabrose e quelle più intime e poetiche. Restituendo lo sguardo intenso e tormentato di Erica e Vanessa che volendo negare il corpo lo rendono in realtà il punto fermo della loro vita e il vero protagonista del romanzo. Perché “tra due ali c’è un corpo”.

Francesca Capossele, 1972, Playground, 2017
Ogni tanto accadono dei piccoli miracoli, che confortano chi ama leggere e lavorare con i libri. Così immersi in questo meccanismo quasi comico, dove assistiamo al rapporto inversamente proporzionale tra la diminuzione statistica di lettori e il proliferare di fiere e manifestazioni dedicate ai libri, non resta altro che consolarsi con la lettura e scovare, magari in provincia, un ottimo romanzo d’esordio. Come quello di Francesca Capossele, che, come recita il risvolto di copertina di 1972, appena pubblicato da Playground Fandango, è nata nel 1958 e vive e lavora a Ferrara. Non ci serve sapere altro perché quello che ci interessa è il libro. “Il 1972 fu l’anno che tagliò in due la mia giovinezza come una torta pronta per essere divorata. La nonna era morta due mesi prima, all’inizio di dicembre. Io avevo sedici anni, Marcello diciassette, Maria Luisa aveva appena superato i cinque anni”: così Cristina racconta del trasferimento della sua famiglia da Ferrara a Bologna. Ma non è solo il trasloco che rende significativo il 1972: intanto la scelta di lasciare Ferrara, imposta dal padre, aggrava ancora di più i rapporti tesi tra i genitori. Inoltre a Bologna nella vita dei due fratelli, come si definiscono loro, quasi negando la presenza della piccola Maria Luisa, entrerà Elisabetta. Il romanzo di Francesca Capossele segue la crescita quasi simbiotica di Cristina e Marcello ma soprattutto riesce a dare voce a quel momento che varia da ragazzo a ragazzo e da famiglia a famiglia in cui i giovani pretendono, a volte con incosciente violenza, di staccarsi dai genitori. Il distacco non è mai senza traumi, ma, nel caso della famiglia di Cristina, è la madre a farne maggiormente le spese, perché ha abdicato da se stessa per dedicarsi ai figli, ottenendo al posto di gratitudine e amore, solo disprezzo: “Non ti amavo mamma. Non potevo. Un po’ di amore è venuto dopo tanto tempo, da una regione remota, non so più nemmeno io se del cuore o della memoria. Comunque, dopo... Parlavo male di te a Marcello. Ti trovavo noiosa, intrigante, finita, ti mettevo a confronto con nonna Amelia e non c’era gara. Marcello tagliava corto: non vi sopportava entrambe”. Il padre invece viene paradossalmente amato perché cerca egoisticamente di essere se stesso: “Ti ho amato papà, proprio perché avevi sacrificato gli altri pur di salvare un pezzo di te stesso”. 1972 è il romanzo di una ragazza e poi di una giovane donna della media borghesia di provincia, cresciuta protetta in una casa con giardino e poi proiettata in una città segnata profondamente dagli anni Settanta. Francesca Capossele riesce con grande empatia e con una veridicità spietata a seguirne lo sguardo e il cambio di punti di vista, via via che gli anni e le esperienze si accumulano: “Certo, non tutto mi fu subito chiaro, ma alla fine compresi quanto mia madre avesse lottato disperatamente tutta la vita, con odio e impazienza, contro se stessa e contro gli altri perché i suoi figli non facessero mai la sua stessa fine”. Cristina racconta in prima persona e spesso si rivolge direttamente agli altri protagonisti, creando così un ritmo narrativo letterario e intimo insieme. Chi dice io è il filo conduttore del racconto ma il romanzo alla fine è polifonico, pieno di voci, creando un effetto che sembra unire la tragedia greca e sequenze cinematografiche che ricordano “La famiglia” di Ettore Scola. Perché alla fine il romanzo illumina chi, felicemente come Cristina e Marcello, o infelicemente come i loro genitori e la sorellina, si sono trovati a condividere uno spazio comune chiamato famiglia.

Sarah Manguso, IL SALTO. ELEGIA PER UN AMICO, NN, 2017 (traduzione di Gioia Guerzoni)
“Ci sono padri buoni e padri cattivi, figli buoni e figli cattivi, mariti buoni e mariti cattivi, ma i grandi amici sono tutti uguali. Li scegliamo e ce li teniamo. Ci unisce soltanto l’amore. Quando dico che il mio amico è morto non sembra una gran cosa. Non era mio padre o mio marito o mio figlio. Eppure c’è un amico più affezionato di un fratello, dice un proverbio dell’Antico Testamento”. IL SALTO di Sarah Manguso appartiene a quella piccola categoria di libri di auto fiction d’autore come L’ANNO DEL PENSIERO MAGICO di Joan Didion, dove l’esperienza personale diventa letteratura e quindi universale. Dove chiunque di noi scrivendo del suo dolore privato abbonderebbe di frasi fatte e banalità anche se chiaramente espressione di un dolore autentico, gli scrittori come Sarah Manguso riescono a esternare il lutto attraverso l’arte. Mostrando al lettore tutta la gamma di sentimenti che possono accompagnare la morte improvvisa e per di più autoinflitta di un amico, dando loro voce e forma. IL SALTO non è una cronaca, non cerca risposte, non si accanisce a scoprire cosa è successo a Harris, musicista e compositore di talento, in quelle dieci ore dalla fuga dall’ospedale sino al salto sotto il treno. Perché, per Sarah, Harris non è morto e anzi le vive al fianco con i suoi scherzi, le interminabili conversazioni, le sue psicosi: “La distinzione tra noi e le persone che soffrono di psicosi potrebbe ridursi a nulla, ma rimane il fatto che abbiamo paura di essere quello che sono loro, paura di vedere quello che vedono, paura di sapere quello che sanno, e quindi crediamo di essere diversi, e quindi è così”. Sarah Manguso, scrittrice e poetessa, usa il suo talento per domare le parole, renderle portatrici del dolore ma anche della bellezza di Harris, della sua musica, per cercare di entrare nella “scatola nera di una mente abbandonata a se stessa”. E lo fa entrando prima nella sua di mente. Ne nasce un libro pieno di cose e voci dove si alternano storie, pensieri, notizie, presente e passato, strane coincidenze e segnali del destino, come nelle tante fotografie che ritraggono la vita di Harris e dei suoi amici.

Ayelet Gundar-Goshen, SVEGLIARE I LEONI, Giuntina, 2017 (traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi)
“Forse questo è il momento per soffermarsi e domandare cosa Eitan Green sa di Eitan Green. Sono quarantun anni che cammina dentro questo corpo, e pensa di conoscerlo. D’un tratto capisce che tutto quello che sapeva non è sufficiente, forse nemmeno vero. Perché ecco ha fatto una cosa che mai avrebbe immaginato di fare. Potremmo tornare indietro, cercare segni premonitori. Ma si è laureato con lode, e al militare ha servito in un’unità scelta... Improvvisamente, questa storia gli è piombata addosso da chissà dove. Tutte le sue conoscenze restano valide, tranne la conoscenza di se stesso. Una notte ha investito un uomo sul ciglio della strada e da allora scappa. Scappa dall’eritreo sul ciglio della strada e incontra un’eritrea sulla porta di casa. Perché scappando si incontra quello da cui scappiamo”: la prima parola che viene in mente dopo la lettura di SVEGLIARE I LEONI, il nuovo romanzo della scrittrice israeliana Ayelet Gundar-Goshen è: sorprendente. Da subito entri nella storia di Eitan che con la jeep investe e riduce in fin di vita un immigrato eritreo. Neurologo di talento, Eitan si è esiliato a Beer Sheva dopo la scoperta del sistema di corruzione sistematico che il suo primario e mentore sosteneva nel principale ospedale della capitale. È sposato con Liat che fa la poliziotta con grande convinzione e ha due figli che cerca di educare all’onestà e al rispetto degli altri. Eppure in quella notte scura in tutti i sensi, quando vede che per l’uomo investito non c’è nulla da fare, fugge e torna a casa come se niente fosse. Il giorno dopo però Sirkit la moglie di Assum, l’uomo investito, si presenta con il suo portafoglio e lo ricatta. Comincia così per Eitan una doppia vita che fatica sempre più a sostenere. La vera sorpresa del romanzo non è nella trama sicuramente avvincente ma in tutto quello che la scrittrice israeliana riesce a metterci e in tutti i pensieri che riesce a innescare. A partire da quello sull’immigrazione (“Emigrare significa lasciare un posto per un altro, trascinandoti attaccato alla caviglia con una catena d’acciaio il posto che hai lasciato. Se emigrare è difficile, è perché è dura camminare per il mondo con un intero paese legato alla caviglia”) attraverso l’incontro tra chi ha una vita privilegiata e chi non ha nulla. In questo Ayelet Gundar-Goshen non fa sconti al suo protagonista e neanche ai lettori, ma neppure quando ci fa entrare nel matrimonio di Eitan e Liat o nel rapporto con i loro figli. Con una lente spietata sempre rivolta ai sentimenti più nascosti e grazie a una scrittura ricca ma mai ridondante, barocca ma sempre efficace, che alterna quasi a sorpresa le voci narranti, senza rinunciare a una sottile ironia, la scrittrice israeliana ci mette di fronte al vero senso della vita. Usando con sapienza tutti i registri della narrativa, dal giallo al romanzo sociale e psicologico, dal poliziesco al romanzo sentimentale. Perché per cercare di entrare nella complessità della mente umana servono tutti gli strumenti possibili. Così SVEGLIARE I LEONI è un viaggio all’interno di noi stessi, dei nostri pensieri, della nostra educazione, di quel male nascondo in ognuno di noi. E insieme una sorta di gioco di punti di vista, dove un avvenimento può essere meglio spiegato con una ricostruzione plausibile più che con la realtà. SVEGLIARE I LEONI è un libro pieno di intelligenti e vitali domande: conosciamo la persona che ci vive accanto? Possiamo prevedere come ci comporteremmo davanti a una scelta improvvisa? Riusciamo ad essere davvero quello che desideriamo essere?

Luca Giachi, COME UNA CANZONE, Hacca, 2016
“Questa non è la storia di un gruppo musicale. Al massimo, proprio al massimo, potremmo dire che ha come sfondo la musica. E l’ipotesi di mettere su un gruppo. Tuttavia da qualche parte bisogna cominciare quando si racconta una storia. E questa storia comincia perché io avevo deciso di rimettermi a suonare. Mancavo da qualche tempo dalla fantastica e meravigliosa scena musicale indipendente romana. Per quei fortunati che non l’avessero mai frequentata stiamo parlando più che di una pseudo scena musicale di una sorta di setta per sfigati accaniti di cause perse in partenza. E posso garantire che ci sono poche cose che danno il senso di cause perse in partenza quale quella di suonare musica originale a Roma. Non solo, proprio per una forma di autopunizione, a cui non sono mai riuscito a sottrarmi, non solo facevo musica originale ma ho sempre suonato musica per disadattati”: comincia così il secondo romanzo di Luca Giachi, musicista romano che sa usare il suo talento non solo per i testi delle sue canzoni. Già dalla prima pagina infatti COME UNA CANZONE rivela una sua voce autentica e un’ironia non banale sulla visione del mondo di Mattia, il protagonista trentenne del romanzo. COME UNA CANZONE è un libro sorprendente perché usa gli ingredienti tipici del romanzo giovanile, la precarietà non solo sentimentale, i rimpianti per non essere quello che si sognava da ragazzi, (“Era come realizzare che non stavamo più solo guardando avanti, ma cominciavamo a guardare indietro per capire che eravamo davvero diventati da quello che volevamo essere”),la delusione del crescere e l’amicizia come unico punto saldo della vita, ma con una intelligente leggerezza che restituisce le vite dei personaggi e fa insieme sorridere e pensare. COME UNA CANZONE può anche essere una guida per scoprire una Roma più autentica e anche le sue varie stratificazioni sociali. Tutto grazie a una scrittura apparentemente facile, orecchiabile come direbbe Mattia, che è frutto di un indubbio talento narrativo ma anche di un lavoro costante sul linguaggio, che non scimmiotta mai lo slang giovanilistico. E ci regala una voce autoironica e partecipe insieme e un personaggio che è il filo conduttore del romanzo ma dialoga alla pari con gli altri personaggi, come in una canzone ben riuscita.

Kent Haruf, LE NOSTRE ANIME DI NOTTE, NN, 2017 (traduzione di Fabio Cremonesi)
La pubblicazione dell’ultimo romanzo dello scrittore americano Kent Haruf, LE NOSTRE ANIME DI NOTTE, apre a considerazioni non solo legate al libro ma comunque importanti per il lettore consapevole. O per diventare tale. Kent Haruf è il nume tutelare della sua casa editrice italiana, la milanese NN, che grazie alla trilogia della pianura ha fatto conoscere in Italia uno scrittore straordinario, probabilmente nel modo e nel momento giusto, visto che BENEDIZIONE era già stato pubblicato in precedenza senza nessun riscontro. La vicenda Haruf ha messo in moto delle sinergie quasi magiche, ma questo non deve farci dimenticare il talento e l’intelligente lavoro dell’editore. Che il successo dei libri dello scrittore americano ha confortato e supportato nel proseguire il coraggioso progetto editoriale. Anche grazie ai tantissimi lettori che, per lo più con il passaparola, hanno creato una sorta di grande fan club dello scrittore americano e di conseguenza anche del suo editore, che ha valorizzato i romanzi di Haruf con l’ottima traduzione di Fabio Cremonesi e una veste grafica accurata. I libri di Haruf sono inoltre stati adottati da moltissimi gruppi di lettura. NN si è accorta di questo e ha dedicato loro uno spazio e del materiale preparato appositamente pensando alla lettura condivisa. Ma cosa hanno trovato tanti lettori nelle vicende quotidiane della cittadina inventata di Holt nel Colorado dove le esistenze si consumano nelle case ben tenute, tra la ferramenta, i campi, le mucche? Cosa colpisce di queste vite spesso solitarie e apparentemente banali? Il successo di Haruf sancisce, se ancora se ce ne fosse bisogno, che la qualità letteraria non è un optional ma il primo elemento che contraddistingue un vero scrittore. La scrittura di Kent Haruf ha insieme una profonda fisicità e una grande forza evocativa. Attraverso i gesti quotidiani dei suoi personaggi ne racconta l’anima più nascosta, i pensieri celati, la sofferenza, le piccole gioie, le speranze spesso disilluse per il futuro. In questo nuovo romanzo, completato poco prima di morire, i lettori ritrovano lo sguardo insieme malinconico e caldo, acuto e senza sconti, ma sempre compassionevole, che Haruf destina ai suoi personaggi. Si avverte anche un nuovo ritmo, una sorta di urgenza di raccontare già dalle prime pagine: “E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio... Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me. Cosa? In che senso? Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare”. La proposta di Addie lascia prima Louis sbalordito poi deciso a unire la sua solitudine con la sua vicina di casa, anche lei vedova da tempo. Attraverso le chiacchierate notturne i due amici ripercorrono la loro infanzia, i matrimoni, i figli, i desideri rimasti tali e la visione che avevano della vita dell’altro, lontano solo poche centinaia di metri. Ma in una piccola cittadina queste visite notturne di Louis non passano certo inosservate... Maestro come dicevamo nel raccontare la quotidianità, Kent Haruf sublima il suo talento nel ritrarre i bambini e gli anziani e il loro incontro, come accade qui tra Andie, Louis e Jamie, il nipote di Andie, scaricato come un pacco dai suoi genitori. Ma soprattutto Haruf inietta una linfa vitale di poesia nelle sue creature. E nei lettori.

Gaia Manzini, ULTIMA LA LUCE, Mondadori, 2017
“Nella mia esperienza di lettrice ho sempre amato le storie famigliari in ogni loro forma: romanzi, racconti, memoir, lettere... La mia attenzione si desta quando la narrazione riesce a mostrare i rapporti interni alla famiglia in tutte le loro contraddizioni, nelle loro zone di luce e in quelle di ombra... L’origine di quello che siamo è dentro la storia della nostra famiglia, in quello che abbiamo accettato e in tutto quello che abbiamo rifiutato. Quando parliamo della nostra famiglia, parliamo di noi”. Da lettrice a scrittrice, Gaia Manzini continua ad occuparsi di famiglia. In ULTIMA LA LUCE, il suo nuovo romanzo, è quella di Ivano, ingegnere milanese dalla vita lineare e ben costruita, senza nessun segno di cedimento o deviazione dalla rotta prestabilita. Una vita forse non eccitante, ma appagante come la sua casa curata e in ordine e la moglie Sofia, sempre impeccabile. L’unica scossa al microcosmo borghese in cui si muove a suo agio Ivano viene ogni tanto dal fratello Lorenzo che, dopo un infarto che ha rischiato di stroncarlo, lascia il mondo della finanza per andare a vivere a Santo Domingo. Dove Ivano per dieci anni ha sempre rinunciato ad andarlo a trovare e dove invece vola subito dopo la morte della moglie. Il romanzo di Gaia Manzini sembra un viaggio dalle tante fermate, dove si sviluppano via nuovi temi e riflessioni. ULTIMA LA LUCE infatti è un ritratto sociale del nostro paese; un affresco della Milano sfavillante degli anni Ottanta; delinea la spietata parabola di un matrimonio per bene senza risparmiarci la disillusione del rapporto padre-figlia ed è alla fine un’analisi profonda e mai scontata di come il denaro, poco o tanto che sia, condizioni le nostre vite. Con un linguaggio avvolgente e rassicurante, Gaia Manzini spinge pian piano la lama nel lettore facendolo spogliare di ogni illusione davanti a un requiem spietato e senza rimpianti del mondo borghese. Un mondo dove, come direbbe Sofia, c’è un vestito per ogni occasione. Un mondo che lascia il testimone all’incertezza e alla precarietà, anche sentimentale, che segna Anna, la figlia trentenne di Ivano. Ma forse c’è un altro modo di vivere felici, senza strade segnate e rassicuranti.

Donatella Di Pietrantonio, L’ARMINUTA, Einaudi, 2017
“Ci siamo fermate una di fronte all’altra, così sole e vicine, io immersa sino al petto e lei al collo. Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate”: non sorprende che le protagoniste del nuovo romanzo di Donatella di Pietrantonio siano due sorelle. Anche se il libro si intitola L’ARMINUTA, cioè la ritornata, senza la sorella minore Adriana la storia non sarebbe la stessa. Perché quando la ragazzina tredicenne di cui non si dice il nome viene riportata alla casa dei suoi veri genitori che non ha praticamente mai visto, sono le trecce scomposte e il sorriso di Adriana che le salvano in qualche modo la vita. Quel giorno crolla il mondo dell’arminuta che viveva coccolata e felice in una cittadina di mare, passava il suo tempo libero con le amiche tra le lezioni di danza e quelle di nuoto e non aveva nessuna preoccupazione se non quelle tipiche della sua età. Poi la madre comincia a non uscire dalla camera e i genitori le fanno uno strano discorso sulla sua vera famiglia da cui deve tornare. Così si ritrova in una casa piccola e cadente tra le montagne, con una donna sfatta con un ciuffo di precoci capelli bianchi, che culla un neonato appiccicaticcio, un padre silenzioso che rimprovera con gli occhi e punisce con le mani e due fratelli maggiori diffidenti se non ostili. Solo Adriana le permette di resistere allo shock, solo lei la accoglie nel suo letto sporco di urina e nel suo cuore. La sorella minore la protegge, le insegna come comportarsi in quel mondo estraneo e difficile, la ama di un affetto incondizionato e la considera un dono inaspettato, una sorella piovuta dal cielo. Come dicevamo, Donatella di Pietrantonio è maestra nel raccontare i meccanismi della famiglia e già in BELLA MIA era descritto un complesso rapporto tra sorelle. Ritroviamo la grande capacità di scrittura, grazie anche a un linguaggio ancestralmente legato al luogo della storia, un misto di italiano e dialetto, una lingua arcaica, che non è mai folclore o espediente letterario, ma che è necessaria per rendere la durezza della vita nel paesino tra le montagne abruzzesi negli anni Settanta. Come sempre Donatella di Pietrantonio sembra farci toccare con mano ogni cosa, ci racconta luoghi e persone attraverso gli odori, i cibi, gli umori dei corpi, tanto che la fisicità diventa un topos letterario. L’ARMINUTA ha poi un ritmo intenso che non lascia scampo al lettore, al quale sembra addirittura lanciare una sfida, tante sono le domande e le suggestioni che accompagnano la lettura e che non ci abbandonano neppure a libro chiuso. A partire dal senso della maternità, tra desiderio, possibilità, impegno, investimento emotivo. L’amore di una madre si può misurare sul desiderare per la figlia un’educazione e un futuro migliore, anche se significa rinunciare a lei? “Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori. Se dovevo rivolgermi a lei con urgenza, cercavo di attirarne l’attenzione in modi diversi. A volte, se tenevo il bambino in braccio, gli pizzicavo le gambe per farlo piangere. Allora lei si girava nella nostra direzione e le parlavo”. Per passare al sentimento fraterno, al legame di sangue che forse è solo nei tratti del viso, ma che può anche essere un riconoscimento congenito. Poi le conseguenze che le decisioni e l’egoismo degli adulti possono avere sui bambini, perché l’arminuta perde ogni riferimento ed è condannata a soffrire di mancata appartenenza. E ancora il contrasto tra la vita arcaica e senza prospettive che si nutre di arretratezza culturale, degrado, fatica di andare avanti e quella borghese piena di progetti per il futuro, che il benessere sembra alimentare. Ma dipende davvero tutto da dove nasci?

Vanna Vinci, FRIDA. OPERETTA AMORALE A FUMETTI, 24 ORE Cultura, 2016
Sembra impossibile che si possa comprimere un’intera vita in un libro, per di più di immagini, poi leggi FRIDA. OPERETTA AMORALE A FUMETTI di Vanna Vinci e ti sembra una magia realizzabile. E di avere incontrato Frida Kahlo e non solo attraverso i suoi quadri. Capisci che si può raccontare una vita così intensa con immagini e parole ma che anche tu, come lettore, devi impegnarti a ripercorrere più volte il libro perché sono talmente tanti gli spunti, i collegamenti, le storie che ti restituiscono la vita personale e professionale di una grande artista che una prima lettura non è sufficiente. Vanna Vinci del resto è una delle più note fumettiste e illustratrici italiane. Tra gli altri riconoscimenti il Premio “Gran Guinigi” a Lucca Comics come Miglior Disegnatore nel 2005. Il suo intento è quello di fare da portavoce a figure femminili scomode, irriverenti, indipendenti, dalla Bambina Filosofica le cui massime pungenti sono raccolte in svariati volumi (l’ultimo dei quali è NO FUTURE del 2015, edito da Bao Publishing), a Sophia, un’aspirante fumettista appassionata di alchimia fino ad arrivare alla decadente marchesa Luisa Casati e all’eccentrica pittrice polacca Tamara de Lempicka. E ora la pittrice messicana, che affrontava nello stesso modo l’arte e l’amore, a cui hanno dedicato biografie, romanzi, mostre, documentari, film, libri per ragazzi. Lei stessa si è raccontata attraverso i suoi celebri autoritratti, dove traspare il suo talento ma anche la sua personalità poliedrica e fuori dagli schemi. È quindi interessante vederla ritratta da un’altra artista e da un’arte, il fumetto, che si rivela duttile e perfetta per restituire una vita straordinaria: “Dall’inizio mi sono subito posta il problema di come raccontare un personaggio e un carattere così intenso e complesso come quello di Frida Kahlo. Un universo individuale completamente diverso dalla Casati e da Tamara, che sono due monoliti inamovibili dalle loro posizioni. Frida è contraddittoria, cangiante, mobile, appassionata. La cosa che di sicuro ho deciso da subito è che non si sarebbe trattato né di una specie di documentario, come per la Casati, né di un monologo, come per Tamara. Sarà un dialogo, come le Operette morali di Leopardi, o i dialoghi di Paul Valéry: L’anima e la danza, Eupalinos o l’Architetto, Dialogo sull’albero. Saranno tavole libere, con un impaginato senza regole”. Il dialogo ideato da Vanna Vinci è quello tra Frida e la morte con la quale la celebre pittrice non ha smesso mai di incrociarsi, dal terribile incidente da cui è uscita in fin di vita e piena di gravi fratture, sino ai tentativi di suicidio. Attraverso le parole della morte e di Frida percorriamo la sua esistenza come in un film di cui siamo gli unici spettatori. Vanna Vinci è riuscita a cogliere ma soprattutto a trasmettere i sentimenti di Frida, dalla bambina figlia di un fotografo tedesco emigrato in Messico sino all’incontro con Diego Rivera che tanta influenza avrà, nel bene e nel male, nella sua vita. Tutto parla di Frida: gli oggetti, gli abiti, gli animali, il rosso del sangue e del rossetto, i lussureggianti elementi naturali, i quadri suoi e di Diego Rivera, tanto che le immagini sembrano in continuo movimento. Grazie a uno studiato disordine che gioca con il bianco e il vuoto e si serve di parole sparse, vignette, pagine di lettere, sequenze di fumetti tradizionali e immagini libere in primo piano. Alla fine la sensazione è quella di avere vissuto al fianco di Frida.

Marilynne Robinson, LE CURE DOMESTICHE, Einaudi, 2016 (traduzione di Delfina Vezzoli)
“Mi chiamo Ruth. Sono stata allevata insieme a mia sorella più piccola, Lucille, da mia nonna, Mrs Sylvia Foster, e quando lei morì dalle sue cognate, Miss Lily e Miss Nona Foster, e quando loro scapparono via, da sua figlia, Mrs Sylvia Fisher. Siamo passate da una generazione all’altra, ma abbiamo sempre vissuto nella stessa casa, la casa della nonna, costruita per lei da suo marito, Edmund Foster, un impiegato delle ferrovie che lasciò questo mondo molti anni prima che io ci entrassi. Fu lui che ci relegò quassù, in questo posto inverosimile”. Comincia così LE CURE DOMESTICHE il romanzo di esordio di Marylinne Robinson, già uscito in Italia nel 1988, e che Einaudi ripropone ora, sempre con la traduzione di Delfina Vezzoli, dopo il successo della trilogia composta da GILEAD, CASA, LILA. LE CURE DOMESTICHE ha vinto il PEN/Hemingway Award per la miglior opera prima ed è stato inserito da Guardian Ulimited fra i cento migliori romanzi di tutti i tempi e in qualche modo già contiene i temi delle opere successive. Prima di tutto quello della famiglia e della nostra appartenenza. Poi il rapporto con la natura che ne LE CURE DOMESTICHE è rappresentato dal lago che costeggia la fangosa cittadina di Fingerbone dove vengono catapultate le due sorelline della storia. Il lago è minaccioso, è una sorta di cimitero della famiglia Foster perché lì giacciono Edmund ed Helen, la mamma di Ruth e Lucille, ma è anche un richiamo suadente alle cui lusinghe le bambine e la zia Sylvie non riescono a sottrarsi. Altro tema ricorrente è quello della casa e non a caso uno dei romanzi della famosa trilogia di Marylinne Robinson si intitola proprio CASA: qui è il luogo dove passano le varie generazioni e anche nel rapporto con i suoi muri, gli oggetti, le stanze, i suoi rituali conosciamo i vari personaggi, dalla precisione quasi maniacale di nonna Sylvie all’abbandono quasi totale della zia Sylvie. Che è la protagonista vera della storia, perché il suo arrivo cambierà le vite delle due ragazzine. Sylvie è una vagabonda, ama viaggiare libera, si sente a suo agio nella solitudine e nel buio della notte, eppure abbandona la sua vita girovaga per occuparsi delle nipoti. Se ne cura come riesce, lasciandole libere e favorendo il contatto con la natura, non imponendo orari, e senza preoccuparsi della scuola o di pasti regolari e nutrienti. Eppure Ruth sente una corrispondenza profonda con Sylvie, non la sovrappone alla figura materna ma in qualche modo trova una nuova madre. Come dice giustamente Doris Lessing “Non è un romanzo da leggere in fretta, perché ogni sua frase è una delizia” e sul valore della scrittura non c’è altro da aggiungere. Ma LE CURE DOMESTICHE è da leggere lentamente anche per i tanti riferimenti letterari, gli incastri, i giochi speculari, lo stile poetico e la sottile ironia con cui viene rappresentato il microcosmo di Fingerbone. Un mondo tutto al femminile dove gli uomini sono assenti o rappresentano in qualche modo l’autorità come il preside e lo sceriffo. E nonostante racconti di due ragazzine orfane, di una famiglia quanto mai originale, di un luogo fangoso e deprimente, il romanzo lascia una calda sensazione di lievità, un pizzico di conforto, un alito di libertà, il pensiero che crescere è sempre una bella avventura.

Sonya Hartnett, RAGAZZI D’ORO, Bompiani, 2016 (traduzione di Claudia Manzolelli)
Un romanzo a più voci che è una sorta di catalogo sofferto e variegato di figure paterne: con RAGAZZI D’ORO la scrittrice australiana Sonya Hartnett scrive un libro potente, lirico, con una scrittura vivida e lessicalmente ricca. Autrice con all’attivo romanzi per adulti e premi e riconoscimenti per i suoi numerosi libri dedicati a bambini e ragazzi, con questo romanzo unisce il pubblico dei giovani lettori e degli adulti in una storia necessaria per entrambi. Sono le figure maschili, in particolare quelle paterne, che la Hartnett rappresenta e indaga con una profondità precisa e dolorosa. Il romanzo tiene legato subito il lettore grazie alla costruzione a più voci, dove i diversi punti di vista ci illuminano sulle azioni e le indoli dei personaggi. A partire dal protagonista principale che non può che essere Rex Jenson, uomo bello e affascinante nello stesso tempo, suadente, elegante, a suo agio in ogni situazione non solo per la bellezza ma per una sicurezza che lo fa brillare come una sorta di semidio: “Grazie a questa serata in cui le verità vengono alla luce, si sta rendendo conto di un’altra cosa: suo padre può essere assurdo. E’ stato un dio e poi l’uomo dei miracoli, e di recente gli è sembrato più un estraneo, o qualcuno che lui vorrebbe gli fosse estraneo, ma durante queste metamorfosi suo padre è sempre rimasto un uomo solenne...”. Quando gli abitanti di un quartiere popolare di una cittadina di provincia se lo vedono arrivare alla messa domenicale si chiedono cosa abbia spinto un dentista di successo a lasciare i quartieri eleganti per trasferirsi in una contrada anonima e squallida come la loro. I ragazzi invece si concentrano sui figli di Rex: Colt, dodici anni, e Bastian più piccolo ma soprattutto estremamente ingenuo, delicato e vulnerabile: “Colt è una versione più piccola del padre-divo-del-cinema, con gli stessi capelli folti castani – una vera e propria zazzera, come il rigoglioso pelo di un animale – lunghi sul viso, gli stessi zigomi, le stesse sopracciglia e lo stesso naso perfetto. Suo fratello ha gli stessi riccioli color mogano, ma ha i lineamenti della madre, la bocca rosa aggraziata e il mento piccolo e cesellato. Entrambi hanno gli occhi ambra del padre e la sua carnagione olivastra. Sono ben vestiti, ma la sensazione di estrema qualità va oltre, come se fossero tirati a lucido fin nelle ossa”. Ma soprattutto i ragazzi del quartiere rimangono a bocca aperta di fronte a quello che Rex compra ai figli: ogni giocattolo o oggetto desiderabile loro ce l’hanno. Ma perché riempire i figli di così tante cose? Aleggia nel romanzo una tensione sottile che sembra ora prendere la strada della casa di Freya, la dodicenne che vede in Rex il padre ideale, ora di quella dei nonni di Avery, che vive praticamente abbandonato a se stesso, ma che sembra non abbandonare mai l’ordinata casetta di mattoni rossi dei Jenson. Ragazzi che devono fare i conti con famiglie numerose, mancanza di soldi, liti, abbandoni, se non con la violenza vedono, come una rivelazione, la famiglia perfetta. Ma è davvero così? Come dice Freya bisogna abbandonare presto le illusioni: “Adesso è più grande e più sveglia, e sta cominciando a capire che il mondo è un castello e che i bambini hanno a disposizione una sola stanza. E’ crescendo che capisci che il castello è immenso e che ha infinite botole e porte segrete e corridoi sotterranei; che è abitato da fantasmi e che fa paura persino a se stesso. E crescendo sei costretto a uscire dalla stanza che tu lo voglia o no. Freya lo vuole e ha fretta”.

Piotr Pazinski, LA PENSIONE, Mimesis, 2016 (traduzione di Alessandro Amenta)
“Chi di loro si era salvato, perché alcune brave persone gli avevano dato rifugio, perché non c’era posto sul treno o per qualche altro motivo inspiegabile, ad esempio l’intervento di un Creatore indolente che non ce la faceva più a guardare quella carneficina e aveva deciso di agire, o il fatto che il diavolo, per divertimento o per conservare il proprio buonumore, aveva lasciato al mondo qualche anima come souvenir? O forse era stata solo una coincidenza a permettere loro di sopravvivere, per testimoniare, gridare e lamentarsi, e non dimenticare mai, o dimenticare per sempre, ma anche così per ricordare, di generazione in generazione, fino alla fine, fino all’ultimo respiro, e forse persino un giorno in più”. La trama de LA PENSIONE, il romanzo di Piotr Pazinski vincitore del premio letterario dell’Unione Europea, è molto semplice ma svela via via, come una matrioska, tantissime storie. Dopo un lungo viaggio in treno, un giovane uomo raggiunge la pensione in mezzo al bosco, vicino a Varsavia, dove, da bambino, trascorreva le vacanze insieme alla nonna. Qui ritrova non solo il vecchio edificio ma la memoria degli ospiti della pensione, attraverso i quali ripercorre la storia della sua famiglia e quella degli ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah: “Le uniche cose di cui non volevano parlarmi erano la loro vita prima della guerra e i loro cari, che la guerra gli aveva portato via”. Risentire le voci, ripercorrere le scale, rivedere le vecchie camere riporta il protagonista ai giorni pieni di sole e segreti, ai dialoghi spesso interminabili sulla religione yiddish, sulla politica, la filosofia o anche solo il cibo servito alla pensione. Si alternano così nel romanzo gli ospiti attuali e i fantasmi di quelli che sono passati per quelle stanze in un gioco della memoria che ingloba anche il lettore. “Perché sei venuto? Per cercare compagnia? Qui non è rimasto quasi più nessuno, ogni settimana portano via qualcuno... e i giovani non si affezionano a questo posto, non ci vogliono venire, perciò che farai? Con i vecchi è una noia”.

Paolo Cognetti, LE OTTO MONTAGNE, Einaudi, 2016
Non amo le classifiche ma se devo segnalare un titolo imperdibile del 2016 tra i primi metterei senza dubbio LE OTTO MONTAGNE di Paolo Cognetti. Che già avevo apprezzato in SOFIA SI VESTE SEMPRE DI NERO ma che qui quasi sublima il suo talento. Riuscendo anche a sorprendermi perché da praticamente allergica alla montagna, ho cominciato la lettura con un atteggiamento sospettoso e alla fine delle pagine sarei partita subito per le cime più alte... Ma al di là del racconto della montagna, con cui immagino che chi la ama più di me possa avere una corrispondenza affettiva immediata e più calda, ho trovato il romanzo perfetto. Aggettivo che non uso spesso. Nella scrittura essenziale e ricca insieme non c’è una sbavatura e anche nella regia della trama ci sono dei richiami interni mai banali che danno un senso di grande naturalezza, ma che in realtà sono magistralmente costruiti. E a parte le mie poche simpatie per le cime, non bisogna farsi ingannare dal titolo e dall’ambientazione: senza dubbio la montagna non è un mero paesaggio ed è una delle protagoniste della storia, ma il cuore del romanzo è nella rappresentazione del rapporto padre-figlio. Che Cognetti indaga con profondità quasi chirurgica così che ogni lettore, qualunque sia la sua storia, si sente chiamato in causa. LE OTTO MONTAGNE è anche un riuscito racconto dell’amicizia, in particolare quella che ci vede protagonisti bambini. Anche se non vogliamo dare credito all’affermazione che non possono esserci vere amicizie dopo i quarant’anni, è indubbio che chi ti ha conosciuto bambino ha uno sguardo privilegiato su di te. Come succede tra Pietro, milanese, figlio di genitori montanari che colgono ogni occasione per salire in montagna e Bruno, che delle montagne è figlio più che dei suoi genitori e che forse sarebbe stato l’erede ideale per il padre di Pietro. I due prima si annusano e poi diventano inseparabili quando i genitori di Pietro affittano una casa nel paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa. Da quel primo incontro sulla riva del “loro” torrente, seguiamo le loro vite che, ogni tanto, tornano a intersecarsi. LE OTTO MONTAGNE è anche il racconto di una generazione o meglio uno spaccato politico e sociale del nostro paese, un racconto sulla difficoltà di realizzare i proprio sogni anche se riguardano una sperduta malga di montagna e la rappresentazione di un precariato a volte cercato, ma molto più spesso subito. Si diceva all’inizio della montagna e delle otto del titolo, il cui significato scoprirete leggendo, e anche se il romanzo non si riduce a un racconto di montagna anche quando descrive lo spirito di chi ama vivere sulle cime Cognetti non rischia mai di essere retorico e la montagna non diventa mai metafora della vita ma è la vita stessa. Alcuni personaggi come la madre o Pietro la amano ma non ne subiscono un’attrazione totale come invece accade per il padre di Pietro e per Bruno. Ma il rapporto tra padre e figlio in qualche modo passa attraverso le lunghe e avventurose scalate e il comprendere alla fine il legame inscindibile tra il chimico trapiantato a Milano dalle montagne venete e le cime in cui si rifugia appena può. Anche se finora abbiamo parlato di personaggi maschili non sono assolutamente in secondo piano le donne del romanzo, che, attingendo al gergo montanaro, sono in realtà quelle che guidano la cordata e in qualche modo sembrano compensare lo smarrimento maschile. Pur se in apparenza molto diverse come la selvatica e solitaria mamma di Bruno e la calorosa ed empatica mamma di Pietro. Il valore di LE OTTO MONTAGNE è anche in questa ricchezza di storie e personaggi che, come i caprioli o le marmotte, troviamo mentre scaliamo le pagine del libro. E Cognetti non tira mai la corda ma lascia al lettore la giusta libertà per dialogare con questo libro dal sapore classico e moderno insieme, sentito ma non sentimentale, intenso e avvolgente.

Josephine Johnson, ORA CHE È NOVEMBRE, Bompiani, 2016 (traduzione di Beatrice Masini)
Fa impressione leggere ORA CHE È NOVEMBRE e scoprire che Josephine Johnson ha ricevuto per questo romanzo il Premio Pulitzer nel 1935 e per di più a 24 anni! Perché ci troviamo di fronte a una delle voci più importanti della letteratura americana e per citare degli esempi recenti possiamo tranquillamente affiancare nella libreria i libri di Josephine Johnson a quelli di Edward Williams e di Kent Haruf. Mi ha ricordato poi un altro premio Pulitzer poco noto ma sempre notevole come SO BIG di Edna Ferber. Come negli esempi citati, il valore del libro non è tanto nelle vicende narrate, ma nella capacità di rendere vivi i personaggi con una scrittura intensa, che ingloba il lettore nella storia. L’io narrante è Marget che, con le due sorelle, si è dovuta trasferire dai modesti agi della vita cittadina nella tenuta di campagna di famiglia a causa dei problemi finanziari del padre. Il romanzo racconta mese per mese il lavoro dei campi, il legame inscindibile con la natura ora materna ora tremenda matrigna, la crescita delle tre ragazze, divise tra il lavoro e i sogni per il futuro. Viviamo anche noi il mondo di Marget, il rapporto di amore-odio con il padre, l’affetto incondizionato per la madre, dotata di un naturale e spesso immotivato ottimismo, i timori causati da Kerrin, la sorella maggiore, tanto affascinante quanto instabile e imprevedibile sino all’amore per Grant, il bracciante assunto dal padre. E ancora i rapporti con i vicini, la condivisione dei lutti e il mutuo soccorso, ma anche i dolorosi divari sociali tra chi non ha debiti e quindi è libero e chi invece deve inseguire le ipoteche e le tasse o non riesce a pagare l’affitto. Una bella riscoperta anche grazie a una traduzione attenta e sentita.

Allan Gurganus, L’ESCA, Playground, 2016 (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini)
Dopo NON ABBIATE PAURA e ANCHE LE SANTE HANNO UNA MADRE, Allan Gurganus ci riporta con L’ESCA a Falls nella Carolina del Nord per raccontarci un altro indimenticabile personaggio. E mentre nei libri precedenti la perfezione era declinata attraverso una coppia luminosa e grazie a Caitlin, la figlia che tutte le madri vorrebbero avere (ma anche no) qui l’essere perfetto è Doc Roper, l’amatissimo medico della cittadina. Si conclude quindi la trilogia di Local Souls, grazie alla quale lo scrittore americano ha dato voce a tantissimi personaggi creando una commedia umana di provincia, ma dolorosamente universale. Il mito della perfezione è quello che immediatamente colpisce il lettore perché Roper sembra appartenere a una sorta di piccolo manipolo di semidei, scesi per caso sulla terra a illuminare le nostre vite da imperfetti. Dotato di un carisma naturale, della capacità di fare perfettamente qualsiasi cosa, di un fisico senza difetti, di un’eleganza mai affettata e della capacità di conquistare tutti anche solo con uno sguardo, Roper è raccontato dalla voce Bill a cui il medico, grazie a una prognosi precoce, fatta con estrema naturalezza dopo che nessun medico avevo scoperto il difetto congenito al cuore, ha praticamente salvato la vita. Intanto che conosciamo l’esistenza perfetta del dottore torniamo ad affacciarci alle case di Falls o meglio della sua parte socialmente più elevata, quella di Riverside, alla quale Bill è ammesso grazie all’infaticabile lavoro del padre, deciso a fare un salto sociale: “Non ho mai conosciuto nessuno meno istruito e più pieno di fantasie grandiose di mio padre. Finivi per ammirarne il potenziale. E io ho anche finito per perdonargli di avermi regalato le opportunità di vita offerte da Riverside. Il biglietto per la classe media, una volta perforato, è irrevocabile. Se sai davvero apprezzare la differenza tra uno Chablis del supermercato e un autentico Malbec Reserve, allora vuol dire che hai gustato la mela, o almeno l’uva. Non puoi tornare indietro. In paradiso e all’inferno non accettano la stessa moneta”. Doc Roper sembra eterno, una sorta di highlander ma a un certo punto getta nella disperazione i suoi pazienti decidendo di andare in pensione. E riesce anche a sorprenderli perché non si dedica al volontariato, magari in Africa, come molti hanno pensato ma comincia a realizzare anatre esca in legno. Come c’era da aspettarsi è bravissimo e le sue anatre sono vere opere d’arte con quotazioni subito altissime. Tanto che Bill vorrebbe comprarne una, ma Roper non glielo permette: “Sentite, è possibile che nel profondo odiamo quanto di meglio il nostro stormo possa offrire?”. Questo è il nodo della storia: perché Bill dipende emotivamente da Roper? Perché cerca sempre la sua amicizia e approvazione? Certo, in qualche modo gli ha salvato la vita, ma Bill sente che tra lui, contadino mancato e con il cuore tarato, guardato ancora con sospetto al golf club e l’essere perfetto che brilla qualsiasi cosa faccia, c’è qualcosa in comune. Che la perfezione non esiste e prima o poi accade qualcosa che riesce a scalfire anche un semidio. E che magari invece un uomo comune riesce nella sua imperfezione a metabolizzare e superare. Come accade alla comunità di Falls, colpita da una calamità imprevedibile che scompiglia tutti gli equilibri preesistenti, ma soprattutto quello di Roper. L’ESCA conferma il talento narrativo di Allan Gurganus che chiama i lettori a mettere in gioco il proprio di talento per non perdersi nulla della magia che crea dando vita ai suoi e alla fine nostri personaggi.

Harry Kressing, IL CUOCO, e/o, 2016 (traduzione di L. Coisson Gambi)
Un noir culinario con un tocco gotico: IL CUOCO di Harry Kressing, pubblicato nel 1965, è un classico recuperato dalle edizioni e/o nella collana “Intramontabili”. E anche se del suo autore si sa poco - Harry Kressing infatti è lo pseudonimo di Harry Adam Ruber (New York, 1928 – Minnesota, 1990) - quello che colpisce de IL CUOCO è che sembra di leggere un romanzo ottocentesco e di essere subito avvolti, sin dalle prime pagine, in un’atmosfera gotica, alla Jane Eyre. Il romanzo inizia con l’arrivo di Conrad, il cuoco, a Cobb e con il suo tentativo di introdursi nel maniero di Prominence. La tenuta però ha il ponte levatoio sollevato, sembra quindi inaccessibile anche se i giardini circostanti sono ben curati. Che storia si nasconde dietro questo castello disabitato ma non abbandonato? Lo sapremo presto ma intanto siamo anche noi come gli abitanti della cittadina ai piedi del maniero irretiti dalla figura di Conrad: alto, magrissimo, quasi cadaverico, sempre vestito di nero, conquista immediatamente i palati della famiglia Hill da cui è stato assunto ma anche quello della famiglia un tempo rivale dei Vale. Tanto che i piatti cucinati da Conrad vengono ogni giorno recapitati a Daphne, unica figlia ed erede della ricca famiglia. Conrad non stupisce solo i laboriosi Hill, padre, madre e due figli tra cui il maschio Harold sarebbe promesso sposo di Daphne, ma anche i bottegai del villaggio, oggetto di richieste precise e spesso di insulti, e il ristorante locale dove per un giorno Conrad si fa servire, in una sala riservata e sontuosamente arredata, un pranzo da re. Ma chi è veramente Conrad? Dai suoi racconti gli abitanti del villaggio vengono a conoscenza delle amicizie altolocate che ha lasciato in città e la sua educazione viene sicuramente da un ambiente nobile. Harry Kressing è abilissimo nell’alzare costantemente la tensione della storia impedendoci quasi di capire cosa stia accadendo veramente. Il peggio è che gli stessi personaggi della storia, affascinati dall’abilità culinaria di Conrad, non si rendono conto di come il cuoco stia mettendo in atto un piano diabolico che cambierà per sempre le loro vite.

Kenneth Oppel, IL NIDO, Rizzoli, 2016 (traduzione di Giordano Aterini)
Selezionato tra i migliori libri per ragazzi dall’Associazione bibliotecari americani, IL NIDO di Kenneth Oppel con le immagini di Jon Klassen arriva ora in traduzione italiana senza nulla perdere della sua intensità. La storia è quella di Steve, dodici anni, un ragazzino con pochi amici e alcune ossessioni come quella di lavarsi continuamente le mani e il rimpianto per un rassicurante amico immaginario, che ha dovuto dimenticare perché gli hanno detto che si tratta di un atteggiamento infantile. Grazie ad alcuni colloqui con lo psicologo riesce a tenere a bada le sue paure anche se spesso, appena si addormenta, gli fa visita un grosso uomo nero che impugna un coltello. Steve fatica a condividere i suoi incubi con i genitori perché il fratellino appena nato, Theo, ha molte cose che non vanno, e i genitori sono sempre molto nervosi e indaffarati con visite e ospedali. La sorella maggiore Nicole cerca di spronarlo ma Steve non riesce a fare altro che invidiarne la solarità e la serenità che la pervade in ogni occasione. Finché un giorno una strana vespa bianca lo punge e gli provoca una reazione allergica. E la notte al posto dell’uomo nero lo visita la suadente e affascinante regina delle vespe che gli promette di sistemare ogni cosa e restituirgli un fratellino perfetto. E’ come se un angelo fosse atterrato nella camera di Steve e all’inizio è confortante farsi cullare dal sogno di una vita perfetta, senza più ansie e preoccupazioni. Ma ben presto diventa sempre più difficile stabilire il confine tra il sogno e la realtà, tra i mostri che sono dentro la mente di Steve e quelli che sono fuori da lui. IL NIDO è un piccolo scrigno prezioso pieno di sensazioni, pensieri, sentimenti. Si può leggere come un thriller, una storia di crescita, un’avventura fantastica. Ma alla qualità della scrittura e della trama si aggiunge una vasta gamma di considerazioni che IL NIDO trasmette e che ne fa un libro di rara intensità. Dal rapporto genitori-figli, alla definizione di “perfezione”, dalla paura del diverso al fascino del male, dalla sensazione di abbandono a cosa significhi essere coraggiosi.

Rafael Chirbes, LA BELLA SCRITTURA, Feltrinelli, 2016 (traduzione di Augusto Guarino)
Tradotto finalmente in italiano quello che è considerato il capolavoro dello scrittore spagnolo Rafael Chirbes, scomparso lo scorso anno a 66 anni: LA BELLA SCRITTURA, nella poetica e precisa traduzione di Augusto Guarino, anche se è stato scritto nel 1992, sembra quasi il testamento del grande scrittore o comunque un’amara e profonda riflessione sul senso della vita. A raccontare in prima persona è Ana che si rivolge al figlio Manuel raccontandogli la sua famiglia. L’amore per suo padre, il matrimonio, la nascita della sorella, ma poi la guerra civile, le persecuzioni e il dopo. Dove tutto sembra dimenticato, il dolore, i morti, la fame, i torti subiti perché... “appena le cose restavano indietro, smettevano di essere vere o false e si trasformavano solo in confusi resti in balia della memoria. Non c’era nulla da salvare. Il tempo distruggeva tutto, trasformava tutto in polvere, e poi soffiava il vento e portava via quella polvere”. In poche pagine il racconto di quattro generazioni dal nonno di Ana che amava spaventarla con scherzi e storie di paura per poi farla sentire sicura tra le sue braccia, sino al figlio Manuel che la madre ha voluto studiasse perché non fosse costretto a spaccarsi la schiena come il padre ma che ora sembra un estraneo interessato solo a impossessarsi del lotto della casa di famiglia. LA BELLA SCRITTURA è un romanzo di donne, dalla voce narrante sino a Isabel, la mis, quella che ama scrivere, che dà il titolo al libro. Ma mentre ci racconta una famiglia povera come tante, Chirbes in realtà tramanda la storia recente del suo paese, costruendo una sublime radiografia della Spagna contemporanea. La storia della famiglia di Ana sembra un filo di luce, seguendo il quale vediamo i profondi danni sociali della guerra civile, la frattura mai saldata che si è formata nel paese, perché alla fine Ana, rassegnata, deve constatare che non è sufficiente essere brave persone e impegnarsi a fare quello che si ritiene giusto. Si cerca e non si trova un senso, un fine, “qualcosa che non avevamo immaginato che dovesse servirci e che intuivamo che si trovava da qualche parte in noi stessi, ma non sapevamo dove. Ci mancava la mappa per arrivare fino a quel luogo segreto. E vagavamo persi senza trovarlo”. Libro duro e poetico insieme, LA BELLA SCRITTURA è un ritratto vero e sentito del sacrificio e dell’impegno delle donne, che lavorano senza sosta per dare un futuro ai figli ma anche al loro paese. Anche se non ci sono ricompense, ma spesso solo rimproveri e la sensazione di avere sprecato la propria vita: “Per tutta la notte precedente ho ricordato che tuo padre una volta mi aveva raccontato che i marinai si rifiutano di imparare a nuotare perché così, in caso di naufragio, affogano subito e non hanno tempo di soffrire... Non potevo fare a meno di invidiare quelli che se ne erano andati all’inizio, quelli che non avevamo avuto il tempo di vedere quale sarebbe stato il destino di tutti noi. Perché io ho resistito, mi sono consumata nella lotta, e sono arrivata a sapere che tanto sforzo non è servito a nulla”.

Nina LaCour, FERMA COSÌ, EDT Giralangolo, 2016 (traduzione di Aurelia Martelli)
La letteratura cosiddetta young adult non smette di proporci grandi scrittori, belle storie e in questo caso anche un’edizione curata e corretta, con una copertina adeguata che si sposa perfettamente con la vicenda narrata. FERMA COSÌ, secondo libro tradotto in italiano dopo l’altrettanto valido IL RITMO DELL’ESTATE, di Nina LaCour racconta di Caitlin, 15 anni, in procinto di tornare a scuola dopo le vacanze estive. Caitlin dovrà però tornarci senza la sua migliore amica, la sua sorella d’elezione, Ingrid, che ha deciso di smettere di vivere. Nina LaCour racconta il suicidio adolescenziale occupandosi di quelli che restano, del dopo, delle tracce indelebili che il togliersi la vita lascia a chi ha conosciuto e amato Ingrid. Una ragazza bella e piena di talenti, a partire da quello per la fotografia, che sembra essersene andata senza lasciare nessun segnale del suo malessere e soprattutto nessun messaggio per la sua amica. In realtà Caitlin troverà nascosto sotto il suo letto il diario di Ingrid e attraverso la dolorosa lettura delle sue parole, scoprirà una ragazza fragile, o meglio resa fragile da una malessere psichico che forse Caitlin non ha voluto vedere. Attraverso il percorso che fa la quindicenne per cercare di vincere il senso di colpa e cercare di capire cosa ha spinto Ingrid a togliersi la vita, vediamo le diverse reazioni al gesto dell’adolescente. Dai suoi genitori, increduli ma anche consapevoli delle difficoltà della figlia, sino alla curiosità a volte sincera, altre volte morbosa dei compagni di classe sino alla signorina Veena, la docente più amata, che sembra infliggere a Caitlin con la sua indifferenza un altro duro colpo. Con mano sicura, senza mai cedere al sentimentalismo ma neppure alla freddezza Nina LaCour racconta con grande vividezza e sensibilità i sentimenti degli adolescenti della storia, regalandoci anche alcune figure di adulti responsabili ed empatici come i genitori di Caitlin che sanno starle vicino, rispettandone il dolore. FERMA COSÌ è la storia di una risalita verso il futuro, un racconto pieno di vita e un inno all’amore e all’amicizia.

Meg Wolitzer, QUELLO CHE NON SAI DI ME, Il castoro, 2016 (traduzione di Francesca Cappelli)
A proposito di quello che si diceva prima della letteratura rivolta agli adolescenti, ma che non succede niente se la leggono anche gli adulti, anzi, ecco un altro romanzo intenso, originale e vero. QUELLO CHE NON SAI DI ME sembra all’inizio percorrere strade abbastanza consuete della narrativa dedicata ai ragazzi: Jam, sedici anni, distrutta per la morte del suo ragazzo con cui ha condiviso solo 41 giorni d’amore, non riesce e riprendersi e così lo psicologo e i genitori decidono di mandarla alla Wooden Barn School, un college in campagna specializzato in ragazzi “fragili”, incapaci di superare eventi tragici che hanno segnato le loro vite. Qui Jam viene assegnata, insieme a pochi altri alunni, al misterioso e ambitissimo Corso Speciale d’Inglese della signora Quenell. Del cui grande valore tutti parlano ma nessuno riesce a capire cosa vi succede. Tanto che all’inizio Jam resta quasi delusa dalle regole del corso: un unico libro da leggere e condividere, LA CAMPANA DI VETRO di Sylvia Plath, un diario da scrivere, in cui raccontare le proprie esperienze e prendersi cura l’uno dell’altro. Ma è il vecchio diario dalle pagine ingiallite e dalla copertina rossa a sconvolgere tutti gli equilibri e a riportare i ragazzi ai loro traumi. Ma anche ad aiutarli, insieme, a cercare di superarli per guardare di nuovo alla vita. QUELLO CHE NON SAI DI ME è un libro pieno di poesia, delicato e forte insieme e con una insegnante che ognuno vorrebbe incontrare prima o poi nella vita.

Melania Mazzucco, IO SONO CON TE. STORIA DI BRIGITTE, Einaudi, 2016
“Gli scrittori avvertono il cambiamento prima che le cose cambino. Sanno raccontare il futuro prima che si possa immaginarlo. Vincono battaglie civili quando il mondo è ancora oppresso. Scandagliano l’animo umano per chi, da solo, non sarebbe in grado di farlo. Raccontano quello che ci accade intorno prima che intervenga la Storia”. Vengono in mente le parole di Dany Laferriere leggendo il nuovo libro di Melania Mazzucco, IO SONO CON TE, appena pubblicato da Einaudi. Il sottotitolo recita “Storia di Brigitte” ma in realtà il libro non è solo la storia della donna congolese, fuggita dal suo paese e catapultata alla stazione Termini dopo una lunga serie di maltrattamenti e violenze, perché ogni esistenza è fatta di tante altre e Melania Mazzucco con la consueta precisione narrativa riesce a restituircele tutte. Dalla vita di Brigitte nel suo paese sino agli operatori del Centro Astalli, avvocati, medici, volontari che incontrerà sulla sua strada. A partire dalla scrittrice stessa che si deve mettere a nudo in prima persona. Uno dei personaggi del libro è infatti necessariamente Melania Mazzucco che mentre Brigitte vagava con abiti troppo leggeri e senza sapere dove si trovava alla stazione Termini, probabilmente era in biblioteca a lavorare al MUSEO DEL MONDO, faceva la spesa, organizzava uno dei suoi viaggi, incontrava i lettori, viveva una Roma molto diversa da quella che abita Brigitte. E che quando il Centro Astalli le chiede di usare il suo talento per scrivere un libro sui rifugiati, lei giustamente obbietta che ogni persona ha la sua storia e non si può ridurre a una storia collettiva. E così accetta di raccontare un’esistenza che sceglie tra, purtroppo, tantissimi “casi”, seguendo il filo di un’affinità personale con il Congo da cui proviene Brigitte. Ma è un filo sottilissimo che subito si spezza di fronte a una persona vera, a una donna ferita che ritiene tutte le donne bianche cattive, che non si dà pace per i figli persi, che ha ridotto quello che le è accaduto a un racconto burocratico per non rivivere il suo passato. Melania Mazzucco riesce a raccontare la storia di Brigitte, condividendone un pezzo, ma anche non nascondendole la propria: “Ancora non so se riuscirò mai a scrivere la sua storia. Ma sono sicura che, se potrò farlo, sarà solo perché lei sarà stata se stessa con me, e anch’io con lei. Allora io potrò essere anche lei e riuscirò a trovare le parole”. È questo che accade: le parole di una scrittrice riescono a restituirci la vita di Brigitte e quella delle persone che ogni giorno entrano in contatto con chi fugge dal proprio paese, assorbendone in qualche maniera la sofferenza. IO SONO CON TE è un libro potente nella scrittura e nella storia, usa con maestria tutti i registri narrativi e ci avvolge con una poesia e un coinvolgimento che non scadono mai nel sentimentale. Rispetto ai libri precedenti, da quelli storici dedicati a Tintoretto sino alla famiglia di SEI COME SEI, Melania Mazzucco dimostra ancora una volta il suo talento di scrittrice, mettendosi però in gioco totalmente perché era l’unica strada per dare a Brigitte dignità letteraria e quindi umana. IO SONO CON TE è un meccanismo narrativo perfetto, un racconto insieme epico e moderno. Un affresco della realtà che non è cronaca, ma neanche sermone, è vita che diventa letteratura e letteratura che restituisce la vita vera. Ed è un libro necessario non solo per la vicenda che racconta ma per come sa raccontarla, perché, grazie alla letteratura, ci permette di guardare senza filtri negli occhi degli altri e nello stesso tempo, in profondità, nei nostri.

Dany Laferriere, L’ARTE ORMAI PERDUTA DEL DOLCE FAR NIENTE, 66thand2nd, 2016 (traduzione di Federica Di Lella e Francesca Scala)
La copertina e il titolo non possono lasciare indifferenti ma sono solo un piccolo assaggio di quello che si scopre aprendo le pagine di L’ARTE ORMAI PERDUTA DEL DOLCE FAR NIENTE di Dany Laferriere pubblicato da 66thand2nd. Il libro dello scrittore haitiano è molto più semplice da leggere che non da descrivere perché è da una parte una sorta di divagazione su tantissimi argomenti, dalla lettura alla politica, dal viaggio al cibo, dallo scontro di civiltà all’amore, tanto che si può cominciare a leggerlo dove si vuole. Dall’altra è un’intensa e letteraria biografia intellettuale e personale dello scrittore, che riesce a parlare di sé senza diventare il protagonista della storia. Un po’ come l’avventore del caffè, luogo di cui Laferriere ci fornisce una sorta di mappa sociale e sentimentale e che potrebbe anche essere la metafora del libro. Perché quello che ci racconta è perfetto da leggere seduti in un caffè, ma L’ARTE ORMAI PERDUTA DEL DOLCE FAR NIENTE sembra quasi un dialogo tra due amici seduti al tavolino di un bar: “L’arte di andare di caffè in caffè. Appena ci sediamo in un caffè, tutto il resto della città sparisce. Passiamo dal noi chiassoso all’io in sordina. Non è un salotto, è un romanzo di cui diventiamo all’istante personaggi secondari. Il che ci permette di entrare nel caffè e poi di uscirne senza influire minimamente sulla storia. Non tutto qui si svolge sempre in perfetta armonia ma siamo animali capaci di sopportare le situazioni più spiacevoli. Ho visto alcuni subire senza battere ciglio il disprezzo di camerieri scontrosi o l’indifferenza dei loro vicini di tavolo quando sarebbe bastato attraversare la strada ed entrare nel bar di fronte per cambiare romanzo o vita”. Fonte inesauribile di storie, incontri, riflessioni, pensieri, libri, opere d’arte, luoghi, il libro di Laferriere lancia in realtà una sfida al lettore: come possiamo recuperare l’arte del dolce far niente di fronte a tanti stimoli e suggestioni? Forse seguendo l’arte di viaggiare: “Scegli un alberghetto della tua città portandoti dietro l’opera omnia di Balzac. Fai sapere ad amici e parenti che sei in viaggio, poi tagli tutti i fili che ti collegano agli altri. Irraggiungibile per qualche giorno. L’ultimo vero lusso in questo mondo sempre più conformista dove non si accetta di concedere agli altri il piacere di stare soli un istante. Non hai bisogno di visitare la città visto che ci vivi. Stai in camera a leggere. Se vuoi bere un bicchiere e vedere gente, scendi al bar. E, dopo un po’, risali e trovi il letto rifatto. Ti infili allora sotto le lenzuola pulite dopo aver ordinato il tè in stanza, e resti lì finché non hai finito LA COMMEDIA UMANA senza saltare, stavolta, le descrizioni dei paesaggi”. Perché il dolce far niente è in realtà la vita vera, quella dove il tempo può smettere di scorrere e possiamo dedicarci ad ascoltare i nostri pensieri. Come i migliori libri L’ARTE ORMAI PERDUTA DEL DOLCE FAR NIENTE apre al lettore tante strade da imboccare; da quella vera e sofferta di Haiti, dalla dittatura che costringe Laferriere all’esilio sino al terremoto e alle emergenze umanitarie, per arrivare alla parte finale del libro che è un viaggio nella biblioteca dello scrittore perché “leggere è un altro modo di dare forma alle cose”. Senza dimenticare l’elogio della poesia, e la sottile e mai banale ironia con cui Laferriere guarda al mondo senza risparmiare se stesso. Perché “gli scrittori…usano forme diverse – romanzi, racconti, poesia, saggi, lettere, diari – che rispecchiano il loro modo di sentire e quello dell’umanità intera”.

Cristina Sànchez-Andrade, IL PEZZETTINO IN PIÙ, Feltrinelli kids, 2016 traduzione di Elena Rolla)
Se esistesse un decalogo di come deve essere un libro che ha tra i suoi protagonisti un bambino, diciamo così, “diverso” questo sarebbe l’esempio perfetto. Perché è delicato, ironico, coraggioso e mai banale. Ma forse non lo è perché risponde a delle regole auspicabili ma semplicemente perché Cristina Sànchez-Andrade è una brava scrittrice e quindi riesce a rendere viva la piccola Manuelita, nata con la sindrome di down, 9 anni di energia e irruente tenerezza soprattutto verso la sorella minore Pussy. Che adora giocare con l’imprevedibile Manuelita, ma non sopporta le domande che bambini e adulti continuamente le fanno: “Ma quanti anni ha tua sorella? E che classe fa? Che lingua parla e perché ha gli occhi a mandorla?”. Oltretutto Pussy a volte è un po’ gelosa delle attenzioni che Manuelita riceve ed è stufa di avere una sorella più grande di lei che in realtà sembra la minore. Ma poi Manuelita la sorprende ancora una volta e Pussy è fiera di avere una sorella con un pezzettino in più.

Karl Ove Knausgård, BALLANDO AL BUIO, Feltrinelli, 2016 (traduzione di Margherita Podestà Heir)
“Tutti i libri che mi piacevano riguardavano in fondo la stessa cosa... Libri che parlavano di giovani uomini che non si trovavano a proprio agio nella società, che volevano qualcosa di più dalla vita che semplici routine, che desideravano qualcosa di più dall’esistenza che non fosse la famiglia, in breve, giovani che detestavano la mentalità borghese ed erano alla ricerca della libertà. Viaggiavano, si ubriacavano, leggevano e sognavano il grande amore o il grande romanzo. Tutto quello che volevano, lo volevo anch’io. Tutto ciò che sognavano, lo sognavo anch’io. Quell’anelito che provavo costantemente dentro il petto cessava di colpo quando leggevo quei libri, ma ritornava come decuplicato nel momento in cui li chiudevo”: BALLANDO AL BUIO è il quarto episodio della serie in sei volumi intitolata LA MIA BATTAGLIA, più di 3500 pagine autobiografiche, che hanno consacrato il talento letterario dello scrittore norvegese Karl Ove Knausgård. Fenomeno letterario che ha innescato molte discussioni a partire dall’omonimia hitleriana del titolo, LA MIA BATTAGLIA racconta dettagliatamente e quasi ossessivamente la vita dell’autore, senza omettere nulla. In realtà c’è una scelta letteraria alla base e non è un semplice sproloquio esistenziale. E le interminabili digressioni sulle merendine dei bambini piuttosto che i litri di alcool che scorrono lungo le pagine, o le citazioni di libri e dischi che segnano le giornate di Ove hanno la funzione di rendere il lettore partecipe della vita del protagonista. Per chi vuole provare a entrare nel mondo letterario di Knausgård, questo quarto episodio della vita dello scrittore norvegese raccontata da lui stesso può convincere anche i più scettici. Perché si sente che via via Knausgård affina la sua scrittura suadente o forse semplicemente perché riesce immediatamente a proiettarci nel piccolo villaggio di pescatori nell'estremo Nord, sul Circolo polare artico, dove il diciottenne Knausgård va per insegnare un anno in una scuola, che conta ben pochi allievi. Sarà l’ambientazione incredibile, l’incontro con i ragazzi, la sua forte volontà di scrivere per diventare uno scrittore ma BALLANDO AL BUIO è un libro a cui abbandonarsi con fiducia e senza pregiudizi. Per seguire le giornate del giovane insegnante alle prese con i suoi recalcitranti allievi, i tentativi spesso buffamente falliti di perdere la verginità, il rifugiarsi nella malinconia e nell’alcool quando la notte artica avanza e il buio polare comincia a velare il meraviglioso paesaggio, ma anche i racconti che il giovane Ove scrive con entusiasmo sempre più latente. Sicuramente la scrittura dello scrittore norvegese ha un grande potere seduttivo che va ben al di là degli accadimenti della sua vita che ci racconta, e che ci ricorda il potere della letteratura: “E’ di questo che c’è bisogno in realtà, quindi è fondamentale dargli la priorità. Tutti invece scelgono le cose. Tutti vogliono giacche nuove, scarpe nuove, auto nuove, case nuove, roulotte nuove, case di villeggiatura nuove e barche nuove. Io invece no. Io compro libri e dischi perché in parte ciò esprime qual è la posta in gioco, cosa significa essere degli esseri umani qui sulla Terra. Lo capisci?”.

Frances Hardinge, L’ALBERO DELLE BUGIE, Mondadori (traduzione di Giuseppe Iacobaci con la collaborazione di Claudia Lionetti)
La vittoria del prestigioso Costa Award è un ottimo biglietto da visita ma la lettura di L’ALBERO DELLE BUGIE di Frances Hardinge ha superato le aspettative. Perché sono davvero tanti gli spunti che nascono da questo intrigante e raffinato romanzo, che ci porta nell’epoca vittoriana e ci catapulta nell’atmosfera gotica di un’inospitale isola inglese dove l’adolescente Faith si trova al seguito del padre, il reverendo Sunderly, esperto di fossili chiamato a valutare una recente scoperta. Raramente ci si trova davanti a una storia così lontana, non solo cronologicamente, e nello stesso tempo così attuale e vera. Faith deve portate un corsetto strettissimo, non può uscire da sola, contraddire il padre, esprimere le sue opinioni ma sotto quegli ingombranti strati di gonne pulsa e lotta un’adolescente che si interroga su se stessa e il mondo. L’ALBERO DELLE BUGIE è un giallo, un fantasy, un romanzo storico, uno spaccato di storia della scienza e un ritratto mai banale della condizione femminile. E ci restituisce anche le controverse dinamiche di un rapporto madre-figlia. Che si vedono e sentono molto diverse ma che alla fine cominceranno a capirsi. Anche i titoli dei capitoli sono sintomatici di un percorso e l’ultimo si intitola 'Evoluzione' e allude certo alla teoria di Darwin ma anche alla vita di Faith. Il ritmo poi è incalzante e i colpi di scena non mancano. Sono tanti i registri che Frances Hardinge sa mettere magistralmente in gioco, passando con passo sicuro da scene che si avvicinano all’horror a passaggi segnati da un sottile umorismo, dalla descrizione sempre precisa della natura a considerazioni mai banali sulla difficoltà di crescere.

Giacomo Mazzariol, MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI, Einaudi, 2016
Sono sempre molto dubbiosa per non dire peggio verso opere narrative con personaggi portatori di handicap. Devo dire che a parte alcuni libri per bambini e ragazzi, raramente trovo storie accurate e realistiche e spesso il cosiddetto diverso è solo un mero pretesto narrativo. Cosa che mi irrita tantissimo. Riconosco che avendo io un’esperienza diretta sia come sorella di una ragazza down sia come amica e sostenitrice della Casa del Sole ho un punto di vista privilegiato sulla questione ma non posso impedirmi di infuriarmi per certe operazioni spesso senza scrupoli. Non è il caso del libro di Giacomo Mazzariol, a cui riconosco una profonda onestà e la capacità non comune di raccontare il rapporto tra fratelli. Che poi uno, Giovanni, abbia la sindrome di down non è la cosa più importante. Sicuramente Giacomo ha un talento e uno sguardo narrativo, supportato da Fabio Geda che ne ha rispettato l’intento e il punto di vista, aiutandolo solo a organizzare bene la narrazione. Così MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSARI da una parte restituisce e sottolinea alcune delle caratteristiche non solo fisiche o somatiche delle persone e in particolare dei bambini down, come l’estrema sincerità frutto della mancanza di sovrastrutture, il modo sempre fiducioso di guardare il mondo, il 'radar' sensitivo che usano per rapportarsi con le persone, l’innato umorismo unito però a una grande permalosità, dall’altra racconta Giovanni nella sua unicità. Senza pietismi, pregiudizi, compiacimento ma con un coraggioso realismo e gli occhi dell’affetto. Come dovremmo fare noi nel leggerlo.

Christian Frascella, BRUCIO, Mondadori, 2016
Non ci sono dubbi sul talento di Christian Frascella ma in questo BRUCIO c’è un ulteriore affinamento delle sue qualità letterarie e della capacità di costruire personaggi complessi e mai scontati. Perché se Tommy, sopravvissuto ma reso sfigurato da un incendio che ha distrutto la sua casa e ucciso i genitori e la sorellina, appartiene alla schiera degli “imperfetti” così di moda nella narrativa young adult, la sua storia non si riduce solo al viso martoriato dal fuoco. Il ragazzo infatti è un complesso groviglio di tutto quello che gli è accaduto e degli incontri fatti in giro per l’Italia, spostato come un ingombro da una famiglia affidataria all’altra. Finché arriva ad Asti dove trova una famiglia con una donna avvocato, un padre, ironia della sorte, pompiere, e un figlio di diciassette anni come lui. Che però non vuole più essere coinvolto nelle vite dei ragazzi che i suoi genitori hanno preso in affidamento negli anni. Frascella riesce a unire un percorso per forza di cose prevedibile, condizionato dall’aspetto esteriore di Tommy, e il suo sguardo insieme disincantato e pieno di speranza sul mondo, il sarcasmo che usa come arma di difesa quando non tira fuori i pugni, la capacità di leggere le persone e fare a botte con le illusioni. E l’amore con l’altrettanto ferita Sally è l’incontro di due “diversi” solo perché l’innamoramento è sempre l’attrazione tra due mondi complessi, che non si esauriscono in un volto bruciato o in un’infanzia violata.

Zena Roncada, QUI COME ALTROVE, Effigie, 2016
“Qui come altrove, c’è la donna che raccatta le parole perse, sporche di polvere e silenzi, perché mai giunte a destinazione. Sono quelle implose all’improvviso per una timidezza di cemento, o incrinate da una delusione (la voce si spezza e la parola muore in gola come ingoiata dall’angoscia). Sono quelle rese monche da un addio, murate dall’orgoglio, dal disprezzo o da un eccesso di miele che s’inagra. La donna le trova sulle panchine più nascoste, nelle stazioni di seconda mano e negli alberghi che contano le ore. Anche nelle fessure delle case vuote, dove neppure l’eco dà risposte. Non ha cuore di lasciarle in abbandono, allora le buca e le infila nello spago, come da piccola faceva con gli spicchi sottili di mele campanine. Da questa vicinanza nascono prestiti e compense, un transito di sensi amari e dolci, nell’unico, e infinito, romanzo dell’amore”. QUI COME ALTROVE è un piccolo libro in cui Zena Roncada ci regala la grandezza della sua scrittura e la profondità del suo sguardo. Una sorta di “Spoon River” di figure eterne e ancora viventi, un catalogo di personaggi straordinari e ordinari insieme, elegia di un mondo che non c’è più e che solo le parole possono evocare e far rivivere. Così incontriamo l’uomo che tiene il banchetto delle storie di seconda mano, la donna che raccoglie la ragione dei vecchi perché non vada perso quel che resta, la vecchia che rammenda i buchi, quando il tempo consuma le presenze, il vecchio che vende gli anni usati. E intorno un mondo rurale legato al fiume. Ma mentre da una parte si ha la sensazione che solo il Po possa contornare queste brevi storie, dall’altra si respira l’universalità dei personaggi raccontati che possono stare qui, come altrove. Centrale è il tema del tempo, del passato, delle tracce lasciate, del recupero della memoria attraverso le storie, ma anche grazie alle cose più insignificanti perché portatrici delle tracce di chi le ha fatte, usate, toccate, anche solo sfiorate. QUI COME ALTROVE non ha un ambito letterario in cui collocarsi: racconti brevi che però raccontano quanto un intero romanzo; poesia narrativa che evoca con poche parole mondi e paesaggi interi; pillole di antica saggezza e urla di spudorata giovinezza a comporre un libro unico. Che diventa un compagno prezioso nella propria lettura solitaria, ma che è insieme anche efficace testo teatrale da leggere ad alta voce. Questo grazie allo sguardo empatico e rispettoso di Zena Roncada, cronista del piccolo mondo che la circonda che racconta con grazia e affettuosa partecipazione. Senza mai rinunciare a un’ironia sorridente che illumina con poche precise parole le piccole scene di vita quotidiana. Grazie a una lingua insieme nuova e antica dove la precisione evocativa delle parole letterarie si sposa ai termini legati agli oggetti della campagna, alle parole del dialetto, ai ritmi e ai suoni della poesia: “Qui come altrove, c’è l’uomo della barca, che è lunga e scura come l’anima di Po, quella segreta. Dell’uomo e della barca si sono persi i nomi: per chiamare il primo basta un verso, un richiamo d’anatra di passo, l’altra è di tutti e di nessuno”.

Elizabeth Jane Howard, CONFUSIONE, Fazi, 2016 (traduzione di Manuela Francescon)
La lettura della saga dei Cazalet di Elizabeth Jane Howard crea dipendenza. Dopo GLI ANNI DELLA LEGGEREZZA e IL TEMPO DELL’ATTESA ecco finalmente il terzo capitolo dedicato alla numerosa e ricca famiglia inglese che in CONFUSIONE vede profilarsi la fine della seconda guerra mondiale. Mentre il primo capitolo della saga era il romanzo del matrimonio e dell’infanzia, il secondo quello della guerra, questo terzo vede al centro della scena la scoperta dell’amore e della libertà. Avevamo infatti lasciato i Cazalet nel 1942. La guerra sembra non allentare la sua morsa e i raid aerei e il razionamento del cibo sono sempre all’ordine del giorno. La vita della famiglia è scandita dalla ricerca e conservazione del cibo, dal dolore e dalla preoccupazione per chi è sotto le armi, dalle decisioni improvvise da prendere in particolare sulla sorte dei ragazzi e sulle prospettive che possono avere. Le notizie che arrivano dalla Germania e soprattutto la sicurezza con cui Churchill invita gli inglesi a prepararsi al grande sforzo finale, lasciano intravedere la speranza di una fine imminente del conflitto e quasi di colpo ci si accorge che le ragazze Cazalet sono cresciute e Louise, Polly e Clary rivendicano il loro posto nel mondo. La guerra ha portato morte e distruzione, ma anche un’accelerazione nella crescita, la perdita di una parte di infanzia, una maggiore consapevolezza del valore della propria vita. Le donne sono state protagoniste attive della resistenza durante la guerra, hanno lavorato e sostenuto le proprie famiglie e ora difficilmente vogliono tornare a un ruolo subalterno. Per loro si prospetta una vita nuova, più moderna, con libertà inedite, e soprattutto la possibilità di provare a scegliere il proprio futuro e seguire le proprie inclinazioni. Così le cugine Cazalet, non sempre consapevolmente, imboccano la loro vita adulta: Louise rinuncia alla carriera di attrice e si imbarca in un matrimonio prestigioso con un uomo più vecchio ma molto affascinante, che però non rinuncia a un rapporto quasi fobico con l’ingombrante madre. Polly e Clary lasciano finalmente le mura di Home Place, la residenza di campagna dove i Cazalet si sono rifugiati durante la guerra, per trasferirsi finalmente a Londra per lavorare come segretarie e godersi l’indipendenza e la ricerca dell’amore. Che è spesso inaspettato e molte volte non corrisposto. Anche in questo terzo volume ELizabeh Jane Howard conferma il suo talento nel dare vita a personaggi così veri e reali che alla fine delle pagine si ha la sensazione di essere rimasti orfani della famiglia Cazalet. Con una scrittura precisa e raffinata la scrittrice inglese ci regala l’affresco di un’epoca e il ritratto di una famiglia, che è una grande comunità, dove si può trovare un’altra madre o un altro padre, ma anche sentirsi molto soli. E dove i legami non sono solo dettati dal sangue, ma crescono e si alimentano nelle comuni passioni, negli sguardi complici, nei caratteri simili o diametralmente opposti. I romanzi di Elizabeth Jane Howard raccontano la vita che passa attraverso i gesti quotidiani e così, per esempio, il disgusto per la pellicola di panna che si forma sul latte caldo diventa un segno di riconoscimento e sancisce il legame tra un padre e una figlia. La saga dei Cazalet è un panorama di anime, il racconto acuto e mai banale dei legami familiari, il ritratto spietato di una società piena di contraddizioni, la messa in scena accurata e affettuosamente ironica della voglia e della fatica di crescere. E ora non ci resta che aspettare il quarto capitolo!

Edna O’Brien, OGGETTO D’AMORE, Einaudi, 2016 (traduzione di Giovanna Granato)
I racconti mi sono sempre piaciuti ma d’estate sono perfetti anche da portarsi in piscina o al mare. Concludi una storia in pochi minuti senza lasciare in sospeso vicende e personaggi. Quando poi sono ottimi come questi di Edna O’Brien te li porti dietro comunque a lungo e sono ancora qui che penso al tappeto che arriva inaspettatamente nella fattoria di pietra di concia grigia, all’altezzosità delle signorine Connor, alla vedova non più giovanissima che si innamora, ricambiata, di un suo inquilino ma che paga cara la troppa indipendenza. Per non parlare della maestra cattiva e invidiosa che sottrae alla sua alunna più brava la bambola preferita. Scorci di quotidianità raccontati con grazia, un sorriso dolce e amaro insieme e una scrittura apparentemente facile nella sua estrema raffinatezza. E’ un mondo di rapporti umani quello che racconta la scrittrice irlandese. Fatto di attrazioni e repulsioni, amore, sesso, invidie, fatica, abbracci, fughe, in una cromia di sentimenti che vanno dalla felicità che fa quasi paura all’umiliazione più sottile. C’è poco da dire, brava Edna O’Brien e il paragone che fa John Banville nell’introduzione con i racconti di Cechov non suona certo stonato.

Ada Murolo, SI PUÒ TORNARE INDIETRO, Astoria, 2016
"Quella giornata, che custodiva in seno il tempo sospeso di migliaia di vite, dunque sembrava allentarsi e sgretolarsi per liberarne di nuovo il corso e, mentre nell’aria risuonava ancora, flebile ormai, l’eco eroica della speranza collettiva, riprendevano il cammino interrotto i pensieri mediocri e quotidiani di ognuno, liberati dalle maglie di quell’illusoria felicità nuova". SI PUÒ TORNARE INDIETRO è stato una piacevole sorpresa e un libro che appena inizi non riesci più a lasciare. Perché Ada Murolo ci regala due protagoniste che nella loro specificità parlano a ogni lettore e ne rappresentano molti sentimenti, dalla paura all’amore, dall’insicurezza alla voglia di vivere. Alina e Berta non pretestuosamente raccontano anche uno spaccato della storia del nostro Paese e anche in questo l’autrice si muove con grande sicurezza e coraggio. Conosciamo le protagoniste alla parata del 4 novembre 1954 per l'annessione di Trieste all'Italia. Berta è tornata nella sua città natale con le due figlie dopo il fallimento del suo matrimonio con un contadino emiliano. Alina ha perso tutta la famiglia nei lager, non riesce quasi più a ricordare nulla di sé ed è stata ricoverata in un ospedale psichiatrico. Quel giorno però è riuscita ad uscire e rimane folgorata da un paio di orecchini che sembrano aprirle una finestra nella memoria. Le storie delle due donne corrono parallele ma sappiamo che sono destinate ad incontrarsi o meglio a ritrovarsi.

Elvira Mujcic, DIECI PRUGNE AI FASCISTI, Elliot, 2016
E’ prima di tutto la storia di una famiglia il nuovo romanzo di Elvira Mujcic. Una famiglia con i suoi dolori segreti, gli scontri, le bugie, le incomprensioni ma alla fine la felicità di ritrovarsi e appartenersi. La famiglia di Lania si riunisce per un’impresa apparentemente semplice dal punto di vista pratico ma che si complica sempre più. La nonna infatti ha chiesto di poter essere sepolta un domani nella sua terra, ha organizzato tutto per essere riportata dall’Italia in Bosnia, da cui è fuggita negli anni Novanta a causa della guerra. L’autrice di E SE FUAD AVESSE AVUTO LA DINAMITE? racconta questo ritorno in patria di Lania, della madre e dei suoi due fratelli, per esaudire il desiderio della donna che è stata il cardine della famiglia e ha sempre rimpianto il suo forzato esilio. Anche da morta ha il potere di catalizzare la famiglia e riportare al paese natio i familiari sparsi in tutto il mondo. La sua sepoltura diventa così un’occasione di incontro, ma anche per i protagonisti una sorta di limbo dove fermarsi a fare il punto sulla propria vita. Riaprendo le ferite del passato per guardare in modo diverso al futuro.

Alessio Torino, TINA, Minimum fax, 2016
Alessio Torino non mi aveva convinto del tutto con il precedente romanzo TETANO anche se avevo riconosciuto l’indubbia capacità narrativa. Con TINA invece mi ha tolto ogni dubbio. Forse c’è ancora qualche esercizio di stile ma qui si respira un’aria di autenticità ed empatia che arriva dritta al lettore. Perché Tina, la ragazzina protagonista della storia è un personaggio intenso, ruvido e tenero insieme e idealmente si integra benissimo nel paesaggio della storia, quello dell’isola di Pantelleria. Qui Tina passa le vacanze con la sorella gemella Bea e la madre, dopo la separazione dei genitori per il tradimento del padre, famoso musicista. Le due sorelle non potrebbero essere più diverse: femminile e seducente Bea, selvatica e scambiata spesso per un maschio, Tina. Che nasconde i suoi sentimenti e pensieri molto bene ma sa già guardare al mondo adulto con uno sguardo critico e disincantato. Tutti i personaggi in realtà sono ben delineati e mai banali, dall’antipatico fruttivendolo all’elegante campionessa di nuoto di cui Tina è gelosa. E così tra un tuffo e l’altro, la cattura delle meduse e le cene al ristorante di André, i litigi con la sorella e la nostalgia per il padre, per Tina sarà l’estate dell’abbandono dell’infanzia. Ma si intuisce che l’indomita Tina manterrà sempre il suo sguardo indagatore e partecipe verso la natura e la varia umanità che incontrerà sulla sua strada.

Eric Ambler, TOPKAPI, Adelphi, 2016 (traduzione di Mariagrazia Gini)
Libro ideale per rilassarsi ma anche per regalarsi molti sorrisi e qualche brivido. Eric Ambler è sempre una certezza, ma sarà che è un po’ che non lo leggevo, ho trovato questo TOPKAPI quanto mai vivo e attuale anche se ambientato nel dopoguerra. Al centro del romanzo Arthur Abdel Simpson, un personaggio a dir poco eclettico, giornalista fallito, ladro gentiluomo, senza un passaporto a causa dei suoi guai con la giustizia e per la sua nascita, madre egiziana e padre inglese. Un uomo sempre in bilico tra il bene e il male o più prosasticamente tra la sobrietà e il coma etilico. Arthur è uno di quei personaggi che vivono sempre al limite, più sfortunati che veri criminali, superficiali ma pericolosi solo per se stessi, a cui è impossibile non affezionarsi. Il tentativo di un furto ad Atene, dove vive, precipita Arthur in un’avventura piena di colpi di scena che lo metterà in contatto con degli abili criminali. Nel meraviglioso scenario del Bosforo, che per noi oggi diventa ritratto di un mondo che non esiste più e di un’atmosfera che lascia spazio solo alla nostalgia, Ambler da gran maestro orchestra una trama perfetta che impedisce anche al lettore meno motivato di abbandonare le pagine.

Julia Pierpont, TRA LE INFINITE COSE, Mondadori (traduzione di Carlo Prosperi)
“C’erano cose che imparavi presto, crescendo in città, o cose che imparavi tardi o non imparavi affatto. La bicicletta era una delle cose che Kay si era persa, insieme alle altalene appese agli alberi e alle macchinate di bambini, alle lavastoviglie e alle stanze dei giochi nel seminterrato. L’unico stile di nuoto che conosceva era quello per non affogare, una direzione qualsiasi tranne che in giù. Invece del cane loro avevano un gatto e prima del gatto un pappagallo calopsitta e un pappagallo cacatua, scimmie di mare, lucertole, gerbilli che facevano altri gerbilli, un mesto porcellino d’India. Kay compensava ciò che si era persa con le cose che New York le aveva insegnato. Tipo quanta strada ti restava dopo che il rosso pedonale aveva cominciato a lampeggiare. Come si ferma un taxi (mano in fuori ma immobile, dita unite). Sapeva dove mettersi in ascensore a seconda di quante persone c’erano già, quando bisognava aggrapparsi ai sostegni in metropolitana e quando si poteva mollare la presa e lasciarsi ondeggiare. Sapeva come non incrociare lo sguardo di nessuno se era circondata da persone”. Kay, la bambina undicenne del romanzo di esordio di Julia Pierpont TRA LE INFINITE COSE, è il personaggio che innesca involontariamente tutte le vicende che compongono la storia del pluripremiato libro. La ragazzina vive a New York con il padre Jack, famoso artista, la madre Deborah che ha lasciato la danza per dedicarsi alla famiglia e il fratello Simon di quindici anni. Tornando nel suo lussuoso appartamento dopo un pigiama party a casa di un’amichetta, riceve dal portiere un pacco indirizzato alla madre e sperando che sia un regalo per lei, lo apre. La scatola però contiene solo carta, tanti fogli ammucchiati come biglietti della lotteria: “Cara Deborah, questa lettera riguarda Jack ... Ho cominciato ad andare a letto con tuo marito a giugno dell'anno scorso...”, mail su mail, parole vergognose e sessualmente allusive. Kay chiude la scatola, entra in casa facendo finta di niente. Cosa c'entrano tutte quelle cose con la sua vita? Un segreto bruciante per una ragazzina. Quando il fratello Simon, quindici anni, arriva a casa, Kay lo chiama in camera sua e gli consegna la scatola. “Era stata la decisione meno impegnativa che Kay potesse pensare di prendere, ancora meno che non fare niente, che sapeva di inganno. Farla vedere a Simon era come farla vedere a se stessa, perché apparteneva a loro anche lui”. Simon legge e subito chiama la madre e comincia a detestare il padre. La scatola come la miccia di un esplosivo innesca una serie di reazioni a catena: Deb deve pensare in fretta cosa fare perché ha sempre voluto essere una moglie e cercato in tutti i modi di evitare il divorzio. Ma ora di fronte a quello che hanno saputo e letto i suoi figli deve prendere una decisione. Jack assiste al fallimento del suo matrimonio ma rischia anche di vedere distrutta la sua brillante carriera. Così si accordano per una sorta di limbo di quindici giorni: Deb si rifugia con i ragazzi nella vecchia e spartana casa di campagna mentre Jack cerca di mettere ordine nella sua vita. Come osserva giustamente Jonathan Safran Foer, che del libro dice: TRA LE INFINITE COSE “è una delle cose più emozionanti e sincere che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni”, Julia Pierpont riesce a dare voce ai suoi personaggi senza falsi moralismi o forzature ma a rappresentarli nella loro varie e a volte imprevedibili sfaccettature.

Jami Attenberg, SANTA MAZIE, Giuntina, 2016 (traduzione di Paola Buscaglione Candela)
Una storia fatta di cartoline: questa la sensazione che lascia SANTA MAZIE, il nuovo romanzo della scrittrice americana Jamie Attenberg che s’ispira all’omonima, leggendaria “Regina della Bowery”, la proprietaria del cinema Venice, talmente famosa tra gli anni ‘20 e ‘60 da essere immortalata dal New Yorker nel dicembre del 1940, in un lungo articolo firmato da Joseph Mitchell. E che si circondava nel gabbiotto dove vendeva i biglietti del suo cinema, di cartoline, ricevute in particolare dal capitano, l’uomo della sua vita che però si rifiuta di sposare e dalla sorella minore, ballerina in un circo. Già nota ai lettori italiani per I MIDDLESTEIN, da cui verrà presto tratto un attesissimo film, Jami Attenberg si sposta dalla Chigago dove viveva la famiglia borghese di Edie alle strade di New York. Come ne I MIDDLESTEIN una grande figura femminile al centro della storia, ma questa, oltre all’indubbio talento a dare voce a personaggi indimenticabili, è l’unica cosa in comune con il romanzo precedente, che aveva una struttura tradizionale. In SANTA MAZIE invece Jami Attenberg racconta la figura di Mazie attraverso un romanzo polifonico, ora con le pagine del diario della protagonista, ora con le interviste immaginarie alle persone che l’hanno conosciuta. A volte lunghe digressioni, altre solo poche parole, ma il tutto riesce a restituirci le tante sfaccettature di una personalità fuori dal comune. Mazie Philips nasce il 1° novembre 1897 in una famiglia di origine ebraica. Il padre, spesso ubriaco, ma anche ottimo ballerino, maltratta la moglie e le figlie finché la maggiore Rosie riesce ad andarsene per poi tornare a prendere le sorelle minori, Mazie appunto e Jeanie che alleva come le figlie che non è riuscita ad avere. Ha sposato infatti un uomo ricco, Louis, coinvolto in affari non sempre limpidi che cresce con amore le sorelle della moglie. Mazie manifesta subito un carattere forte e determinato: anticonformista e generosa, amante della vita, del sesso e dell’alcool, ha sempre una parola, una sigaretta, un goccio di liquore o qualche centesimo per tutti i barboni, i poveri, i diseredati che pullulano nelle strade di New York City negli anni della Grande Depressione e del proibizionismo. “Ha prolungato la vita di tanti poveracci”, scrisse allora il Times, “chiamando le ambulanze per portarli all’ospedale o negli ostelli che lei stessa pagava”. Alla sua morte, nel 1964, il New York Times le dedicò un necrologio, ricordandola come “La bionda platino dalla voce roca che per oltre 65 anni, dall’angusto gabbiotto del Cinema Venice, ha elargito consigli, soldi ed amicizia a ogni derelitto della Bowery”. Tutti gli homeless della città corsero al funerale della prosperosa e sboccatissima bigliettaia-proprietaria del Venice: “La gente mi chiede perché passo tanto tempo sulle strade. Le rispondo che è lì che sono cresciuta. Queste strade sono sporche ma sono casa mia e per me sono belle. I barboni ne conoscono la bellezza, le amano come fosse la loro pelle. (...) Il sole e il sudiciume si sono mescolati con il loro sudore e le loro sbornie. Tutto quel sudicio. È la terra. E se non riuscite a vedere la bellezza del sudicio, mi spiace per voi. E se non riuscite a capire perché queste strade sono speciali, allora andatevene dritti a casa vostra”. Come dice il Guardian, SANTA MAZIE è “un libro magnifico e coraggioso sulla famiglia, l’altruismo, le donne e la libertà, e anche una lettera d’amore a New York e, non ultimo, un manifesto sociale per il XXI secolo”.

Lydie Salvayre, NON PIANGERE, L’Asino d’oro, 2016 (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala)
Questo è un libro da leggere dall’inizio. Raccomandazione inutile, direte, è ovvio che i libri si leggono dall’inizio. Ma qui intendo che non dovete assolutamente saltare l’avvertenza delle traduttrici. Intanto perché leggendo vi verranno spesso in mente e le ringrazierete - come dovrebbe accadere sempre per il lavoro indispensabile che fanno – ma soprattutto perché in questo caso la loro professionalità è indispensabile per restituirci il romanzo linguisticamente ricco e originale di Lydie Salvayre. Per tradurre infatti NON PIANGERE della scrittrice francese, figlia di rifugiati spagnoli sfuggiti al franchismo, è stato necessario un lavoro di team tra una traduttrice dal francese e una dal catalano. Come raccontano all’inizio del libro Lorenza Di Lella e Francesca Sala: “Nell’originale, a caratterizzare la tipicità della parlata di Montse (...) concorrono almeno due elementi. Accanto ai termini presi di peso dallo spagnolo, vi è la declinazione secondo la grammatica francese di alcune parole spagnole e l’uso improprio di espressioni idiomatiche francesi. Nell’atto di tradurre si è cercato di lavorare allo stesso modo con l’italiano, ma anche di riprodurre (...) le caratteristiche stilistiche più ardite dell’impasto linguistico che l’autrice ha scelto per i dialoghi per ragioni squisitamente musicali, oltre che sentimentali”. Montse, la protagonista del romanzo vincitore del prestigioso premio Goncourt nel 2014, viene raccontata dalla figlia attraverso dialoghi, scorci di memorie, ricordi espressi in una “lingua sbilenca e zoppicante” che la figlia si trova continuamente a correggere. È la lingua di una migrante perché Montse ha lasciato il suo paese nel 1939 in seguito alla sanguinaria repressione franchista: “Alla fine dopo mille peripezie si stabilì in un paesino della Linguadoca, dove dovette imparare una nuova lingua (che iniziò da subito a strapazzare) e un nuovo modo di vivere e di comportarsi, senza piangere. Ci vive ancora oggi”. Quasi novantenne, Montse racconta alla figlia la sua vita o meglio la sua giovinezza: “Non resta nella sua memoria che quell’estate del ’36 in cui la vita e l’amore la presero a braccetto, quell’estate in cui ebbe l’impressione di esistere appieno e in armonia con il mondo, quell’estate di giovinezza assoluta, come avrebbe detto Pasolini, e all’ombra della quale ha vissuto forse il resto dei suoi giorni (...) quell’estate radiosa che ho messo al sicuro in queste pagine, perché i libri servono anche a questo”. Parallelamente alla vicenda della madre, Lydie Salvayre ci racconta il 1936 dello scrittore francese Georges Bernanos che con I GRANDI CIMITERI SOTTO LA LUNA prese pubblicamente e definitivamente le distanze dai suoi vecchi amici dell'Action française e condannò i massacri e le atrocità commesse dalla Falange prendendo a pretesto il nome del Cristo. Così NON PIANGERE è insieme un intenso romanzo familiare e una testimonianza mai banale sulla guerra civile spagnola. Oltre che un grande inno alla libertà e alla vita: “È impossibile, figlia mia, descrivere l’atmosfera che si respirava e trasmetterti quella sensazione così viva in modo da fartela arrivare dritta al cuore. Devi averla vissuta per capire la commozione, lo shock, l’aturdimiento, la revelacion que fue para nostro el descubrimient de esta ciudad en el mes de agosto ‘36”.

Philippe Claudel, IL ROMANZO DEL CUORE E DEL CORPO, Ponte alle Grazie, 2016 (traduzione di Francesco Bruno)
“So che noi dobbiamo realmente ciò che siamo ai genitori, certo, ai maestri di scuola, forse ad alcuni professori, ma sono convinto che dobbiamo molto, nella nostra costruzione intima e affettiva, agli artisti, siano essi vivi o morti, e alle opere che hanno prodotto e che restano, nonostante la loro sparizione, nonostante il tempo che sopprime i sorrisi, i volti e i corpi”: è un libro pieno di arte e artisti il nuovo romanzo di Philippe Claudel, scrittore – basti ricordare il celebre LE ANIME GRIGIE, tradotto in trenta paesi e vincitore del premio Renaudot - e regista (TI AMERÒ PER SEMPRE, e NON CI POSSO CREDERE, con Neri Marcorè e Stefano Accorsi). IL ROMANZO DEL CUORE E DEL CORPO, pubblicato da Ponte alle Grazie con l’ottima e molto efficace traduzione di Francesco Bruno, è un percorso tra le passioni del protagonista, un famoso regista e del suo più caro amico, Eugene, il suo produttore, tra cinema, arte, letteratura, antropologia, viaggi, filosofia. Il libro è una riflessione mai banale sul tempo, trascorso, rimasto, rimpianto, vissuto: “Il rimorso, il tempo, la morte, il ricordo sono soltanto le diverse maschere di un’esperienza che non ha nome nella lingua, e che si potrebbe per semplicità indicare con l’espressione 'uso della vita'. Se ci si pensa, tutta la nostra esistenza sta nella sperimentazione che ne facciamo. Non smettiamo di costruire noi stessi di fronte allo scorrere del tempo, inventando stratagemmi, macchinari, sentimenti, inganni per cercare di prenderci un po’ gioco di lui, di tradirlo, accrescerlo, dilatarlo o accelerarlo, sospenderlo o scioglierlo come zucchero sul fondo di una tazza”. Il filo conduttore della storia è l’amicizia, il legame con Eugene che viene spezzato dalla malattia: “Riderai – mi diceva, ma ho un brutto cancro”. Non ho riso, a dire il vero, confesso però di aver sorriso. Di dolore, probabilmente. O forse di tristezza. Di dispetto. Un sorriso da giocatore di scacchi battuto da qualcuno più forte di lui. Da qualche anno la morte mi assedia. Tenta di accerchiarmi. Di avvicinarsi il più possibile a me. Per darmi una palpata. Per farmi capire che invecchio? Che devo aspettarmi che arrivi? Che il match è cominciato mentre io ho la sensazione di non essere ancora uscito dagli spogliatoi?”. È un libro da leggere con la matita in mano IL ROMANZO DEL CUORE E DEL CORPO perché è impossibile non soffermarsi a sottolineare o annotarsi passaggi della storia, riflessioni, coincidenze, pensieri che non possiamo non condividere: “Scomparso Eugene, mi sono reso conto di come la nostra fosse un’amicizia di parole, e di come queste parole scambiate avessero costituito per me, nel corso degli anni, un’ossatura di quella casa che tutti cerchiamo di costruire con pazienza e difficoltà e che si chiama vita”. Philippe Claudel ha il merito di non annoiarci ma anche di non volerci insegnare niente: ci racconta la sua ricerca spesso vana di risposte, le domande sul senso della vita, il rapporto con il nostro corpo, la malattia, il senso di fallimento, ma anche l’amore, il sesso, i legami che non riusciamo a scogliere e quelli che abbiamo dimenticato. Il tutto portandoci in giro tra l’isola di Solawesi, Parigi, Venezia e le rovine di Pola perché viaggiare ci permette di cambiare visuale e punti di vista e magari di guardare anche dentro di noi da un’altra prospettiva.

Lily King, EUFORIA, Adelphi, 2016 (traduzione di Maria Grazia Ciani)
“Nel mio lavoro credo di cercare soprattutto la libertà, in questi posti lontanissimi cerco un popolo, dove le persone si diano lo spazio per essere come hanno bisogno di essere”: così Nell, la protagonista del romanzo di Lily King, EUFORIA, parla del suo lavoro di antropologa, ma anche del desiderio che lei stessa e gli altri personaggi del libro hanno di poter essere quello che sono. L’unico modo pare quello di lasciare il mondo occidentale per conoscere e studiare le popolazioni che ancora vivono ai margini della cosiddetta civiltà in modo primitivo. EUFORIA è come abbiamo detto un romanzo ma ispirato alle vere esistenze di tre protagonisti dell’antropologia contemporanea: l’americana Margaret Mead, il marito neozelandese Fenwick Schuyler e l’inglese Gregory Bateson. I tre si incontrano nel 1933 lungo il fiume Sepik, nel territorio della Nuova Guinea. Nell (Margaret Mead) è reduce dalla pubblicazione del suo primo saggio che ottenne grande risalto e successo ma scatenò anche forti polemiche in particolare nella conservatrice Inghilterra. La sua voce narrante si alterna a quella di Andrew Bankson (Gregory Bateson che, nella realtà, divenne marito della Mead nel 1936), ultimo figlio sopravvissuto di una famiglia di convinti scienziati, vessato dalla madre che lo vorrebbe dedito alla scienza pura e non all’ibrida antropologia. L’incontro tra i tre serve a Lily King per dipanare tantissimi raggi narrativi che tengono sempre più legato il lettore alle pagine. A partire dall’attrazione non solo erotica tra Nell e Andrew sino al “gioco” antropologico che ci offre il terzetto dei protagonisti: l’americana e senza pudore Nell, il tormentato e spesso troppo educato inglese Andrew, l’affascinante, diretto, sboccato neozelandese Leo. Di tutti Lily King sottolinea spesso comportamento e modi di relazionarsi con il resto del mondo tipici del paese da cui provengono. Ci sono poi le meravigliose descrizioni naturalistiche, i viaggi sul fiume con tale realismo e poesia che ci sembra di essere anche noi seduti sulle pagode scavate nell’albero pane; le buffe dinamiche dei rapporti tra i bianchi e gli indigeni; il desiderio di maternità di Nell che si scontra dolorosamente con la noncuranza con cui le popolazioni con cui vive trattano le vite del bambini; le riflessioni sull’amore e i vari modi in cui può essere declinato. Vale la pena leggere EUFORIA anche solo per come Lily King racconta le dinamiche di coppia tra Nell e Leo e il sentimento che nasce tra Nell e Edward. C’è poi il lavoro sul campo e cosa significa la passione per l’antropologia, che contagerà anche i lettori più scettici: “Le domandai se secondo lei si poteva davvero capire un’altra cultura. Le dissi che più rimanevo, più mi sembrava che le mie fatiche fossero insensate: adesso la cosa che mi interessava maggiormente era come potevamo pensare di essere obiettivi, noi che arrivavamo ognuno con la sua definizione personale di bontà, forza, mascolinità, femminilità, Dio, civiltà, bene e male”. “... quel momento in cui sei arrivato da circa due mesi e pensi di aver capito come funziona. Tutt’a un tratto ti sembra di avere la situazione in pugno. È un’illusione, visto che sono passate solo otto settimane, e dopo ti prende la disperazione perché ti rendi conto che non ci capirai mai niente. Ma in quel momento in cui ti senti padrone di tutto. Non c’è euforia più breve e più pura“. La stessa euforia la provano i lettori, ricercatori sul campo della pura bellezza della letteratura, illudendosi, come gli antropologi, di cogliere a una prima lettura tutta la ricchezza del romanzo della talentuosa scrittrice americana.

Marcello Fois, MANUALE DI LETTURA CREATIVA, Einaudi, 2016
Fabio Stassi, LA LETTRICE SCOMPARSA, Sellerio, 2016

Uno è un romanzo, ma ci sono parti che potrebbero tranquillamente comparire in un saggio di critica letteraria; l’altro è un saggio, ma ha spesso un passo narrativo e ci racconta molto delle passioni del suo autore. Entrambi sono pieni di libri, citati, consigliati, raccontati, proposti, analizzati, letti e amati. LA LETTRICE SCOMPARSA di Fabio Stassi e MANUALE DI LETTURA CREATIVA di Marcello Fois rappresentano il sogno di ogni lettore declinato in modi diversi. Si possono davvero leggere uno fianco all’altro perché sono in qualche modo complementari. Nel libro di Fois leggiamo: “Io sono un lettore compulsivo. Il che, presumo, sia una specie di malattia”. Vincenzo Corso, detto Vince, il protagonista del romanzo di Stassi dice di sé: “... mi ero ammalato di letteratura. Sapevo che si trattava di una malattia mortale, e incurabile... Non sapevo più cosa avevo realmente vissuto e cosa soltanto letto”. E la definizione che dà Marcello Fois del lettore creativo sta perfettamente a Vince, insegnante precario di letteratura che cerca di sbarcare il lunario inventandosi un lavoro da biblioterapeuta: “... diventare un lettore creativo significa essere disponibili a dare il proprio contributo al libro che si sta leggendo, appropriarsene senza alcun complesso d’inferiorità, ma nemmeno di superiorità, metterlo in gioco rispetto alla propria vita, concepire connessioni che derivano dalla propria specifica esperienza... Il lettore creativo vuole sorprendersi, essere preso in contropiede, considerare un punto di vista che gli pareva impossibile. Il lettore creativo vuole amare il libro che non si aspetta. Il lettore creativo è attivo, ha abbastanza punti di riferimento da non lasciarsi abbindolare dalla 'buona scrittura' senza una 'buona storia' e viceversa”. Ma mentre il saggio di Fois è il racconto motivato e sentito della sua storia di lettore ma anche una serie di acute considerazioni sulla narrativa cosiddetta di genere, se ha ancora senso chiamarla così, sul significato di classico e sulle zone in cui agiscono scrittori e lettori, il romanzo di Stassi più che alle vicende del suo protagonista, è un omaggio ai libri attraverso le loro lettrici. Come la signora Parodi, silenziosa vicina di casa di Vince che improvvisamente scompare. Nessuno sembra sapere cosa possa esserle accaduto e i sospetti si concentrano sul marito, un tipico esemplare di uomo anziano taciturno e prevedibile anche nella sua scontrosità e nel suo affetto per il cane Django. Ma Vince trova la lista delle letture della moglie e comincia ad indagare in una Roma che è un elemento fondamentale della storia: “qualcuno ha scritto che in nessun altro luogo del mondo è più teatrale il senso dell’effimero e dell’eternità, più incerto il confine tra il sacro e il potere. Di sicuro, da nessun’altra parte si avverte con lo stesso sconforto tutta la coerenza e l’insensatezza del Tempo e della Storia. No, nessuna città può essere più triste e atea di Roma, in certe sere”. Che legame c’è tra i libri letti dalla signora Parodi e la sua scomparsa? Vince lo scoprirà frequentando la biblioteca pubblica ma anche ascoltando le sue clienti, ansiose di esporgli i loro problemi e nello stesso tempo pronte a lasciare che la lettura glieli faccia dimenticare per un po’.
Due libri sulla lettura e sui lettori che dialogano idealmente tra di loro e sono soprattutto una fonte inesauribile di letture.

Maggie O’Farrell, IL TUO POSTO È QUI, Guanda, 2016 (traduzione di Stefania De Franco)
“Da piccolo mi piaceva da matti fare quel gioco in cui c’è una pagina disseminata di puntini apparentemente messi a caso. Bisogna unirli, un numero dopo l’altro, con una riga a matita, per far emergere una forma dal caos, per dare un senso al disordine. Il momento che preferivo era circa a metà, quando potevi guardare la parte che avevi fatto e quella mancante per cercare di indovinare cosa fosse. Un razzo? Un trattore? Una palma, una barca a vela, un dinosauro, una spiaggia? Poteva essere qualunque cosa. I migliori erano quelli fuorvianti. Pensavi fosse una locomotiva e invece era un drago con le narici fumanti. Pensavi di vedere un gatto e invece stavi inseguendo un’iguana. La stessa sensazione di scarto fra ciò che credevi di fare e ciò che hai fatto davvero mi avvolge adesso... avevo sempre pensato che la mia vita fosse stata una cosa, ma ora ho l’impressione che potrebbe essere stata tutt’altra”. Il nuovo libro di Maggie O’Farrell, IL TUO POSTO È QUI, è come il gioco dei puntini raccontato dal protagonista Daniel Sullivan: tante voci, tanti luoghi, salti temporali che, quando cominci a unire, intravedi il quadro generale. Ma non mancano sorprese, colpi di scena, cambi di prospettiva che ti tengono legato alla pagina sino... all’ultimo puntino. Subito e con grande sicurezza la scrittrice irlandese dissolve ogni minimo dubbio che un’autrice donna sappia raccontare appieno un personaggio maschile. Il vero protagonista di IL TUO POSTO È QUI è indubbiamente Daniel, brillante professore di linguistica prima a Berkeley, poi a Belfast, costretto a non vedere i suoi figli dopo un disastroso divorzio. Che lo spinge a tornare nel paese d’origine della sua famiglia, l’Irlanda, dove incontra Claudette, famosa attrice e regista, anche lei in fuga dalla ribalta e da un uomo sbagliato. L’amore tra i due è il cuore del romanzo e per rappresentare il loro matrimonio, da cui nasceranno due figli, Maggie O’Farrell ci guida nel loro passato e nello stesso tempo ce li mostra nel loro quotidiano presente. Così in un capitolo ci troviamo nell’ambulatorio dove Daniel porta ogni settimana il figlio del primo matrimonio per alleviare una grave forma di eczema; voltando pagina siamo a Londra dove la giovane Claudette negli anni Novanta insieme a tante ragazze cerca di “conquistarsi il magico binomio di lavoro + appartamento, se possibile nello stesso istante, perché uno sembrava impossibile senza l’altro”. E in mezzo alle storie e poi alla storia comune di Daniel e Claudette ci sono gli altri personaggi, o meglio ci sono le loro famiglie: i genitori, gli ex coniugi, i figli di primo e secondo letto in un gioco di continui richiami che vanno a comporre un puzzle via via sempre più chiaro e intenso. Tra tutti come dicevamo svetta la figura di Daniel, ottimo padre nonostante il rapporto disastroso con il suo, o forse proprio per quello; marito innamorato e complice di Claudette, donna dalla forte e a volte ingombrante personalità. Ma soprattutto un uomo che sa mettersi a nudo, guardarsi dentro, ammettere le proprie manchevolezze ma non per questo assolversi. Seguiamo il suo percorso per cercare una piena consapevolezza di sé attraverso rimorsi e rimpianti, rabbia e slanci di felicità, decisione ponderate e gesti impulsivi e ammiriamo la capacità di Maggie O’Farrell di raccontare la vita. Semplicemente la vita, con empatia, ironia, partecipazione e distacco insieme. Grazie anche a un linguaggio ricco e intenso come i paesaggi umani e naturali che racconta.

Cristina Henríquez, ANCHE NOI L’AMERICA, NNE, 2016 (traduzione di Roberto Serrai)
“A quel tempo volevamo soltanto le cose più semplici: mangiare del buon cibo, dormire sereni la notte, sorridere, ridere, sentirci bene. Ci sembrava di averne diritto, noi come chiunque altro. Certo, se ci penso adesso, capisco quanto sia stata ingenua. Ero accecata da un moto di speranza e dalla promessa del possibile, convinta che nelle nostre vite non fosse rimasto più nulla in grado di andare storto”: comincia così, con la voce di Alma, ANCHE NOI L’AMERICA il potente e commovente romanzo che ha confermato il talento di Cristina Henríquez. Ma prima di addentrarci nella storia e nella scrittura del libro, bisogna sottolineare il sapiente e raffinato lavoro dell’editore NN che non solo ci ha portato questa voce unica e indimenticabile ma l’ha fatto nel migliore dei modi, con una traduzione all’altezza e un apparato rigoroso e rispettoso dei lettori a partire dalla nota finale del traduttore che vi farà comprendere molto altro sul racconto sino ai materiale che potete trovare sul sito www.nneditore.it. Anche se la vicenda narrata dalla scrittrice americana è in realtà molto semplice non è facile riassumere la ricchezza di temi, storie, sentimenti di ANCHE NOI L’AMERICA. Partiamo da Alma che lascia legalmente con il marito la cittadina natìa in Messico per il Delaware, negli Stati Uniti, dove sperano di trovare una scuola adatta a Maribel. La ragazzina, infatti, dono tardivo di una coppia unita e innamorata, cresce bella, vivace e intelligente sino a quando, a causa di una caduta, subisce un danno neurologico che le causa amnesie e assenze. Per i Rivera gli Stati Uniti rappresentano la possibilità di guarire la ragazza o comunque di darle un futuro migliore anche a costo di lasciare tutto: “Rimasi lì a sentire la nostalgia montare e abbattersi su di me, come un’onda, riempiendomi orecchie e narici, minacciando di sbattermi a terra”. Qui i protagonisti si ritrovano in un condominio tutto abitato da immigrati di lingua spagnola e cominciano faticosamente la loro nuova vita. La loro storia è in realtà la storia di migliaia di persone ma Cristina Henríquez riesce a dare voce a chi ha dovuto abbandonare il proprio paese e a chi come il giovane Mayor Toro non sa qual è il suo posto nel mondo: “Mi sentivo americano più di ogni altra cosa, ma anche su questo si poteva discutere, almeno secondo i miei compagni che a scuola mi prendevano in giro da anni, mi chiedevano se ero parente di Noriega e mi invitavano ad attraversare il canale e tornare a casa mia. La verità è che non lo sapevo cosa fossi. Mi sentivo americano e non me lo lasciavano dire, mi dicevano che ero panamense ma non mi ci sentivo”. Attraverso la quotidianità dei suoi personaggi Cristina Henríquez non ci fa sconti sulla sofferenza e le ingiustizie ma sa anche raccontarci la solidarietà, le amicizie, l’innamoramento, la speranza di poter trovare e soprattutto costruire un futuro migliore. E tratta con sensibilità anche la disabilità, regalando a Mirabel una voce autentica, scevra da ogni facile banalizzazione. Si esce dalla lettura o meglio si arriva alla fine delle pagine, perché in realtà dal libro non si esce più, con una sensazione insieme di grande dolcezza e profonda tristezza. E ci si sente inquilini non solo del condominio dove vivono i Rivera e gli altri immigrati, ma inquilini di un mondo dove siamo di passaggio e dove tutti cerchiamo di non lasciare calpestare le nostre piccole speranze e i nostri sogni.

Flavia Piccinni, QUEL FIUME È LA NOTTE, Fandango, 2016
“Siamo la nostra capacità di sopravvivere ai lutti, nient’altro”. Non è il racconto del viaggio in India di Lea, che fugge da una vita apparentemente felice per vagabondare per un mese intero o forse più, armata solo di uno zaino e della sua disperazione, al centro del nuovo romanzo di Flavia Piccinni. La vera storia di QUEL FIUME È LA NOTTE è in realtà il racconto di un aborto o meglio di quello che accade a una donna dopo che effettua un’interruzione di gravidanza. Che Lea ha liberamente scelto ma che le ha lasciato cicatrici indelebili e pensieri sempre costanti su quel figlio che si è rifiutata di avere. Il romanzo di Flavia Piccinni non è un racconto a tema e non vuole prendere una posizione politica o teologica sulla dibattuta questione dell’aborto. Ne indaga letterariamente i sentimenti, mettendo al centro della storia una donna che decide di non essere madre, ma che poi deve scendere a patti con la sua educazione, il suo essere figlia e moglie, le aspettative della società in cui è cresciuta e che forse sono ancora le sue. Lea si trova a un bivio e la fuga in un paese dove nell’immaginario collettivo è la spiritualità ad avere il sopravvento sulla realtà sembra una buona soluzione per guardarsi dentro e venire a patti con se stessa. In QUEL FIUME È LA NOTTE i veri protagonisti sono gli assenti: il bambino che Lea ha deciso di non far nascere e il marito che di quel bambino sarebbe stato il padre. Un romanzo coraggioso e riuscito, che conferma il talento di Flavia Piccinni. Nata nel 1986, la scrittrice tarantina è già al terzo romanzo. È inoltre coordinatrice editoriale della neonata casa editrice Atlantide. E ci conforta sul presente e il futuro della narrativa italiana.

Gianni Farinetti, IL BALLO DEGLI AMANTI PERDUTI, Marsilio, 2016
Gianni Farinetti è sempre una certezza e ci regala una lettura piacevole dove si alternano momenti di puro relax, anche grazie all’ambientazione nelle Langhe, e momenti dove il mistero prende il sopravvento.
Per merito anche di una scrittura dettagliata e vivace che sin dalle prime pagine ci cala nell’ambientazione del romanzo.
Tanto che cominciamo anche noi a pensare a quale abito indossare per il capodanno in maschera organizzato dall’ambizioso sindaco del paesino delle Langhe dove è ambientata la vicenda.
Ma il valore del racconto è nel teatro che Farinetti anima con i suoi tanti personaggi, regalandoci una commedia che diverte e fa pensare.

Jane Urquhart, SANCTUARY LINE, Nutrimenti, 2016 (traduzione di Nicola Manuppelli)
“Io credo che le cose che ci attraggono e quelle che ci respingono abbiano lo stesso potere sul nostro corpo e sulla nostra mente, e sembrano, almeno a me, ugualmente determinanti nel nostro destino... Messa fuori rotta da un improvviso salto di vento, una farfalla non raggiungerà mai la sua destinazione. Morirà in volo, senza accoppiarsi, e le meravigliose potenzialità contenute nelle sue cellule e affidate alla sua migrazione non potranno mai realizzarsi”. Arriva finalmente anche per i lettori italiani la voce della scrittrice canadese Jane Urquhart, considerata l'erede di Alice Munro e Margaret Atwood. Grazie alle edizioni Nutrimenti e alla poetica traduzione di Nicola Manuppelli possiamo leggere quello che è considerato il suo romanzo più rappresentativo, SANCTUARY LINE, e assaporare la sua prosa potente ed allusiva. La protagonista, l’entomologa Liz Crane, viene chiamata a lavorare in un centro di ricerca per studiare la migrazione delle farfalle monarca, e ritorna così a vivere nella fattoria in riva al lago Erie dove ha trascorso le estati della sua infanzia. La fattoria e i terreni sono così rovinati che è difficile immaginare gli sterminati frutteti e soprattutto la miriade di persone che ci giravano intorno. Zii e cugini di Liz, ma anche i lavoratori che giungevano annualmente dal Messico per la raccolta. Liz attribuisce la colpa al geniale e imprevedibile zio Stanley, scomparso senza più dare sue notizie, tanto da non sapere neppure della morte in missione di pace in Afghanistan della talentuosa figlia Mandy: “Per quanto mi riguardava mio zio aveva perso la cittadinanza nella geografia dei nostri antenati. Aveva perso il privilegio di poter rivendicare un posto per sé nella mappa del mondo, e volevo che anche il ricordo di lui venisse cancellato”. Il romanzo è un continuo rimando tra passato e presente e la protagonista stessa sembra abitare più stagioni della vita nello stesso tempo e veramente mai nessuna. Liz vive come sospesa e l’unica certezza della sua malinconica esistenza sono le farfalle e l’inesorabile destino a cui la natura le ha destinate. Jane Urquhart sembra dirci che nulla possiamo fare per guidare la nostra vita perché “raccontandoti questa storia, adesso, non faccio che confermare il mio convincimento riguardo all’arbitrarietà e alla fragilità che governano il formarsi delle famiglie umane”. SANCTUARY LINE ti culla nella dolcezza dei ricordi, ti illude con il primo amore mai dimenticato (“Molto di un primo amore – forse di ogni amore – cresce nella solitudine e nell’assenza. Si potrebbe rimuovere uno dei giocatori dal tavolo e non cambierebbe nulla, perché l’immaginazione è fatta così. E quell’amore diventa strano, una volta che è entrato nella casa che l’immaginazione ha costruito per lui”), ti racconta la storia di un paese popolato di migranti, ti sorprende con un finale inaspettato e soprattutto ti convince del grande talento di Jane Urquhart.

Elvio Fassone, FINE PENA: ORA, Sellerio, 2015
Questo è un libro da cui mi difendevo da tempo. Persone amiche e fidate sollecitavano la lettura, ma io mi tenevo ben lontana con una strana sensazione di angoscia. Avevo torto e ragione. Ragione nel difendermi perché è uno di quei libri che ti cambia la visione del mondo. Torto perché lo pensavo una pura testimonianza e invece tanto di cappello a Elvio Fassone perché è stato un ottimo magistrato ma è anche un capace narratore. Quindi non fate come me e leggetelo al più presto! “FINE PENA: ORA”, il titolo del libro è il rovescio della medaglia di “Fine pena: mai” la formula giuridica di chi è condannato all’ergastolo. Nel racconto del magistrato e componente del Consiglio Superiore della Magistratura, c’è sempre un duplice punto di vista a partire dal fuori-dentro al carcere. FINE PENA: ORA infatti racconta la corrispondenza durata ventisei anni tra Elvio Fassone, presidente del maxi processo alla mafia catanese del 1985 a Torino e Salvatore, a soli 28 anni uno dei capi indiscussi di quell’organizzazione criminale, condannato all’ergastolo per quindici omicidi. Il processo durò quasi due anni, e tra i due si instaurò un rapporto di reciproco rispetto e quasi di fiducia. Il giorno dopo la sentenza, il giudice gli scrive d'impulso e gli manda un libro: “non so ancora che questo piccolo gesto cambierà due vite, quella di Salvatore e un poco anche la mia. Senza i 26 anni di scambio che seguiranno, avrei concluso una carriera ineccepibile e arida come quella dei giudici di Spoon River, attori di spoliazioni umane altrui e propria, prigionieri del ruolo. Senza quel pacchetto Salvatore – me lo confesserà più tardi – avrebbe cercato assai prima di porre fine alla sua esistenza”. Saranno 1300 le lettere che i due si scambieranno e quando Salvatore tenta di togliersi la vita dopo 30 anni in carcere Fassone decide che quel “Fine pena: mai” che la giustizia ha scritto sulla sua scheda si deve trasformare in “Fine pena: ora” e che è necessario raccontare la storia della fitta corrispondenza. “Questa vicenda – spiega Fassone – ha un particolare che credo la differenzi dalle altre. All’inizio della storia c’è qualcosa che l’ha messa in moto, qualcuno che ha pronunciato la condanna di Salvatore all’ergastolo, che ha spalancato i cancelli destinati a rinchiuderlo per sempre. Ebbene, l’uomo che ha segnato la sua vita e poi, in qualche misura, lo ha accompagnato per ventisei anni, sono io”. Il racconto di Fassone non è solo il legame tra due uomini, ma una profonda riflessione sul delitto e sulla pena, sul senso del carcere a vita, sulla legislazione carceraria, su cosa significhi essere dentro. E’ un libro pieno di domande che ci toccano da vicino e ci obbligano ad ampliare il nostro punto di vista. FINE PENA: ORA è anche l’apologia di un destino che Salvatore sente spesso come ineluttabile (“presidente... le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia, e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”), ma che a volte lo è per inghippi burocratici che non dovrebbero poter decidere il corso di un’esistenza e togliere a un uomo ogni speranza: “Caro presidente, sono sereno, anche se sono stanco di sbarre, sono arrivato al punto che rifiuto del tutto di stare qui, lei può dire che ci ho passato la vita, è vero, ma adesso non mi ci trovo più, e se penso che ho passato tutti questi anni in carcere, delle volte non ci credo nemmeno io, come ho fatto a sopportare tutto quello che ho passato, ho il rifiuto di questo ambiente...”. Elvio Fassone ha prima scritto una lettera che in qualche modo ha cambiato la vita di Salvatore; ora con questo libro ha mandato anche a noi un messaggio che arriva dritto alla mente e al cuore.

Cinzia Bigliosi, A MILLE CE N’È, L’Iguana, 2015
Tra le cose più terribili che possono capitarmi nel mio lavoro c’è che un’amica scriva un romanzo. Lo so, sono fortunata... Ma tra le cose più belle e devo dire assai rare c’è che il libro sia bello, come in questo caso. Della serie: ritrovare una vecchia amica e rincontrarla in questo romanzo breve, di ottima fattura. “Cipressi? Le piante che non danno frutti sono come le donne che non fanno figli: belle e inutili” avevano commentato tra loro, con roco disprezzo, i contadini disgustati... Passando davanti al bosco di cipressi, Irma cercava di immaginare la vita delle persone che infinito tempo prima avevano deciso di inoculare la propria esistenza dietro una densa tenda di rami, protette e nascoste, isolate su una zolla di terra recintata da cipressi cimiteriali... Se socchiudeva gli occhi poteva vedere la casa coperta dall’ombra longilinea delle piante e riparata dalla canicola... Nel suo pensiero aveva deciso che in quella casa non poteva non abitare una solida felicità, custodita dai cipressi che ne nascondevano l’esistenza alle crudeli intemperie del mondo di fuori”: in questo breve brano c’è condensato A MILLE CE N’È, il romanzo di esordio di Cinzia Bigliosi, docente di letteratura e traduttrice. La mancanza di figli, gli alberi, la casa, i sogni, le unioni felici, le amare delusioni. Un libro breve, pubblicato dal raffinato editore veronese L’Iguana, ma dove in realtà ci sono tante storie e soprattutto molti livelli di lettura. Colpisce da subito la lingua precisa, raffinata, quasi chirurgica e la capacità di dare voce ai sentimenti delle sue protagoniste. Una, Irma, architetto entusiasta del suo lavoro, un matrimonio senza figli, ma comunque felice; l’altra, la moglie del direttore, serena madre di una bambina curiosa e vivace intenta a giocare nel bel giardino della villa dove vive la famiglia. Le due donne si incontrano, o meglio si scontrano per un gioco incredibile del destino che cambierà le loro vite. Cinzia Bigliosi ci porta per mano nelle loro esistenze per poi sorprenderci con un finale inaspettato. Con uno stile e un ritmo che ricordano i film insieme glamour e agghiaccianti di Alfred Hitchcock. Cinzia Bigliosi ha tradotto molti romanzi; con il passaggio in qualche modo dall’altra parte della pagina ci fa conoscere anche il suo sicuro talento di narratrice.

Stefano Trinchero, LA COPIA INFEDELE, 66thand2nd, 2016
Quello che mi ha colpito subito sin dalle prime pagine di LA COPIA INFEDELE è il registro ironico se non comico che caratterizza la scrittura di Stefano Trinchero. Finalmente, ho pensato! Ecco, il romanzo dello scrittore torinese è di quel genere, assai raro, che vorresti avere dietro ovunque, per tirarlo fuori alla minima occasione di lettura. Guido Riberto, giornalista sportivo che si occupa molto pigramente della terza squadra di Torino, la Lungodoriana, a causa dell’incidente stradale che vede coinvolto Gonzalo Malagutti, punta argentina della squadra, vede sconvolto il suo tranquillo tran tran. L’indagine sulla vicenda infatti lo porterà fuori dalla redazione del giornale e lontano dai campi di gioco. A partire dalla figura del calciatore che dà il via alla storia, sino agli assicuratori che compariranno nella seconda parte del romanzo, (“Dominici si allontanò mettendo fine alla conversazione e Fasano lo osservò disgustato mentre si dirigeva verso una fila di automobili bianche. Per lui, che in vita sua aveva trascorso più tempo seduto sul sedile di un’auto di quanto non ne avesse passato disteso in un letto, era del tutto inconcepibile l’idea che un uomo si muovesse su un mezzo di locomozione che non fosse il proprio. Pagare qualcuno per guidare era in assoluto uno dei gesti più degradanti ai quali potesse abbandonarsi un essere umano”), leggiamo una sorta di rosario di fallimenti. Professionali, personali, occasionali, senza speranza, ben collocati nel grigio panorama delle strade di Torino che Trinchero ci costringe a percorrere in lungo e in largo. Perché LA COPIA INFEDELE lascia la strana sensazione di muoversi continuamente per rimanere però nella stessa desolazione di partenza. Lo scrittore piemontese riesce a dilatare le atmosfere del racconto e quasi a sfidare il nostro immaginario, soprattutto cinematografico: ora ci sembra di essere in un film di Woody Allen, subito dopo in un ganster movie e ancora dopo nella alienante società industriale descritta da Charlie Chaplin. Così LA COPIA INFEDELE non è catalogabile, se ce ne fosse bisogno, nel genere noir ma riesce ad essere anche romanzo sociale, fedele rappresentazione della vita in una redazione di giornale, ironico ritratto dei teatri “alternativi”, riflessione disincantata sulle aspirazioni deluse, accurato bignami dell’amicizia al maschile. E il grigio della bellissima copertina di Toccafondo è il colore dominante, dalle pagine del giornale alle strade asfaltate, dal denaro che è alla base di tutto sino ai faldoni delle pratiche assicurative. Tutto questo arriva al lettore grazie a una scrittura scorrevole e accurata, a un ritmo incalzante, a dialoghi serrati e mai inutili, a un tono autenticamente comico, cifra caratteristica dell’autore e così rara da trovare. Stefano Trinchero possiede sicuramente una sua voce narrativa, un immaginario ricco che riesce a domare in funzione della storia, uno sguardo critico che si sente vigile tra le parole ma che non diventa mai pedante e giudicante. Bravo!

Francesco Abate, MIA MADRE E ALTRE CATASTROFI, Einaudi 2016
“Guarda, figlio mio, io te lo dico chiaro e tondo. - Sì, Ma’. – Tu con questo libro rischi di fare uno scivolone. Penseranno che tua madre è una macchietta. Diranno che l’hai fatta facile. Crederanno che sei un mammone, che ci sentiamo cento volte al giorno, invece, se capita una volta alla settimana è un miracolo. Diranno che sei stato superficiale. E poi, non capisco perché non hai mai parlato di come faccio lo stoccafisso che ti piace tanto. Ti accuseranno di essere stato leggero e frivolo. Comunque un passaggio a tua zia Rosa, che di ogni tuo libro ne compra dieci copie, potevi anche dedicarglielo. Bisbiglieranno che sei stato inconsistente, e buffone. Figlio mio, guarda, te lo dico chiaro e tondo, qui tu rischi grosso”: si intitola MIA MADRE E ALTRI CATASTROFI il nuovo libro di Francesco Abate e non è difficile scoprire la protagonista. Anche se in realtà in questo libro non c’è nulla di scontato. Intanto perché è tutto fatto di dialoghi e nello stesso tempo racconta una storia, che non è quella della professoressa Pisano, mamma appunto di Francesco Checco Abate ma quella di un’intera comunità attraverso il rapporto tra una madre e il figlio. Perché il giornalista e scrittore sardo prima ci conquista con il sottile e mai banale umorismo di una madre intransigente e dotata di ogni tipo di superpotere, poi ci convince con lo sguardo affettuoso e pieno di stima con cui la rappresenta. MIA MADRE E ALTRE CATASTROFI prende certo il via da una madre che insieme alle innumerevoli doti ha anche quella di un involontario umorismo ma alla fine è più la storia di Checco, da bambino timido a giornalista delle pagine culturali, assediato da grafomani convinti. Francesco Abate ci regala un libro che si legge come un divertissement ma che in realtà è un racconto solido e intelligente. MIA MADRE E ALTRE CATASTROFI è anche un’accurata psicopatologia della madre italiana, un omaggio a una figura troppo spesso data per scontata ma che possiede davvero molti superpoteri. Arrivati alla fine del libro non si può non amare la donna coraggiosa e volitiva a cui è ispirato; e non si può neppure non ammirare la capacità narrativa di Abate che riesce a evitare tutti i rischi in cui si può incorrere con una tale operazione, compresa l’ira della propria madre. Ma non poteva essere diversamente perché Francesco Abate è dotato di talento, empatia e una sana ed inesauribile ironia.

Emiliano Poddi, LE VITTORIE IMPERFETTE, Feltrinelli, 2016
“Suppongo che tutti i bambini coltivino progetti troppo ambiziosi perché si possano tradurre in realtà. Poi, man mano che la loro statura aumenta, si espandono anche la consapevolezza, l’esperienza, la capacità di accontentarsi e di accettare quello che viene (...) crescere significa il più delle volte ridurre le proprie attese, abbassare l’asticella delle aspirazioni, concepire sogni sempre più modesti e intanto lasciarsi alle spalle quelli che non si sono realizzati. (...) Fingiamo con noi stessi di non aver mai alimentato desideri grandiosi, cerchiamo di dimenticarli oppure, se ce ne ricordiamo, li trattiamo con sufficienza, volevo vincere una medaglia d’oro, pensa che scemo, ero sicuro che sarei andato alle Olimpiadi...”. Il nuovo romanzo di Emiliano Poddi sembra un’apologia dei giochi olimpici. Di chi, la maggior parte, ha sognato di andarci ma non ci ha mai messo piede neppure come spettatore; di chi ci è arrivato vicino e ancora lo rimpiange; di chi ce l’ha fatta, ma poi non ha vinto nessuna medaglia e di chi, pochissimi, quella medaglia se lo sono sentita mettere al collo. Come già in TRE VOLTE INVANO lo sport al centro del racconto è il basket ma paradossalmente è l’elemento meno determinante. Perché LE VITTORIE IMPERFETTE prende il via sì dalla storica finale USA-URSS della drammatica Olimpiade di Monaco 1972 ma quello che Poddi in realtà racconta è la vita fuori dal campo dei suoi personaggi. Conosciamo così i due numeri 14 delle due squadre, Sasa Belov e Kevin Joyce, decisivi in quella partita, ma anche un ragazzo brindisino che comincia a giocare a basket già nella pancia della sua mamma. Man mano che procediamo nella lettura, grazie alla scrittura scorrevole, elegante e cerimoniosa insieme, ci sentiamo anche noi degli atleti, che, in qualche modo, il romanzo se lo devono guadagnare. E così riusciamo a districarci con scioltezza tra i tanti personaggi, a saltare senza indugio gli scarti temporali, a inseguire ma anche distinguere i canestri e le medaglie. Diventiamo sempre più bravi a non confondere luoghi e nazionalità, anche se alla fine sogni, speranze e delusioni accomunano tutti e tre i protagonisti. Ritratti con affetto e malinconia come in un quadro di Hopper.

Aidan Chambers, OMBRE SULLA SABBIA, Rizzoli, 2016 (traduzione di Beatrice Masini)
“Nelle mie visite in Italia ho scoperto che i lettori italiani hanno qualcosa di diverso. O almeno quelli che ho incontrato, quelli a cui piacciono i miei libri. E’ difficile spiegare con precisione che cosa. Ma c’entra con il loro appassionato entusiasmo, la loro smisurata apertura, il loro interesse per come una storia viene raccontata, pari a quello per l’argomento della storia. Domande e commenti sono inflessibili e indagatori. La cosa che mi fa più piacere è che sono interessati alle idee e agli aspetti spirituali della vita, a quello che definirei l’anima. L’energia della loro accoglienza e la loro intelligenza vivace sono tonificanti. Dopo averli incontrati mi sento più vivo”. Ogni volta che esce un libro di Aidan Chambers ritorno adolescente. Non solo per i protagonisti dei suoi libri ma soprattutto perché adoro Chambers come solo nell’adolescenza ci si può innamorare di un proprio idolo. E devo sempre ringraziare Rizzoli che non ha mai smesso di tradurlo e farlo conoscere ai giovani lettori italiani. Ai quali ora propone, nella bella traduzione di Beatrice Masini, che ha il merito di averlo portato in Italia, il primo libro che Chambers pubblicò, OMBRE SULLA SABBIA, con una nota finale dell’autore che ne raccoglie la poetica e che tutti dovremmo leggere e far leggere. Chambers parla, infatti, dell’ispirazione, ma soprattutto del fatto che i ragazzi vogliono leggere romanzi che parlano di persone come loro, della loro vita e del loro mondo. In questa letteratura giovanile, di cui Chambers è un indiscusso maestro, la vicenda è vista e raccontata attraverso lo sguardo e il linguaggio dei giovani. “Non scrivo per i giovani, né su di loro, ma di loro”, dice spesso lo scrittore inglese. E basta leggere i suoi libri per rendersene conto, anche se non abbiamo più sedici anni. Come succede appunto in OMBRE SULLA SABBIA, dove nella piccola comunità d Marle, un lembo di terra vicino a Newcastle che a seconda delle maree diventa isola, Kevin e Susan sono gli unici ragazzi di diciassette anni. Kevin lavora con il nonno in un piccolo cantiere navale, e Susan e le barche sono tutto il suo mondo. Ma per Susan invece gli orizzonti di Marle sono troppo ristretti e così decide di andare nella grande città. Kevin si trova di fronte a un bivio: seguire la ragazza di cui si rende conto di essere innamorato o rimanere a Marle, accanto all’amato nonno e sempre in lite con il padre autoritario e umorale. Quello che Chambers riesce sempre a rappresentare con grande onestà e coinvolgimento sono proprio le decisioni e le svolte necessarie per crescere. E lo fa grazie alla letteratura, raccontando i suoi personaggi a tutto tondo, mostrandone i pensieri senza falsi paternalismi e una leggerezza che fa risaltare la vita vera: “Faccio arte, non sono un dispensatore di insegnamenti o lezioni di vita, e non uso la storia per discutere di tematiche sociali, politiche o morali... Non voglio che le mie storie dicano alla gente cosa deve pensare ma piuttosto, se possibile, che ispirino la formazione di pensieri originali”.

Jung-myung Lee, LA GUARDIA, IL POETA E L’INVESTIGATORE, Sellerio, 2016 (traduzione di Benedetta Merlini)
“La poesia riflette la nostra anima... è come gettare un secchio in un pozzo profondo e scuro e poi tirarlo su colmo di verità. La poesia rassicura le nostre vite, ci aiuta e ci salva”. Come dice il titolo, LA GUARDIA, IL POETA E L’INVESTIGATORE, c’è effettivamente un omicidio nel romanzo dello scrittore coreano Jung-myung Lee, ma già dalle prime pagine capiamo di non essere di fronte a un giallo e alla fine non ci importa scoprire chi ha ucciso la sanguinaria guardia Sugiyama. Del resto Sellerio ci ha abituati a scelte di grande qualità e mai banali e LA GUARDIA, IL POETA E L’INVESTIGATORE è sicuramente una di queste. Il romanzo di Jung-myung Lee è prima di tutto un inno alla poesia e alla letteratura. Ambientato in un luogo dove le parole vengono censurate e distrutte. Siamo nella prigione di Fukuoka in Giappone nel 1944 e oltre ai detenuti comuni ci sono molti oppositori politici coreani. La Corea infatti è sotto il dominio nipponico. Ai detenuti coreani viene imposto un nome giapponese e non possono parlare e scrivere nella loro lingua. Vengono requisiti e bruciati tutti i testi in coreano ma anche quelli in giapponese ritenuti sovversivi. La violenza, gratuita e immotivata, è all’ordine del giorno come le privazioni, le torture, le malattie, la morte. Un giorno viene trovata assassinata la guardia carceraria forse più sanguinaria, addetta anche alla censura. Seguendo le tracce del suo lavoro una giovane guardia incaricata delle indagini conosce un detenuto particolare, un famoso poeta coreano, autore di scritti sovversivi. Tutto il romanzo gioca quindi intorno al termine centrale del titolo, il poeta:
Nello specchio di rame chiazzato di ruggine
resta impresso il mio volto coperto di vergogna
traccia di quale dinastia?

Ogni singola parola aveva fatto breccia nel suo cuore. Dong-ju gli si parò davanti nella sua magrezza scheletrica. Sugiyama alzò lo sguardo, ripiegò con cura il foglio di carta e se lo rimise in tasca. «Come fai ad avere quella poesia?» chiese Dong-ju. Sugiyama non sapeva cosa rispondere. Era stato lui ad aver dato alle fiamme le poesie di Dong–ju e non poteva certo dirgli che quella poesia aveva guarito il suo cuore malconcio. Non poteva certo confidargli che ogni volta che la leggeva, era come se finalmente avesse trovato quel che cercava disperatamente da tempo”.
Il romanzo di Jung-myung Lee è un’analisi lucida e spietata del rapporto vittima-carnefice. Dove le parole sono lo scudo per mantenere la propria identità. E i primi a riconoscere la forza del linguaggio sono i carcerieri. Che però rischiano di subirne anche loro il potere magico. Così l’arte, che sembra bandita da quel luogo ai limiti dell’umano, in realtà resiste grazie alla musica di un pianoforte, al volo di un aquilone, ai versi di una poesia, ai sentimenti espressi attraverso una cartolina. E il romanzo, ambientato nella prigione dove i detenuti più pericolosi e disprezzati sono gli “inutili” intellettuali e dove si cerca di annullare la loro identità proibendo le parole della poesia e della letteratura, è in realtà un libro pieno di libri e di lettori. Non stupisce che LA GUARDIA, IL POETA E L’INVESTIGATORE abbia venduto oltre un milione di copie e sia stato tradotto in numerosi paesi. Gli auguriamo di avere lo stesso successo in Italia perché è il libro che ogni lettore dovrebbe leggere.

Beatrice Masini, I NOMI CHE DIAMO ALLE COSE, Bompiani, 2016
Ci si trova immediatamente a casa nel nuovo romanzo di Beatrice Masini, I NOMI CHE DIAMO ALLE COSE, pubblicato da Bompiani. Intanto perché è proprio una casa al centro delle vicende narrate, ma soprattutto per il linguaggio coinvolgente e diretto, confidenziale ed ironico. Leggendo si ha la sensazione quasi fisica di trovarsi nella casa cantoniera o meglio di portineria che Anna riceve in eredità da una famosa scrittrice per bambini. Il lascito le sembra un segno del destino per lasciare la caotica Milano, ma soprattutto una relazione senza via d’uscita per le tranquille e affascinanti rive del lago di Garda. In realtà non sarà la tranquillità quella che troverà Anna a partire dai fantasmi che pare abitino la vecchia casa, ma una nuova consapevolezza di sé sicuramente sì. Anche grazie ai tanti incontri che contraddistinguono il romanzo: Tiziano, il fedele e provvidenziale direttore dei lavori di restauro, ma anche un amico discreto e comprensivo; un affascinante vicino di casa, dai tratti mediorientali; due bambine figlie di una coppia di contadini alternativi, Gregorio, il figlio di Irene Bandini, prima ostile per l’eredità sfumata poi sempre più accessibile e fonte di notizie sulla famosa madre; Umile, la fedele segretaria della scrittrice con la quale condivide un segreto e non solo. Tra i personaggi è giusto non dimenticare il lago, con i colori mutevoli, il clima mite, ma anche la crisi economica e i cambiamenti sociali che causa. Per chi ama e conosce i luoghi sarà una piacevole rimpatriata, per chi non li ha visti un invito per andare a visitarli, seguendo anche le storie del libro. Già dal titolo poi si capisce che Beatrice Masini gioca e ama giocare con le parole. Con quelle delle fiabe ritrovate in una scatola di latta; con quelle rare di Tiziano sino al lavoro di Anna, che scrive le storie degli altri. Con un rosario di voci e storie che si intrecciano, si intersecano, a volte quasi si scontrano e che sfidano il lettore a tirare le fila, pian piano, per non perdere neanche una parola.

Roger Rosenblatt, UNA NUOVA VITA, Nutrimenti, 2016 (traduzione di Nicola Manuppelli)
“I morti hanno occupato gran parte del mio tempo in quest’ultimo anno: libri e poesie sui morti, conversazioni con altre famiglie riguardo ai loro morti. Vedo la morte anche nelle frasi e nei testi più innocenti. Al momento sembra una cosa casuale ma so che non lo è. Dovrei cercare di tenermi lontano dall’argomento... Ginny e Harris potranno anche avere la sensazione che la vita li abbia in qualche modo preparati allo stato attuale delle cose. Io no. Dubito che la vita mi abbia mai preparato a qualsiasi situazione, perché fino a quando Amy è morta ho sempre creduto che le cose positive semplicemente accadessero. Fatta eccezione per un paio di delusioni, probabilmente meno di quanto avrei meritato, ho avuto una vita fortunata. Sto imparando solo adesso quello che la maggior parte delle persone apprende in età molto più giovane: che la vita richiede capacità di sopportazione e che le ricompense bisogna guadagnarsele”. UNA NUOVA VITA, il memoir di Roger Rosenblatt non può non richiamare alla memoria L’ANNO DEL PENSERIO MAGICO di Joan Didion, ma soprattutto L’ONDA di Sonali Deraniyagala, di cui vi ho già parlato. E molti scrittori l’hanno letto e amato tra cui E.L. Doctorow (“Un memoir splendido e sofferto, che parla di nonni che si reinventano genitori, di morti che sono innaturali, di un tempo che scorre all'indietro. Scritto con una tale compostezza da essere tanto straziante quanto istruttivo”) e Richard Ford (“Rosenblatt ci insegna la pazienza, l'amore, la passione per il quotidiano e la capacità di comprendere come, anche di fronte a una perdita lacerante, non tutto è perduto. Una lezione impartita con fierezza e, allo stesso tempo, con immensa umiltà”). Non si può non essere d’accordo perché in uno scarno volume di poco più di cento pagine Roger Rosenblatt riesce a tratteggiare tantissime storie di vita che riguardano ognuno di noi. A partire dalla morte della figlia Amy, colpita da un infarto a soli trentotto anni. Scossi dal dramma ma decisi a intervenire, Rosenblatt e la moglie lasciano la loro casa di Long Island e si trasferiscono dal genero, nel Maryland, per aiutarlo a occuparsi dei tre bambini, Jessica e Sammy, di sei e quattro anni, e il piccolo James, di quattordici mesi. UNA NUOVA VITA racconta l’anno dopo la morte di Amy, con la convivenza dei nonni con i nipoti, una quotidianità da ricostruire, il desiderio di mantenere sempre viva la memoria di Amy, il tentativo di ritrovare una nuova serenità. Durante la narrazione si alternano le storie di Amy e dei suoi fratelli da piccoli, i gesti quotidiani di Rosenblatt e della moglie Ginny con i nipoti, le reazioni alla morte di Amy, le riflessioni dello scrittore sul suo lavoro e su come sia cambiato dopo la morte della figlia; le considerazioni sul futuro e sulla morte che prima lo avevano toccato solo di striscio. Con un linguaggio insieme cronachistico e sentimentale Rosenblatt riesce a raccontare il dolore, il senso di smarrimento di fronte alla morte di una giovane figlia, moglie e madre, la ferita indelebile che rimarrà per sempre nei cuori dei suoi cari, ma anche la speranza, il fuoco vitale dell’esistenza, la capacità, soprattutto dei bambini di trovare il vero senso della vita nei piccoli gesti della quotidianità. Perché “per quanto ne so, questo significa vivere, dare il giusto valore al tempo che passa”.

Fabio Stassi, IL LIBRO DEI PERSONAGGI LETTERARI. DAL DOPOGUERRA AD OGGI: DA LOLITA A MONTALBANO, DA GABRIELLA HARRY POTTER, Minimum fax, 2015
“Questo libro può essere tante cose: un orario ferroviario, una via lattea, una geografia del sangue, una mappa di arcipelaghi e di costellazioni, un album di scatti fotografici, un quaderno intimo, una raccolta di racconti, una dichiarazione d’amore... Per me è la più vera carta d’identità che possiedo. Perché siamo fatti dei libri che abbiamo letto quanto delle persone che abbiamo incontrato”: ci introduce così nel suo viaggio tra i romanzi Fabio Stassi che, dopo HOLDEN, LOLITA, ZIVAGO E GLI ALTRI. PICCOLA ENCICLOPEDIA DEI PERSONAGGI LETTERARI (1946-1999), riprende il suo catalogo di amici di carta per condividere con noi i suoi incontri. IL LIBRO DEI PERSONAGGI LETTERARI. DAL DOPOGUERRA AD OGGI, sempre pubblicato da Minimum fax, è un vero regalo per i lettori, più o meno forti. Forse lo stesso Fabio Stassi non è consapevole del valore del libro che apre le porte a centinaia di letture ma anche a un serie di percorsi, spunti, rimandi pressoché infiniti. Si può aprirlo a caso e scoprire a quale libro appartiene il personaggio raccontato; si possono cercare i protagonisti nati sulla carta nel nostro stesso anno. Si può vedere cosa scrive Stassi di libri che abbiamo letto e amato o invece cercare quelli che non conosciamo. In mezzo ai personaggi fittizi il libro di Stassi è anche il magnifico ritratto di un lettore e anzi di tutti i lettori: “Leggere, in fondo, è uno degli atti più privati e solitari che possiamo fare, e dichiarare il modo in cui si legge equivale a mettersi a nudo. Il mio è infantile e adolescenziale: finisco sempre per indossare i panni di un altro e immedesimarmi con lui fino a sovrapporre la mia voce alla sua e non riuscire più a distinguerla. Un ritratto, a saperlo interpretare, ci rivela chi lo ha dipinto assai più di chi raffigura”.

Igort, QUADERNI GIAPPONESI, Coconino press, 2015
“Kurihara Sa, il gran capo della settima divisione editoriale della Kodanska, mi disse un giorno che il Giappone era come uno scrigno e che chi voleva avvicinarsi doveva avere le chiavi di quello scrigno, per poter godere dei tesori custoditi al suo interno. Io mi ci sono avvicinato da oltre vent’anni e lo frequento assiduamente questo luogo dell’anima. Eppure il suo mistero si rinnova continuamente”. Dopo i QUADERNI RUSSI, i QUADERNI UCRAINI e le PAGINE NOMADI Igort ci regala un altro viaggio a Oriente, forse ancora più personale. QUADERNI GIAPPONESI infatti è una autofiction per immagini, un viaggio in Giappone, nella sua millenaria cultura, nella sua storia attraverso i Manga e gli Anime, la fabbrica di sogni a fumetti e cartoons più grande del mondo. Con occhio appassionato ma realistico l’artista italiano ci racconta un paese e le sue contraddizioni, attraverso lo stile di vita e la quotidianità dei giapponesi. Mostrandoci le case, le strade, i quartieri, gli alberi, i personaggi più significativi, soprattutto nell’ambito dell’arte del fumetto e le persone comuni. E soprattutto componendo per gli amanti dei fumetti ma anche per i neofiti un ritratto sentito della cultura giapponese attraverso le arti visive. QUADERNI GIAPPONESI ti riempie gli occhi di immagini, storie, suoni, profumi da cui non riesci più a uscire.

Julia Glass, L’OSCURA SACRALITÀ DELLA NOTTE, Nutrimenti, 2015 (traduzione di Dora Di Marco)
Ted Thompson, LA SECONDA VITA DI ANDERS HILL, Bollati Boringhieri, 2016 (traduzione di Maya Guidieri Berner)

Comincio a leggere LA SECONDA VITA DI ANDERS HILL e ho la sensazione di avere appena letto un libro che in qualche modo me lo ricorda e racconta sempre di un uomo in crisi. E’ proprio così. Ma mentre il titolo del romanzo d’esordio di Ted Thompson annuncia immediatamente il cuore della storia, L’OSCURA SACRALITÀ DELLA NOTTE, il poetico titolo del nuovo romanzo di Julia Glass non rivela niente del contenuto del libro. Anche qui ci troviamo a leggere di un uomo arrivato a un bivio della sua esistenza, che per cercare una nuova ragione di vita decide di intraprendere un viaggio per fare luce sul suo passato. Kit Noonan, professore di storia dell’arte rimasto senza lavoro ma anche senza nessuno stimolo per trovare una nuova occupazione, si dedica pigramente alle faccende domestiche e ai suoi figli, fino a quando la moglie Sandra non gli intima di usare questo vuoto lavorativo per cercare il padre biologico che non ha mai conosciuto. Cresciuto da una madre single, una talentuosa violinista che non ha mai voluto rivelargli il nome del suo vero padre, Kit decide di cominciare a indagare andando a trovare l’uomo che l’ha cresciuto e che poi ha perso di vista dopo che la madre lo ha lasciato. Sulle montagne del Vermont Kit ritrova i vecchi amici e riesce finalmente a scoprire chi è suo padre e perché la madre glielo ha sempre nascosto. Come già in TRE VOLTE GIUGNO, con cui ha vinto il National Book Award nel 2002, Julia Glass si prende tutto il tempo per raccontarci la sua storia e anche noi dobbiamo adeguarci al suo ritmo senza essere impazienti di arrivare alla fine. La sensazione è un po’ quella di viaggiare tra le montagne innevate e gli immensi boschi del Vermont che fanno da sfondo al romanzo. Quello che interessa alla scrittrice americana è offrirci un ampio panorama dell’animo dei suoi personaggi, una mappa dettagliata delle relazioni familiari, un necessario viaggio nel passato per poter affrontare il presente. Il ritorno agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza diventa per Kit l’occasione per ripensare il suo presente, per guardare in prospettiva al suo matrimonio, per mettere a fuoco cosa significa essere un padre per chi un padre non l’ha avuto. Cambiamo invece totalmente ritmo con LA SECONDA VITA DI ANDERS HILL, il fortunato romanzo d’esordio di Ted Thompson: qui infatti sin dalla prima pagina vogliamo sapere cosa ne sarà delle scelte di Anders che alle soglie dei sessant’anni, consulente finanziario di successo, membro di prestigio della sua ricca comunità, proprietario di una bella casa in un quartiere residenziale di lusso, sposato e padre di due figli, lascia l’affascinante moglie e il lavoro. Anche se il lettore è chiaramente proiettato nel futuro, Thompson costringe il suo personaggio a guardarsi indietro per poter davvero andare avanti. Cosa ne è stato di quel ragazzo vivace e appassionato, di quell’amore così desiderato e conquistato contro il parere di tutti, della voglia di cambiare il mondo? “Era questo il senso della vita adulta, giusto? Costruire un mondo leggermente migliore rispetto a quello in cui si è nati”, si chiede a un certo punto Anders. Ma allora perché guardando alla sua famiglia e al suo lavoro sente di avere perso e tradito il vero se stesso? Con uno stile scorrevole e senza rinunciare alla leggerezza dell’ironia e a una comicità spesso amara, Thompson mette in scena le crepe e le idiosincrasie del sogno americano e scoperchia il finto perbenismo delle ville di lusso, involucro della famiglia perfetta. Che non esiste in generale, ma ancora meno qui.

Marino Buzzi, L’ULTIMA VOLTA CHE HO AVUTO SEDICI ANNI, Baldini & Castoldi, 2015
Come tutti i lettori credo, ma questo non mi giustifica, riconosco di avere i miei pregiudizi e le mie idiosincrasie. Tra cui la convinzione che gli autori italiani solo in rari casi sappiano raccontare gli adolescenti. Questo volta Marino Buzzi, che ha molti amici e sponsor che mi hanno mandato segnalazioni non troppo velate in più occasioni, mi ha fatto cambiare idea. E riconosco al suo libro una grande sensibilità e onestà intellettuale. “Mi chiamo Giovanni, ho quasi diciassette anni, porto occhiali con lenti spesse e ho superato da poco i centoventi chili. Mi chiamano ciccione, maiale, lurido porco, malato, merendina, grassone, cicciobomba, panzone, trippone, barile, latrina, lardoso e in un milione di altri modi anche se il soprannome che usano più spesso è palla di lardo... So di non essere un tipo particolarmente sveglio e so anche che il mio aspetto non ispira simpatia. E’ tutta la vita che me lo dicono. Che sono uno lento, che non afferro le cose al volo, che non capisco quando è il momento d girare al largo. Quel giorno, il giorno che ho deciso di andarmene, non avevo capito che dovevo stare lontano. Che aprendo una porta la mia vita sarebbe cambiata per sempre”: L’ULTIMA VOLTA CHE HO AVUTO SEDICI ANNI di Marino Buzzi racconta una storia di bullismo, è vero, ma anche molto di più. Colpisce nel romanzo del bravo libraio nato a Comacchio, la capacità di mettere in scena le dinamiche adolescenziali e non solo, con estremo rispetto per i suoi personaggi e il lettore. Il racconto riesce a rappresentare la complessità dei rapporti senza indulgere a facile sentimentalismo o a uno sguardo giudicante e inquisitorio. E mentre alcuni espedienti narrativi potrebbero non convincere del tutto, come l’uso della prima persona, sulla scrittura invece si apprezza il grande lavoro di Buzzi per cercare sempre la parola giusta e necessaria per quello che racconta. Adulti e ragazzi hanno una loro precisa connotazione ma non sono mai figure stereotipate, ma descritte nel loro divenire in relazione agli incontri che fanno e a quello che gli accade intorno. Sicuramente un buon libro adatto a lettori adolescenti e adulti che potrebbero anche leggerlo insieme.

Marilynne Robinson, LILA, Einaudi, 2015 (traduzione di Eva Kampmann)
“Preghiamo. E tutti pregavano. Uniamoci nel canto dell’inno numero quello che vi pare, e tutti cantavano. Perché sprecavano le candele con la luce del giorno? Lui là in piedi che parlava di persone morte da chissà quanto tempo, ammesso che le storie sul loro conto fossero vere, e quasi tutti ascoltavano, o si sforzavano di farlo. Era completamente inutile. I giorni andavano e venivano da soli, senza l’aiuto delle preghiere. Eppure, dappertutto, raduni e riunioni di risveglio, gente che vedeva la luce. Trovava conforto dove conforto non c’era, solo un vecchio che diceva qualcosa che aveva ripetuto tante di quelle volte che probabilmente manco si sentiva più. A proposito del significato dell’esistenza, diceva. Bene. Lei sapeva una cosetta o due sull’esistenza. Era praticamente l’unica questione su cui era informata, e aveva appreso da lui la parola per indicarla... La sera e la mattina, il sonno e la veglia. La fame e la solitudine e la stanchezza e nonostante tutto volerne ancora. L’esistenza...”. E’ difficile scrivere dei romanzi di Marilynne Ronbinson e la cosa migliore è farne intanto sentire la scrittura lieve e densa che dà voce ai suoi personaggi fisici e spirituali insieme. LILA, appena tradotto da Eva Kampmann per Einaudi, è il terzo romanzo ambientato a Gilead. Chi ha letto i due precedenti, GILEAD e CASA conosce i luoghi e i personaggi della scrittrice americana, che in ventotto anni ha scritto quattro romanzi e due saggi, aggiudicandosi tutti i maggiori premi letterari, compreso il Pulitzer nel 2005. Gilead è una piccola cittadina di provincia dello Iowa, il palcoscenico dove la Robinson fa vivere i suoi personaggi. Siamo alle soglie degli anni Cinquanta e Lila vi arriva scappando dalla città, da St.Louis. L’unica cosa che le è cara è un coltello che le ha lasciato Doll, la donna che l’ha allevata e salvata. Lila infatti non possiede neppure il suo nome, non sa chi sono i suoi genitori, ricorda solo che Doll, il viso sfregiato e un grande scialle, l’ha portata via da una casa dove viveva nascosta sotto il tavolo. Doll l’ha nutrita, accudita, abbracciata, protetta e anche se hanno vissuto a lungo per strada, non le ha fatto mai mancare niente. Quando Doll scompare Lila cerca di sopravvivere, “Ma quando rimane un’unica ragione a tenerci in vita, quell’unica ragione a volte è la cattiveria. Ci fa sentire che ci siamo, che stiamo facendo qualcosa”. Lila non smette mai di lavorare duramente e pensare. E quando a Gilead incontro John Ames, il vecchio pastore del paese, lo fa il destinatario delle sue domande. Da una parte una donna ferita, una bambina abbandonata; dall’altra un uomo di Chiesa, considerato un santo, che ascolta e accoglie le sofferenze degli altri. E che riesce a rompere la solitudine di Lila, mentre lei riesce a mostrargli un'altra tristezza, che solo l’amore può attenuare: “Ci sono le cose di cui la gente ha bisogno e le cose di cui non ha bisogno. Ma forse non è vero. Magari non ha bisogno dell’esistenza. Levando quella, tutto il resto seguirebbe a ruota. Quindi, se non hai bisogno di esistere, allora non c’è motivo di pensare alle altre cose di cui non hai bisogno, perché a quel punto non hanno importanza. Non hai bisogno di qualcuno che stia al tuo fianco. Non ne hai bisogno, però invece sì. Togli tutti i piaceri... solo che non sarebbe possibile perché puoi trovare piacere anche in un sorso d’acqua. In un pensiero”. La magia di Marilynne Robinson è nella capacità di raccontare i grandi misteri della vita attraverso i suoi personaggi umili, una piccola comunità in mezzo ai campi di granoturco dove parole come vita e morte, maternità e religione, giustizia e paura prendono senso.

Gazmend Kapllani, BREVE DIARIO DI FRONTIERA, Del Vecchio, 2015 (traduzione di Maurizio De Rosa)
“Già da qualche tempo mi sento afflitto dalla sindrome delle frontiere. Si tratta di una malattia le cui caratteristiche davvero non saprei spiegarvi. Del resto essa non è neppure compresa nel catalogo ufficiale dei disturbi psicologici, a differenza, per esempio, dell’agorafobia, dell’acrofobia o della depressione. Però potrei cercare a grandi linee di descrivervene alcuni sintomi. Ma non adesso. Per il momento vi basti sapere che non sono soltanto io a essere affetto dalla sindrome delle frontiere. Coloro che non hanno mai provato la smania di varcarne una o che non se ne sono mai sentiti respinti faranno fatica a capire di che cosa sto parlando. Il mio difficile rapporto con le frontiere, con i confini, è cominciato piuttosto presto, già da quando ero un bambino. Infatti essere o meno affetto da questa sindrome è in gran parte anche una questione di fortuna: dipende da dove si nasce. Io sono nato in Albania”. BREVE DIARIO DI FRONTIERA di Gazmend Kapllani è uno di quei libri che non smetteresti mai di leggere e rileggere e che vorresti far leggere a tutti. Perché raccontando la sua storia di migrante in realtà racconta ognuno di noi poiché “indipendentemente dal lato in cui ci troviamo, a questo mondo siamo tutti migranti. Con un permesso di soggiorno temporaneo su questa terra, inguaribilmente di passaggio...”. Kapllani non racconta solo la sua storia di migrante, il passaggio negli anni Novanta della frontiera tra Albania e Grecia, ma in questo “diario minimo” apre tantissime finestre narrative che potrebbero essere altrettanti libri. C’è infatti la situazione dell’Albania sotto il regime comunista; la visone che oltre il blocco le persone avevano del mondo occidentale; l’amara delusione una volta passato il confine perché invece di trovare al di là la salvezza, comincia invece la vera lotta. E poi come i mezzi di comunicazione e soprattutto la televisione raccontano i migranti; la disuguaglianza sociale (“i ricchi teorizzano il razzismo e i poveri lo applicano nella pratica facendo la guerra ad altri poveri, affinché i poveri diventino sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi”). E ancora le seconde generazioni, perché la prima ad emigrare è quella degli sguatteri e dei nostalgici, mentre per i loro figli il paese ospite è l’unico che conoscono e spesso però si sentono cittadini di serie B a causa delle loro origini: “Tu affrontavi la tua nevrosi dicendo: «Un giorno tornerò nel mio Paese». Per tuo figlio invece non ci sono altri Paesi, il suo Paese è questo qui e l’unica alternativa che ha è amarlo o odiarlo. Perché quello che ha da guadagnare o da perdere lo guadagnerà o perderà qui, nel Paese in cui sei stato tu a farlo nascere”. BREVE DIARIO DI FRONTIERA è un’opera letteraria che attinge al vissuto dell’autore, ma riesce a rendere la situazione del migrante con uno stile ironico e affettuoso insieme e uno sguardo lucido e ampio sul mondo in cui viviamo, cercando di evitare che: “... il silenzio trasformi il migrante in un individuo nevrotico e pieno di risentimento. In tal caso il massimo che possa aspettarsi è quello di ottenere comprensione, e che assieme a lui ottengano comprensione anche tutti quelli che non possono, non sanno, non osano o semplicemente non hanno il tempo di raccontare, e preferiscono seppellire le storie nel loro cuore. Perché prima di comprendere un migrante bisogna conoscerne la storia”. Gazmend Kapllani, dopo aver raggiunto la Grecia a piedi insieme ad altri migranti, per sopravvivere vi ha svolto tutti i mestieri: manovale, lavapiatti, edicolante. Ora vive tra l’Europa e gli Stati Uniti, dove insegna Letteratura e Storia europea.

Elvira Seminara, ATLANTE DEGLI ABITI SMESSI, Einaudi, 2015
Vestiti che sapevano troppo. Cosa avevi detto, gridato. Sapevano più cose di te, che le avevi fatte e non sapevi il perché... Vestiti chiassosi, petulanti, che scodinzolano appena fuori e non la smettono di parlare quando vorresti solo ascoltare – gli altri, o il concerto. Che non vedi l’ora di tacitare, restituire all’ombra dell’armadio. O meglio ancora mettere in quarantena... Vestiti instupiditi, inetti, che cadono dalle grucce, scivolano sulle spalle, svuotati da anni di cattività, o solo annoiati dall’entourage. Lavali, scegli un corpo giusto e nuovo, e dalli via con fulgidezza... Vestiti che ti fanno sentire un’estranea, compassati e giudicanti. Quella stoffa rigida come un’armatura, maniche strette, così urticanti persino al tatto. Figurati viverci, da intrusa, una vita intera... Gonne senza ganci, che non sai come posare, sospenderle, senza ferirle e ammaccarle. Mi commuovo quando trovo ancora, in una gonna nuova, gli occhielli di nastro per appenderla all’attaccapanni. Forse è quel gesto di cura, accorto e invisibile, modesto. O il dettaglio davvero irrilevante, in questa corsa di cose gettate e non posate – posate e non piegate. O l’infantile fiducia in un universo armonico e organizzato. Il mondo appeso riscatta il mondo offeso”. Si entra in un armadio senza fine con ATLANTE DEGLI ABITI SMESSI di Elvira Seminara, una vita raccontata attraverso le stoffe, i tagli, i modelli, i colori, le fogge. Una sfilata scomposta di abiti animati, fluttuanti, austeri, timidi, invadenti, che si portano dentro le forme, ma soprattutto i sentimenti di chi li ha indossati. È una biblioteca quella che Elvira Seminara ci racconta attraverso il suo libro, solo che invece che condurci attraverso pagine e scaffali ci accompagna in mezzo a grucce e cassetti. L’ATLANTE DEGLI ABITI SMESSI non è un mero elenco, ma fa dell’elenco lo strumento narrativo e affettivo per raccontarci la storia prima di una donna e poi della sua famiglia e del rapporto, interrotto, con la figlia. Eleonora, infatti, dopo la scomparsa dell’ex marito, che in parte la figlia le imputa, si rifugia a Parigi da dove scrive a Corinne per ricucire il loro legame, compilando giorno dopo giorno un campionario intenso e giocoso degli abiti che le ha lasciato nella casa di Firenze. In qualche modo la scrittrice dà voce a una pratica che consciamente o più spesso inconsciamente accompagna il rapporto madre-figlia, ma anche nonna-nipote. Un passaggio di testimone attraverso gli abiti che diventa anche un modo per rinsaldare i legami e la storia della propria famiglia: “Ti consegno il regno dei miei vestiti. Custodiscili e amali, uno per uno, abbine cura, insegnamento e gioia senza distinzione di età e di pregio, mi raccomando”. Non sono solo gli abiti in sé i protagonisti del libro, ma anche l’arte di confezionarli e i corpi che li hanno indossati. Come un’abile e appassionata sarta l’autrice taglia, cuce, confeziona trame e storie, osservando e raccontando quello che indossiamo. Che non è mai casuale ma, volenti o nolenti, rappresenta noi e la nostra storia. Così Elvira Seminara appoggia il suo occhio di tessitrice e narratrice sulle persone che incontra, sulle strade che attraversa, sulle case che abita. Senza mai cadere nel sentimentalismo ma dando voce vera ai sentimenti. Anche grazie alla forma di un cappotto o alla stoffa di un abito. Senza rinunciare a una leggerezza calviniamente intesa, a una sottile e affettuosa ironia e a una giocosità consapevole e contagiosa.

John Green, Maureen Johnson, Lauren Myracle, LET IL SNOW. INNAMORARSI SOTTO LA NEVE, Rizzoli, 2015 (traduzione di Francesco Gulizia)
Per quelli della mia età il titolo rimanda agli anni Cinquanta e alle cover di Sinatra e Dean Martin. In realtà tutta l’atmosfera del libro ricorda quegli anni e sembra quasi di ritornare a Happy Days. Per i ragazzi di oggi è il nome di John Green sulla copertina che fa da esca e i lettori di COLPA DELLE STELLE e CERCANDO ALASKA non rimarranno delusi. LET IL SNOW infatti mantiene quello che promette: tre belle storie d’amore, ambientate in un Natale innevato. Tanti sentimenti ma senza sentimentalismo, sorrisi ma anche pensieri, storie credibili e ben costruite. Cosa chiedere di più a una rilassante lettura natalizia? A voler essere pignoli il racconto orchestrato da Green è superiore agli altri due, che però si mantengono a un buon livello. E allora adolescenti di oggi e di ieri cosa aspettate a immergervi nella neve di Gracetown e conoscere Jubilee, Jeb, Tobin, Il Duca e un chiassoso gruppo di cheerleader??!!

Frances Greenslade, IL NOSTRO RIPARO, Keller, 2015 (traduzione di Elvira Grassi)
«Il nostro riparo mostra come la natura selvaggia possa essere un posto più sicuro di una casa con quattro mura, ma anche come l’amore, nonostante la sua dolorosa imprevedibilità, rimanga il riparo che desideriamo di più.» Così la scrittrice canadese Jamie Zeppa sintetizza il romanzo di Frances Greenslade, IL NOSTRO RIPARO, pubblicato in Italia dal sempre ottimo editore Keller. Il romanzo potrebbe all’inizio chiamarsi “ritratto di famiglia felice nella natura”, perché quello che colpisce da subito è l’ambientazione naturale, i boschi incontaminati, gli animali, le infinite macchie verde, i mirtilli e i lamponi, la luce, il calore del sole e la limpidezza dell’acqua. In questo paradiso nella British Columbia, in una solida casa di tronchi vive Maggie, nove anni e un carico di ansia sopra il livello di guardia: «Deve esserci stato un tempo in cui mi svegliavo col cuore leggero, canticchiando una serie di note felici mentre un coleottero zampettava sulla zanzariera della finestra proiettando una minuscola ombra sulla parete. Ma non me lo ricordo. Non ricordo un tempo in cui non guardassi al mondo senza sentirmi divorata dall’angoscia». Eppure non c’è nulla che può preoccuparla: i suoi genitori si amano; Jenny, la sua sorella maggiore, è una ragazzina solare e positiva, amata da tutti. Eppure Maggie vive nella paura che qualcosa di brutto prima o poi possa accadere alla sua famiglia, anche quando con il padre costruisce rifugi nel bosco o quando ascolta le risate della madre. Poi un giorno, poco dopo aver compiuto dieci anni, le sue paure più cupe si trasformano in realtà: il padre muore in un incidente sul lavoro nei boschi e qualche mese dopo la madre lascia lei e sua sorella a casa di conoscenti promettendo loro che tornerà. Ma i giorni diventano settimane, le settimane mesi e i mesi anni: «Jenny diceva: “Dovremmo cercarla”. E io “E’ lei la madre”. E quando lo dicevo ignoravo il peso che quelle parole avrebbero avuto sulle nostre vite. Possedevano il suono della verità, piene e inscalfibili. Ma sono diventata un’ancora che ci ha trascinate lontano dai nostri impulsi più sinceri». Sarà la sola Maggie che a un certo punto si metterà sulle tracce di Irene, che non dà più notizie ormai da tre anni. Al di là della vicenda, colpisce del romanzo della scrittrice canadese la capacità di raccontare dal loro intimo due ragazzine così diverse, ma uguali nel cercare la loro felicità. Che non può prescindere dalla famiglia e anche dal luogo dove sono nate e cresciute. Più la scena del romanzo si sposta dai boschi più la vicenda si fa drammatica. Anche se paradossalmente tutto inizia con la morte del padre in un incidente di lavoro, mentre taglia gli alberi per una falegnameria. La morte dell’uomo fa saltare gli equilibri familiari e la madre, le due figlie, l’adorata gattina di Maggie si ritrovano lontane. Grazie a una prosa brillante ed elegante Frances Greenslade illumina i legami sentimentali, in particolare quelli al femminile. Ci sono infatti tante donne nella storia e ognuna di loro si porta appresso il suo passato e le sue sofferenze. Ma solo Maggie e Jenny sembrano nutrire una fiducia illimitata nel ritorno della madre e solo lo “zio” Leslie, bellissimo personaggio maschile del libro, le appoggia nella ricerca. Commovente e lieve allo stesso tempo, IL NOSTRO RIPARO trova un perfetto equilibrio tra uno stile curato e preciso e una materia calda e sentita. Quando finisce la lettura ci si sente orfani della famiglia Dillon, ma anche dell’incontaminata natura canadese e di tutti i personaggi che si incontrano nel romanzo. Ognuno di loro, dalla barbona Chiwid allo zio Leslie, meriterebbero una storia tutta loro.

Michela Murgia, CHIRÙ, Einaudi, 2015
Michela Murgia torna con CHIRÙ al romanzo sei anni dopo ACCABADORA, uno dei romanzi contemporanei più letti e amati, e il lettore ha insieme la sensazione di ritrovare una vecchia amica ma anche di incontrarne paradossalmente una del tutto nuova. Per forza di cose la scrittrice di oggi non è quella di sei anni fa e come racconta in molte interviste sono stati anche anni molto pieni: di altri libri, di una campagna elettorale, di una malattia, di una nuova casa, di un matrimonio e di tanti incontri. Anche il lettore chiaramente non è più lo stesso, ma è rimasto pazientemente in attesa di una nuova prova narrativa. Che conforta e destabilizza insieme. Cominciamo con il conforto rappresentato dalla scrittura densa, precisa, ricca sempre però rispettosa dello spazio da lasciare a chi legge. Che fa di CHIRÙ un libro da leggere e rileggere per apprezzarne appieno la struttura narrativa ma anche alcuni passaggi che in poche parole illustrano una situazione, senza che il tono diventi mai sentenzioso. Altra caratteristica che non manca in CHIRÙ è la capacità ai limiti della crudeltà di scavare nei personaggi e di conseguenza in chi legge. «Tutte le relazioni sono sentimentali» si dice a un certo punto nel racconto e per forza e per fortuna ne siamo convinti e coinvolti. Non manca poi il coraggio di affrontare temi importanti che però non trasformano il romanzo in uno spunto sociologico, politico o sociale ma che fanno dell’opera letteraria un dialogo necessario tra scrittore e lettore, all’interno del quale i problemi sollevati lo sono grazie alla scrittura. E di nuovo cosa troviamo? L’ambientazione in una Sardegna cittadina, in una Cagliari accogliente e solare; uno sguardo lucido sull’essere padre; e il racconto del rapporto tra un’adulta più o meno risolta e un ragazzo che deve ancora trovare la sua strada. La storia gioca sull’incontro tra Chirù, diciotto anni ed Elenora, trentotto, alla quale il ragazzo chiede di essergli maestra di vita. Nel loro rapporto non può mancare un riconoscimento immediato, che è quello di una ferita comune, ma anche la passione per le arti e il palcoscenico; l’ammirazione della professionalità e la scoperta di un talento da coltivare; un legame che non può smarcarsi dalla seduzione. Lo sguardo di Chirù è per forza di cose rivolto al futuro, mentre per Eleonora l’incontro con l’allievo è anche un guardarsi indietro, un riconsiderare la propria infanzia e le scelte passate. Il romanzo ci regala anche le parole per raccontare il rapporto tra i due protagonisti che riguardano il bellissimo personaggio di Fabrizio: «Con la sua voce pacata parlava della fiducia che riponeva in Riccardo, di una stima costruita senza alcun vincolo di sangue e di ruolo, e di cosa gli stava insegnando da quasi un anno. Mi raccontò dei loro discorsi, dei libri che gli aveva regalato, di come cercasse di fargli maturare la sicurezza in quel talento naturale che anch’io avevo visto, ma che senza uno sguardo amico si sarebbe perso nei dinieghi della sua famiglia d’origine. Un ragazzo come quello nella vita poteva brillare, mi disse serio, solo se sostenuto con passione. A me invece pareva adesso che a brillare fosse lui. Era bello guardarlo nei gesti lenti, nell’occhiata che di quando in quando lanciava oltre il vetro, al suo allievo». CHIRÙ è un romanzo sul passaggio di testimone tra le generazioni, un grafico letterario che rappresenta i legami sentimentali attraverso i riti e la quotidianità, un coraggioso affresco sui rapporti elettivi, che nascono dalla casualità e si alimentano al di fuori dei ruoli prestabiliti.

David Toscana, LA CITTÀ CHE IL DIAVOLO SI PORTÒ VIA, Gran via, 2015 (traduzione di Stefania Marinoni)
Il romanzo di David Toscana incuriosisce ancora prima della lettura per il nome dell’autore che scopriamo essere messicano, ma di sicure origini italiane, ma residente però in Polonia. Che è poi l’ambientazione di LA CITTÀ CHE IL DIAVOLO SI PORTÒ VIA: «Cantami, oh scrittore, la storia di una città scomparsa; canta le donne che non tornarono, gli uomini che ci lasciarono. Componi i tuoi versi e fai risuonare nelle parole il pianto e il vento, il riso e il tempo e l’amore. Canta di Varsavia, amico mio, la città che il diavolo si portò via. Del coraggio dei nostri uomini che a nulla è servito... Canta quella città chiamata Varsavia perché nessuno se la scordi e canta anche questa nuova, con altra gente, senza sapore, senza valore e senza passato che il bel nome di Varsavia ci ha rubato». Alla fine tutto combacia ma soprattutto il lettore scopre un autore intenso e originale che ci racconta una storia sempre in equilibrio tra il dramma e il grottesco. David Toscana infatti riesce a dare voce a chi ha perso tutto e ancora non vede nessuna prospettiva di ricostruzione. La città, dopo la guerra e la lunga occupazione tedesca, è allo sbando e nessuno sa cosa fare. E’ quasi impossibile avere sogni o progetti, circondati dalla distruzione e dalla morte. Per di più si continua a morire perché la polizia arresta chiunque si oppone al regime ed è pericoloso aggirarsi per le strade. I quattro protagonisti della storia si conoscono perché scampano miracolosamente a una retata. Da lì li seguiamo in un appartamento occupato illegalmente, in un negozio di cianfrusaglie razziate, nelle strade in cui vagano un prete espulso dalla Chiesa e uno scrittore ossessionato dalla possibilità che il suo romanzo venga rubato. Il tutto in un’atmosfera eterea e precaria, praticamente lunare, che David Toscana riesce a rendere ora drammatica ora quasi comica.

Alex Gino, GEORGE, Mondadori, 2015 (traduzione di Matteo Colombo)
«Ma quello di George non era un problema normale. Non aveva paura dei serpenti. Non si era presa un'insufficienza in matematica. George era una femmina e nessuno lo sapeva». George nove anni, ha Kelly come migliore amica, ama gli abiti, i libri, il teatro. E quando la maestra decide di mettere in scena "La tela di Carlotta", George vuole proporsi per la parte del ragno Carlotta. Ma non è possibile perché George è un maschio. O almeno lo è per la maestra, per i suoi compagni, per i suoi genitori. Lui invece, o meglio, lei sa di essere una femmina in un corpo sbagliato e con questa certezza e determinazione cerca chi possa ascoltarla e comprenderla. GEORGE, il bellissimo romanzo di Alex Gino edito da Mondadori, è delicato e potente insieme. Grazie a un equilibrio perfetto tra la trama e la scrittura, l'autore americano non ci racconta la storia di George ma ci fa diventare lei. Ci fa affrontare gli stupidi scherzi e gli attacchi dei bulli, ci fa commuovere con "La tela di Carlotta", ci fa provare a dire alla mamma che più che George ci sentiamo Melissa. Il romanzo di Gino si svolge in un mondo di bambini, in una realtà fatta di incontri, amicizie, compiti, gioie, scoperte e di una cioccolata calda per consolarsi di una giornata triste. Il valore del libro è proprio nello sguardo bambino che Gino riesce a mettere in scena, riproducendo i pensieri, i comportamenti, l'emotività di chi frequenta la scuola elementare, che i bambini subito riconosceranno e gli adulti ripescheranno nella memoria. Per questo GEORGE è un libro importante, tanto che lo stesso traduttore, il bravissimo Matteo Colombo ci racconta nella postfazione le emozioni che ha provato mentre lo traduceva per i bambini italiani.

Yvan Pommaux, Christophe Ylla-Somers e Nicole Pommaux, SIAMO NOI LA STORIA, Babalibri, 2015 (traduzione di Anna Morpurgo)
"Noi non conosciamo la nostra Storia dagli inizi e, non ne conosceremo la fine". Questa la premessa con cui si apre questo straordinario libro scritto e illustrato dalla talentuosa famiglia Pommaux: padre, madre e figlio. SIAMO NOI LA STORIA è un viaggio che ci accompagna alla scoperta del nostro passato e riesce a darci un’idea articolata e d’insieme della storia umana. Grazie alle immagini dettagliate, precise, suggestive sulle quali non ci si stanca mai di soffermarsi e a testi redatti con un linguaggio adeguato alla materia e nello stesso tempo semplice e diretto. Ogni pagina racconta cronologicamente, con mirabile capacità di sintesi, la Storia della nostra Terra e di noi esseri umani a partire da 140.000 anni fa, nel cuore dell'Africa. Qui è iniziata la nostra Storia. Nei secoli gli uomini hanno esplorato, colonizzato, trasformato la Terra. Con l’invenzione della scrittura sono nate le prime vere e proprie civiltà. Scienziati e filosofi hanno preso a interrogarsi sugli eventi della natura e sul senso delle cose. Incredibili scoperte hanno cambiato il mondo. Gli uomini, prima isolati su continenti lontani, hanno finalmente imparato a sentirsi parte di una sola famiglia. Tutto questo lo troverete raccontato in un unico libro grazie al talento di Yvan Pommaux, uno dei più amati illustratori per bambini e ragazzi. SIAMO NOI LA STORIA è un libro da regalare a bambini e ragazzi, da leggere insieme a loro, da tenere a disposizione per sempre nuovo scoperte. Perché, come dice Pommaux, “Oltre ad essere attori della nostra Storia, ne siamo anche gli autori. Noi la scriviamo più o meno bene, e comunque essa avanza. Emergendo dal suo corso, alcuni di noi si sono distinti nell’esercizio del potere, della scienza, delle arti o per scritti famosi. A quanto pare abbiamo bisogno di dirigenti, di riferimenti, di modelli, di eroi”.

Fabio Geda e Marco Magnone, BERLIN, Mondadori, 2015
Un altro romanzo distopico? Un’altra storia senza adulti con i ragazzi chiamati a sopravvivere e governare il mondo? Un'ulteriore saga sull’onda di HUNGER GAMES? Per fortuna sì, ma anche altro. Perché Fabio Geda e Marco Magnone con BERLIN, primo di sette episodi, attingono sicuramente al genere con riferimenti chiari e in qualche modo dichiarati, citando per esempio nel romanzo IL SIGNORE DELLE MOSCHE di William Golding, il vero antesignano dei distopici, ma riescono a regalare ai giovani lettori nuovi punti di vista. Intanto la scrittura è da una parte scorrevole e diretta, ma non manca di profondità e di una grande efficacia stilistica. Non ci sono parole superflue e quelle usate sono sempre precise, mai banali o scontate. Ma veniamo alla storia: siamo a Berlino nel 1978 e da tre anni un misterioso virus uccide tutte le persone al di sopra dei sedici anni. La città è allo sfascio, mancano acqua corrente, cibo, le infrastrutture sono crollate e i sopravvissuti, tutti al di sotto dei sedici anni, devono provare a sopravvivere. Nel tempo si sono formate delle comunità che si sono insediate in luoghi diversi della città: all’aeroporto di Tegel si è piazzata la banda più estrema e violenta che, visto che la vita è breve, decide di sfruttare al meglio la libertà assoluta anche a scapito degli altri. Sull’isola di Havel si è rifugiato un gruppo di ragazze e a Gropiusstadt la comunità più organizzata, che ha adottato le leggi etiche e morali della democrazia. O almeno ci prova. Molte le domande che investono il lettore e si sente che la narrazione ha un impianto di ampio respiro. Quindi, non ci resta che aspettare il seguito!

Henning Mankell, SABBIE MOBILI. L’ARTE DI SOPRAVVIVERE, Marsilio, 2015 (traduzione di Laura Cangemi)
“Il ricordo più nitido che ho del periodo trascorso a Parigi è la percezione di cosa comportava trovarsi ai gradini più bassi della società e cioè, nel mio caso, cosa significava essere un lavoratore in nero con gli abiti lisi e lo stomaco spesso vuoto... Basta una visita limitata ed estemporanea alle classi subalterne per trovarsi ad affrontare una delle scelte più importanti in assoluto: che genere di società voglio contribuire a plasmare? Una domanda che ha segnato il resto della mia vita”. Con grande dispiacere leggo l’ultimo, e sarà purtroppo proprio così, libro di Henning Mankell. Ci sono delle persone che appena incontri ti sembra di conoscere da sempre. Lo so è banale e può suonare sentimentale ma accade e ho smesso di cercare spiegazioni. Grazie a Francesca Varotto che lo ha scoperto per l’Italia ho letto LA FALSA PISTA nel 1998 come proposta per il neonato Festivaletteratura. Ci aveva colpito la potenza della narrazione e della storia e avevamo deciso di invitarlo. Ricordo anche quello che mi disse intuendo la mia perplessità, se non proprio delusione, di fronte a un uomo così controllato e di poche parole: “Io non sono Kurt Wallader”. Da allora ho smesso di cercare ingenuamente nell’autore il personaggio del suo libro. Henning Mankell non era Kurt Wallander ma era molto di più. Ma torniamo al libro. SABBIE MOBILI nasce subito dopo la diagnosi di un tumore al polmone, ma non è il lamento di un malato incurabile, ma piuttosto l’eredità intelligente ed empatica di un grande uomo. La malattia non diventa la scusa, assolutamente comprensibile, per ritirarsi in se stesso, ma anzi diventa un’esperienza di vita da condividere con i lettori. Mankell infatti terrà un diario pubblico dei suoi mesi di malattia, che però sono un profondo amore e inno alla vita. SABBIE MOBILI, come anche gli altri libri di Mankell, offre molte strade di lettura, che si intersecano e quasi si rincorrono a creare una biografia non solo dell’autore ma del genere umano. La principale preoccupazione dello scrittore svedese non è per il suo futuro, ma per quello delle generazioni a venire. A cui, a differenza dei nostri predecessori, non lasciamo reperti archeologici, ma scorie radioattive. Tra i più fervidi oppositori del nucleare, Mankell si preoccupa di cosa accadrà delle scorie sotterrate sotto le montagne svedesi e va di persona in una centrale per cercare di capire. SABBIE MOBILI poi è un viaggio nella sua infanzia, senza sentimentalismi o nostalgie ma soprattutto attraverso le persone che ha incontrato, quelle, come la madre, che l’hanno abbandonato, le giornate eroiche e quelle insignificanti. Ma anche quando ci racconta di lui bambino e ritorna nel suo paese natale, Sveg, Mankell ci parla di persone, idee, confronti, amore per la natura. Senza mai ergersi a giudice assoluto, ma sottolineando il piacere e il dovere di pensare e di ampliare i nostri punti di vista: “Nel mio mondo le verità sono sempre provvisorie. Niente di ciò che ho pensato in vita mia è rimasto uguale a se stesso. Le verità sono come le navi che solcano le onde. Bisogna saperle governare nella direzione giusta, evitando secche e scogli sommersi, e variando la velocità e il numero delle vele issate. Una nave che torna da un viaggio è diversa rispetto a quando era partita. Anche la verità viaggia nella mia mente e nella mia vita. Perché queste verità sopravvivano devo a volte metterle in discussione e cercare un cambiamento... A volte bisogna mettere sottosopra la verità per coglierne la vera essenza”. SABBIE MOBILI è una sorta di passaggio di testimone, di eredità che Mankell lascia ai suoi lettori, per mezzo delle parole, che rappresentano la sua visione del mondo, le sue battaglie, le lotte, le convinzioni, il desiderio mai sopito di contribuire a rendere il mondo migliore.

Azar Nafisi, LA REPUBBLICA DELL’IMMAGINAZIONE, Adelphi, 2015 (traduzione di Mariagrazia Gini)
“Una terra senza frontiere e con poche restrizioni, che ho battezzato 'Repubblica dell’immaginazione'. Per me è 'in qualche modo in qualche luogo', come disse Nabokov; è il giardino di Alice un mondo parallelo a quello reale, i cui abitanti non hanno bisogno di passaporto né documenti. Gli unici requisiti per l’ingresso sono una mente aperta, un incessante desiderio di conoscere e un indefinibile bisogno di fuggire dall’ordinario. (...) Ho scritto questo libro nella speranza che noi lettori di tutto il mondo (...) ci assumiamo il rischio di entrare in questo regno dell’immaginazione, dove tutte le cose che si danno per scontate possono essere capovolte, e dal quale possiamo tornare alla vita di tutti i giorni con occhi nuovi, pronti ad accettare le sue sfide". Dopo LEGGERE LOLITA A TEHERAN, Azar Nafisi ci accompagna in un altro viaggio nella letteratura e nella vita. LA REPUBBLICA DELL’IMMAGINAZIONE, pubblicato come sempre da Adelphi e arricchito dalle illustrazioni di Peter Sis prende il via da un incontro della scrittrice con un giovane esule iraniano che mette in dubbio che i cittadini americani possano comprendere il valore inestimabile della letteratura. Come invece fa chi vive in un regime privo di libertà. Indagando sul rapporto tra libertà e letteratura, tra un popolo e i suoi scrittori e soprattutto sulle possibilità che la lettura offre ai cittadini del mondo, Azar Nafisi ci regala insieme un puntuale saggio di critica letteraria, un sentito racconto autobiografico e un’intelligente interpretazione del mondo in cui viviamo. E ci mostra come la letteratura non smette mai e in nessun luogo di essere insieme un accogliente rifugio e un’arma di lotta e ribellione.

Allan Gurganus, ANCHE LE SANTE HANNO UNA MADRE, Playground, 2015 (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini)
Dopo NON ABBIATE PAURA ecco il secondo racconto lungo o romanzo breve del grande scrittore americano. Che ci racconta ancora una storia sorprendente, con un personaggio apparentemente poco interessante letterariamente, perché dotato di tutte le virtù. E infatti, come dice il titolo, la protagonista è la madre della ragazza ideale. Ma è davvero una fortuna avere una figlia perfetta? Una specie di santa che tutti adorano e idolatrano? Beh, Jean non ne è tanto sicura. Madre di due piccoli gemelli, ma soprattutto di una diciassettenne, Caitlin, che lei stessa ha ribattezzato, e non senza irritazione, la "santa", non può certo opporsi quando la figlia decide di partire per una missione in Africa. Ma una telefonata sconvolgerà la sua vita. Come sempre Gurganus gioca con il lettore, senza rinunciare a un sottile umorismo.

Elizabeth Jane Howard, GLI ANNI DELLA LEGGEREZZA, Fazi, 2015 (traduzione di Manuela Francescon)
Non stento a crederci quando una cara amica mi dice che ha sconfitto il blocco del lettore con questo romanzo. Anche per me la lettura, fatta poi in vacanza, è stata appagante. Chi ha letto IL LUNGO SGUARDO del resto sa cosa aspettarsi dalla lettura dei libri di Elizabeth Jane Howard: una scrittura scorrevole e raffinata, un’intelligente introspezione psicologica, la capacità di far viaggiare il lettore nel tempo, senza perdere il legame con il presente. Ora l’editore Fazi ci propone l’opera di maggior successo dell’autrice: GLI ANNI DELLA LEGGEREZZA, primo dei cinque volumi che raccontano le vicende della famiglia Cazalet, appassionante saga che in Inghilterra ha venduto oltre un milione di copie e da cui la BBC ha tratto una serie tv. Gli altri quattro volumi usciranno uno in primavera 2016, uno in autunno 2016, uno in primavera 2017 e l'ultimo in autunno 2017. E l’attesa sarà dura perché appena chiuse le pagine de GLI ANNI DELLA LEGGEREZZA ci si sente già orfani, senza famiglia. Elizabeth Jane Howard ha infatti la capacità di far entrare quasi fisicamente il lettore nelle sue pagine. Ed è soltanto una delle sue innumerevoli doti narrative. I suoi libri, infatti, sono pieni di glamour e di ironia, raccontano un mondo che non c’è più, sottolineandone le contraddizioni attraverso le persone che lo hanno abitato. Tornando al titolo de IL LUNGO SGUARDO, è proprio questo che Elizabeth Jane Howard riesce a fare: guardare e illuminare le esistenze con uno sguardo intimo e distaccato insieme. Come sottolineano i suoi tanti estimatori, da Hilary Mantel (“E’ una scrittrice che dimostra attraverso il proprio lavoro a cosa serve un romanzo... ci aiuta a fare quello che è necessario: aprire occhi e cuore”) a Martin Amis (“La scrittrice più interessante della sua generazione”), che a lei deve la scoperta della lettura. GLI ANNI DELLA LEGGEREZZA prende il via l’estate del 1937 mentre la famiglia Cazalet si appresta, come da tradizione, a riunirsi nella dimora di campagna per trascorrervi le vacanze. Conosciamo così, in questa atmosfera d’altri tempi, sotto la rigida morale vittoriana, i protagonisti della storia, dagli anziani capostipiti, il Generale e la Duchessa, ai tre figli maschi con relative mogli e figli. Il romanzo è una sorta di catalogo delle dinamiche matrimoniali, una riflessione profonda e mai banale sullo scarto tra ciò che siamo e desideriamo da ragazzi e cosa ci hanno permesso di diventare. E’ impossibile restare indifferenti di fronte alla vita di Rachel, piena di talenti e rimasta ad occuparsi dei genitori; al rapporto di totale amore e incomprensione tra Hugh e Sybil; alla frivolezza di Zoe e alla sofferenza di Polly; al fascino di Edward. Tutte esistenze legate nel bene e nel male tra loro. Con sullo sfondo una guerra appena terminata e un’altra che si annuncia imminente, e la consapevolezza e insieme la paura che questo modo di vivere sia destinato a scomparire. Anche se vivrà per sempre grazie a chi ha saputo così magistralmente raccontarlo.

Massimiliano Tappari e Alessandro Sanna, MIRAMURI, Terre di Mezzo, 2015
Dopo aver letto Miramuri guarderete i muri, e in particolare quelli un po’ feriti, scrostati, diciamo vissuti con occhi diversi. Massimiliano Tappari e Alessandro Sanna, infatti, lavorano a quattro mani, che in realtà possono diventare alla fine molte di più, per raccontarci come foto e disegno possono dialogare felicemente tra loro. Certo parliamo di due grandi artisti, ma Miramuri mette voglia a chiunque di provare a tirare fuori storie e personaggi dalle crepe dei muri. Sfogliando le pagine del libro sembra di vedere Sanna e Tappari girare nelle vie di una città immaginaria che può essere quella di ciascuno di noi e scegliere lo scorcio di un muro da disegnare e fotografare. Perché i disegni di Sanna sono talmente vivi che ci si illude quasi di trovarli davvero sopra i muri. E’ interessante anche come i tratti dell’artista mantovano non sono solo riempimento degli spazi fotografati, ma raccontano nel libro una storia, con un’anticipazione che quasi mai avvisa il lettore della sorpresa che lo aspetta quando volta pagina. Così una vecchia serratura ci viene presentata nella pagina di destra, mentre nella pagina di sinistra un domatore con una frusta lunga lunga sembra non avere nessun nesso con quell'immagine, quando improvvisamente, girando la pagina, capiamo che la serratura è la bocca di una belva, un leone, che si sta mangiando il domatore. I due artisti invitano così grandi e piccoli a osservare meglio quello che ci circonda, a trovare facce e storie anche nei muri, come a volte capita di scorgerli nelle nuvole. Nelle pagine finali del libro poi anche il lettore può provare ad esercitarsi, senza suggerimenti, a far parlare le immagini. E viene voglia subito di mettersi all’opera!

Elisabetta Bucciarelli, LA RESISTENZA DEL MASCHIO, NN, 2015
LA RESISTENZA DEL MASCHIO di Elisabetta Bucciarelli è un romanzo fatto di quadri. Metaforico e realistico insieme. Che rivela pian piano i legami tra i vari personaggi come in una scatola cinese. Al centro lui, L'Uomo, una vita di successo, una bella moglie, una casa adeguata. Un lavoro artistico, un’esistenza lineare fino a quando non assiste a un incidente stradale. Qui tutto cambia. Su un altro fronte ci troviamo seduti insieme a tre donne nella sala di attesa di un medico. Tra sperimentalismo e romanzo tradizionale Elisabetta Bucciarelli indaga sul rapporto uomo-donna senza paura di osare uno stile che potrebbe rendere cerebrale il racconto. Ma che invece amplifica ancora di più i complessi sentimenti che entrano in gioco. E in maniera incredibile e quasi magica, ma è la magia della scrittura, il romanzo diventa in realtà tanti romanzi e il lettore è chiamato a scegliere e percorrere le molte strade che il racconto gli apre. Abbiamo detto del rapporto uomo-donna, ma LA RESISTENZA DEL MASCHIO è anche una storia di luoghi: case, torri, strade, città, ambulatori. E’ un catalogo d’arte; è una riflessione sulla maternità e sull’amicizia al femminile. E’ anche una sorta di diario dell’anima che mette in luce l’assurdità dell’esistenza e di come un fatto assolutamente casuale può invece innestare prima una storia e poi anche un cambiamento di vita. Questo grazie a una scrittura sentita e precisa, mai casuale, controllata e allusiva, ricca di dialoghi e riflessioni: “Ricordati che stasera siamo alla vernice della Aditi Levenson”. “Stasera non posso venire” risponde lei. Conosce molto bene i meccanismi mentali del Marito. Sa che non vuole scontri, passa oltre, aggira, scavalca. Lei no, è abituata a dire tutto. Attraversa, sbatte la faccia. Lui evita, ma non lo fa con superficialità, è piuttosto consapevolezza che ogni guadagno dell’esistenza vada custodito, non si getta via nulla, si aggiusta, si ripara. La Moglie invece ha ancora l’assoluto nel pensiero, ha il dono inesaurito degli orizzonti larghi”.

Andre Dubus III, I PUGNI NELLA TESTA, Nutrimenti, 2010 (traduzione di Chiara Vatteroni)
Dopo L’AMORE SPORCO mi sentivo in astinenza da Dubus III e allora ho deciso di rileggere I PUGNI NELLA TESTA. Con un po’ di timore, perché è uno di quei libri di cui conservo un ricordo assoluto. E invece, se possibile, mi ha conquistato ancora una volta e più profondamente. Il modo di raccontare duro e tenero insieme. La capacità di scavare all’osso le dinamiche familiari e poi restituirle al lettore senza che perdano la loro potenza. Poi la descrizione di un’America non scontata, la fatica di crescere, il confine sempre labile tra farcela e perdersi per sempre. I PUGNI NELLA TESTA è un romanzo autobiografico, non un’autobiografia. E’ un vissuto che diventa storia e una storia che diventa vissuto. C’è una parte della vita dell’autore ma c’è soprattutto il suo talento di scrittore. Anche alla seconda lettura è uno dei romanzi più sentiti e letterari che ho letto.

Giampaolo Simi, COSA RESTA DI NOI, Sellerio, 2015
Libro carico di aspettative (come tutti i libri Sellerio...) che mi girava intorno da un po’, segnalatomi paradossalmente da molti scrittori. Però non mi decidevo. Non so perché. In realtà lo so benissimo. Ma alla fine quello che pensavo mi avrebbe fatto soffrire è stata la parte meno dolorosa del libro. La sensazione che lascia COSA RESTA DI NOI è proprio quella della copertina, la spiaggia vuota d’inverno. La fine delle vacanze, che qui diventa la fine dell’innocenza. Anche di chi legge. E di chi come me si innamora un po’ di Edo, grandi principi e poche ambizioni, capacità manuali e amore per il mare; che si innamora di Guia, bellissima e tormentata scrittrice che alla fine decide di sposarlo. Tutto sembra funzionare: l’intellettuale viziata e irresistibile, il bagnino affascinante e melanconico, sempre pronto ad assecondarla; i suoceri contenti di affidare ad Edo lo stabilimento balneare da sistemare in vista dell’estate. L’idea di un figlio renderebbe perfetta l’unione e tutto quello che ci sta intorno. Sarebbe meraviglioso far crescere un bambino circondato dal mare. Ma non arriva. La delusione, le cure, i tentativi sembrano unire ancora di più la coppia ma la lontananza, lei a Roma, lui in Versilia non gioca a loro favore. Quando il lettore, anche a malincuore, si è quasi convinto che Edo e Guia nella loro o forse anche grazie alla loro diversità possano essere una buona coppia ecco che... Il resto è l’altra metà del libro dove Simi spinge sull’acceleratore e non ti lascia scampo. Come ai suoi personaggi. Non vi racconto altro se non che la capacità introspettiva non viene a mancare e diventa spietata. Non so se COSA RESTA DI NOI è un giallo, un noir, un romanzo e basta. Quello che so è che l’autore non scende a patti e non ti lascia illusioni. E alla fine ti rendi conto che è giusto così.

Karen Joy Fowler, SIAMO TUTTI COMPLETAMENTE FUORI DI NOI, Ponte alle grazie, 2015 (traduzione di Laura Berna)
Quello che mi ha subito colpito di SIAMO TUTTI COMPLETAMENTE FUORI DI NOI è il tono che usa Karen Joy Fowler. Un misto di ironia e complicità, un rivolgersi frequentemente al lettore che crea un feeling che ti lega subito alla storia. Poi sicuramente la vicenda che ha ispirato il romanzo è interessante, ma di questo non posso anticiparvi nulla per non rovinare la suspense che la scrittrice ha creato. Il romanzo però non si risolve in quello che non posso dirvi e quindi attenersi allo spunto del racconto è riduttivo. E non raccontarvelo non toglie niente al libro perché in realtà Karen Joy Fowler sa magistralmente rappresentare il complesso rapporto tra fratelli. E lo fa attraverso Rosemary Cooke che incontriamo ventiduenne mentre stancamente cerca di finire i suoi studi e vivere la sua vita da figlia unica. Non è però sempre stato così. Ma dove sono finiti allora sua sorella e suo fratello maggiori? SIAMO TUTTI COMPLETAMENTE FUORI DI NOI è una rappresentazione insieme sentita ed ironica dei meccanismi sempre unici e spesso incomprensibili che si instaurano in una famiglia. E anche sulla percezione che abbiamo di noi e quella che invece maturano i nostri familiari e che spesso, paradossalmente, non ci appartiene. Scopriremo così come una bambina vivace e chiacchierina si sia trasformata in una ragazza silenziosa e introversa e come punti di vista e sensazioni diverse fanno danni irrimediabili. Un libro forse in alcuni punti un po’ prolisso che si riscatta per l’intensità e la capacità di scrittura di Karen Joy Fowler.

Percival Everett, PERCIVAL EVERETT DI VIRGIL RUSSELL, Nutrimenti, 2014 (traduzione di Letizia Sacchini)
Guardo il libro di Everett con venerazione. E’ pieno di appunti, sottolineature e penso che non sono in grado di scriverne. Ma devo. E invece vorrei rileggerlo e poi rileggerlo ancora. Lo farò. Intanto cerco di raccontarvelo o almeno di trasmettervi un po’ del mio entusiasmo. Non sarà facile perché anche solo la trama è difficile da definire. Diciamo che Pervival Everett ha molto rispetto del lettore e gli lascia molto spazio. Gli lancia delle esche, inizia delle storie che poi spesso gli lascia il compito di finire. Il romanzo non ha una trama tradizionale, però sembra di leggere un classico. Cita spesso Dante e la casa di riposo dove si trova il padre di Everett è un girone dantesco. Così le letture, la musica, le poesie che affiorano nel romanzo non sono sfoggio di cultura ma diventano materia del racconto e soprattutto della vita. Perché è questo che racconta Everett, la vita in una casa di riposo ma anche i pensieri del figlio lontano, le discriminazioni razziali, la politica, ma anche la paternità vera e presunta, la medicina e il piacere che l’arte può dare. E di cui non possiamo fare a meno. L’unico problema è cosa leggere dopo un libro così ricco.

Miguel Bonnefoy, IL MERAVIGLIOSO VIAGGIO DI OCTAVIO, 66thand2nd, 2015 (traduzione di Francesca Bonomi)
Ancora prima di leggerlo IL MERAVIGLIOSO VIAGGIO DI OCTAVIO colpisce per la veste. Una copertina colorata e un formato originale ne fanno un piccolo oggetto d’arte. Poi quando si comincia la lettura si capisce anche che la copertina è il perfetto viatico per una storia colorata, magica, intensa, piena di vita. Perché il viaggio di Octavio prima di essere un lungo itinerario lungo il Venezuela è la scoperta della scrittura e soprattutto della lettura. Octavio infatti vive in una bidonville ed è analfabeta e solo grazie all’incontro con Dona Venezuela imparerà a leggere e scrivere. Il loro amore subirà una brusca interruzione e allora Octavio intraprende il suo viaggio che lo porterà in giro per il suo paese attraverso luoghi finora a lui sconosciuti. Ma sono soprattutto gli incontri che segnano l’uomo e anche il lettore. Il romanzo d’esordio di Bonnefoy sorprende anche per la giovane età dello scrittore e la profonda maturità della sua storia, piena di sfumature, ora delicata, ora più dura, ora malinconica, ora comica. Ricorda un po’ IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D’AMORE di Sepulveda ma con una maggiore raffinatezza.

Murakami Haruki, UOMINI SENZA DONNE, Einaudi, 2015 (traduzione di Antonietta Pastore)
Gli ultimi libri di Murakami mi avevano un po’ deluso o forse non ero io nella giusta predisposizione per leggerli. Così avevo deciso di abbandonarlo per un po’. Invece la segnalazione di un amico mi ha convinto a riprovare con i racconti di UOMINI SENZA DONNE e questi mi hanno ridato l’entusiasmo che mi avevano suscitato i primi libri dello scrittore giapponese. Tanto che spesso mi accorgevo che leggevo senza praticamente capire la storia, solo seguendo la musicalità del racconto. Era un godimento estetico totalmente disgiunto dalla trama. Leggevo e pensavo: che gran maestro è Murakami! In più i racconti sembrano quasi una sorta di vetrina letteraria di tutte i caratteri del versatile talento dello scrittore: c’è lo scarafaggio che diventa umano, ma anche il ricco uomo d’affari che è obbligato a servirsi di un autista; l’adolescente amante della musica e l’uomo imperturbabile che conosce per la prima volta l’amore vero. Ma al di là di tutto, è sufficiente immergersi nella scrittura di Murakami per rassicurarsi della forza vitale della letteratura.

Kent Haruf, BENEDIZIONE, NN, 2015 (traduzione di Fabio Cremonesi)
Prima di addentrarci nella storia del libro, un piccolo preambolo sulla neonata NN edizioni che risponde con la qualità dei fatti alla domanda se non ci sono già troppe case editrici e a cosa servono i piccoli editori. Ecco, per avere una risposta esauriente basta guardare i libri proposti da NN, partendo magari proprio dalla lettura di BENEDIZIONE di Kent Haruf. Portare ai lettori italiani i romanzi del grande scrittore americano (era uscito nel 2000 per Rizzoli IL CANTO DELLA PIANURA, credo con ottimi riscontri, ma evidentemente non sufficienti per continuare a pubblicarlo) è un’opera meritoria che dobbiamo sostenere con tutte le nostre forze. E quindi leggendo e diffondendo BENEDIZIONE. Perché vi accorgerete subito dalle prime pagine che anche se non abitate a Holt, in Colorado e non state, consapevolmente, affrontando i vostri ultimi mesi di vita voi siete comunque lì. A fianco di Dad Lewis, riconosciuto come uomo integerrimo, amato e rispettato dalla comunità in cui vive e in cui ha lavorato per anni nel suo negozio di ferramenta. E conoscerete la moglie Mary e la figlia Lorraine e scoprirete che anche dietro le esistenze più lineari si nascondono dei segreti. E che il male può essere causato anche con le migliori intenzioni di fare del bene. Le storie dei personaggi di Haruf rappresentano una parabola della vita di ognuno di noi, grazie a un linguaggio poetico e delicato, ma comunque spietato, che non fa sconti a nessuno, nemmeno ai lettori. Anche grazie all’ottima traduzione di Fabio Cremonesi.

Hans Tuzzi, FUORCHÈ L’ONORE, Bollati Boringhieri, 2015
Hans Tuzzi, LA FIGLIA PIÙ BELLA, Bollati Boringhieri, 2015

Ci sono dei libri provvidenziali, che ti vengono in soccorso nel momento del bisogno. Mi ero messa da parte per l’estate i due Tuzzi usciti quest’anno, uno nuovo e l’altro riproposto ma che non avevo letto ed ecco, che, bloccata con la schiena, sono stati una compagnia perfetta. E hanno contribuito a farmi stare molto meglio. Del resto i libri con protagonista Norberto Melis, l’investigatore ideato da Hans Tuzzi sono di lettura scorrevole ma non banale, perfetti da portarsi in vacanza ma anche per chi rimane a casa, con una trama stimolante per il cervello cotto dal sole. Partiamo dall’indagine più recente del commissario di stanza alla questura di Milano. Siamo nel giugno 1986 nelle campagne di Abbiategrasso, pochi chilometri da Milano che sembrano però anni luce. Una ragazza viene trovata affogata in una roggia e l’indagine di Melis e dei suoi collaboratori porterà a scoperchiare la patina di perbenismo dietro su cui si trincera la piccola cittadina di provincia. Ma, al di là della trama gialla, quello che i lettori di Tuzzi ritroveranno e gli altri scopriranno è il tono assolutamente unico del romanzo. Un misto di ironia e malinconia che è sempre foriero di pensieri e di aperture non scontate di punti di vista. Così i gialli di Tuzzi, grazie a un investigatore colto ed empatico sono un catalogo di citazioni letterarie, filosofiche, musicali, di riferimenti storici, di giochi di parole, di raffinati riferimenti artistici e puntuali notazioni di culinaria. E questo intersecarsi di trama e citazioni è talmente naturale che sicuramente tanti riferimenti sfuggono, tanto che vale la pena rileggere il libro solo per cercare di trovarli tutti, o quasi. Perché lo scrittore gioca abilmente con il lettore e si capisce benissimo che si diverte con lui. Perché si sente un rispetto estremo per chi legge e la volontà - ahimè spesso molto rara - di non sottovalutare l’intelligenza di chi è dall’altra parte della pagina. Qualunque sia il suo bagaglio culturale. Quindi i vari riferimenti non sono sfoggio di sapienza, ma complice e affettuosa condivisione di cose amate e di pensieri ben ponderati, con il lettore. Perché Norberto Melis indaga e analizza la realtà anche grazie agli ottimi studi classici e alle passioni artistiche che coltiva nel suo privato. Senza dimenticare la sua capacità di puntuali analisi sociologiche sul nostro Paese. Che non mancano anche in FUORCHÉ L’ONORE, avventura di Melis che era già stata pubblicata dall’elegante edizione Sylvestre Bonnard e ora viene riproposta. Torniamo indietro di quattro anni, ovvero all’estate 1982. Melis è vicequestore e si trova in Liguria con il fedele agente Lambiase per un congresso organizzato dal ministero degli Interni. Si vede costretto a prolungare la sua permanenza a causa di un delitto proprio nel Grand Hotel in cui alloggia. L’albergo infatti è stato quasi interamente prenotato per un’importante manifestazione letteraria. Peccato che il protagonista, l’autore bestseller di smelensi racconti di auto-aiuto, Vinni Valenzise viene praticamente giustiziato con una pistola che non si trova. Tutto il bel mondo dell’editoria nazionale è bene o male sospettato del delitto e Melis e soprattutto il ruspante agente Lambise si trovano spesso a disagio ad avere a che fare con personaggi assurdi e incomprensibili quali scrittori e poeti. In questo romanzo poi Hans Tuzzi si è davvero sbizzarrito con nomi e cognomi che da soli raccontano da subito i loro possessori. Il racconto è chiaramente anche una parodia del mondo editoriale ma pure una poetica guida della Liguria, specialità gastronomiche comprese. Hans Tuzzi dice che “L’ideale lettore di gialli... individua altresì non soltanto i 'passi paralleli', bensì anche tutte le citazioni e gli ammicchi che tanti giallisti disseminano e celano nelle loro pagine. Anche quelli che l’autore ha inserito inconsapevolmente. Perché, si sa, un buon libro va sempre al di là del suo autore”.

Andre Dubus III, L’AMORE SPORCO, Nutrimenti, 2015 (traduzione di Giovanni Greco)
L’AMORE SPORCO segna il ritorno alla narrativa, dopo l’autobiografia I PUGNI NELLA TESTA, di Andre Dubus III, figlio d'arte (il padre Andre Dubus II è stato uno dei grandi maestri della short story americana), autore tra l’altro dell'acclamato LA CASA DI SABBIA E NEBBIA, un successo internazionale con due milioni e mezzo di copie vendute, da cui è stato tratto il film omonimo candidato a tre premi Oscar. La lunga attesa è ricompensata da un libro straordinario, che non può essere definito un romanzo, ma nemmeno una raccolta di racconti. L’AMORE SPORCO appare come il racconto di una grande fotografia, un campo lungo dove la macchina da presa ogni tanto zumma di colpo su alcuni personaggi. Il primo è Mark, manager di successo grazie a un capo prima odiato poi amato che gli ha mostrato come essere un vero leader. Il successo lavorativo però non compensa il tradimento e la fine del suo matrimonio. Che lo lascia incredulo, perché è convinto di aver gestito come un’azienda di successo anche la sua famiglia. Che è quello di cui però lo rimprovera Laura che trova in un altro uomo una nuova autostima e soprattutto un compagno che non sottolinei continuamente le sue mancanze. Paradossalmente è la stessa dinamica di coppia che troviamo tra Beth, scomparsa da poco, e Francis, un uomo anziano senza figli, che ospita la nipote poco più che adolescente, in fuga da una famiglia ipocrita e anaffettiva: “... nonostante tutti questi segni di cose esclusivamente buone che sarebbero venute con Beth come moglie, quello che non aveva visto o non aveva voluto vedere, era quanto lei criticasse tutto e tutti a parte se stessa... Non poteva dire certo che non soffrisse, con quel corridoio vuoto e buio dentro di sé, dove gli pareva di vagare da solo, ma che poteva fare con l’altra sensazione? Quel sollievo di essere lasciato in pace dopo quarantatre anni passati ad ascoltare quasi ogni giorno i suoi difetti. Come poteva dire che, a partire dal quell’improvvisa sera di gennaio dell’anno scorso, quello che sentiva ora era un senso di libertà che lo lasciava senza parole e per il quale ogni giorno provava il bisogno di chiedere perdono?”. La convivenza di Francis e della giovane e già ferita nei sentimenti Devon è il racconto che dà il titolo al libro e che, in qualche modo, tira le fila delle altre storie, che non sono a sé stanti ma parti indispensabili di uno spietato e sincero ritratto di una piccola cittadina di provincia, una porzione di pianura urbanizzata del New England, aperta sull'oceano e percorsa dal fiume Merrimack. Tanto che non solo ritroviamo gli stessi luoghi ma anche gli stessi personaggi. Come accade nella storia di Marla che, dopo una giovinezza passata a fare da tappezzeria alle feste, a causa del suo sovrappeso e di una conversazione ordinaria e forse noiosa, sembra aver trovato in Dennis la sua anima gemella. Ma quando vanno a convivere, comincia a rimpiangere la sua vita da single insieme alla sua gatta. “Non si può vivere con un uomo e non essere sola” le dice l’amica Nancy che sottolinea che non provarci abbastanza è molto peggio che fingere. Ma è davvero così? E’ invece la perfezione di Althea, il suo amore incondizionato che spaventa Robert che tradisce la moglie incinta e rovina l’unica cosa buona della sua vita. Storie diverse, personaggi diversi per età, percorsi di vita, estrazione sociale ma tutti alle prese con l’amore e la convivenza. L’AMORE SPORCO è un catalogo di trame affettive, un profondo e inesorabile endoscopio che illumina i meccanismi delle unioni matrimoniali. E Dubus III manovra con sicurezza e uno sguardo sempre partecipe i fili dei suoi personaggi, mostrando come la letteratura sappia e possa scavare nelle parti più profonde e nascoste del nostro bagaglio sentimentale. Potrete incontrare Andre Dubus III al Festivaletteratura di Mantova dal 9 al 13 settembre.

Marcello Fois, LUCE PERFETTA, Einaudi, 2015
“... E una luce da non potersi raccontare. Precisa, come sono precisi solo alcuni istanti. Solenne e pacifica... L’aveva ritrovata, e ora la poteva invitare, in silenzio, davanti al mare che andava e veniva. Nella luce perfetta.” Il nuovo atteso romanzo di Marcello Fois chiude la trilogia dedicata alla famiglia Chironi che abbiamo già conosciuto in STIRPE e NEL TEMPO DI MEZZO. Al centro della scena è Christian, il figlio che Vincenzo non ha potuto nemmeno sapere che esisteva, perché Cecilia ha scoperto di essere incinta quando il marito era già morto. Christian trova un fratello in Domenico, figlio di Mimmiu Guiso, il socio di suo padre. Ma anche il legame più forte può rompersi a causa dell’amore di una donna. Così quando Maddalena entra nelle loro vite, tutto cade e precipita e i Chironi sembrano destinati a scomparire. Marcello Fois ci porta nella Sardegna degli anni Ottanta in un romanzo che è da una parte precisamente contestualizzato, e dall’altra parte senza tempo. O aderente a un tempo epico, primordiale, misurato solo dalle passione umane e della natura. Colpisce poi il clima apocalittico che grava sulla storia: non si sa mai quello che sta per accadere, quello che un dispettoso demiurgo riserva a noi poveri mortali. I personaggi, infatti, sembrano sempre in equilibrio precario; sono per lo più orfani: sono incerte le loro origini e anche gli elementi naturali come il mare sono spesso pericoli incombenti. Mancano di radici e solo l’anziana Marianna tenacemente lavora con la memoria per mantenere i fili della famiglia Chironi. In qualche modo Marcello Fois fa lo stesso con la scrittura perché come dice Vincenzo Chironi “Siete qui per soffiare l’alito che genera racconti”.

Noo Saro Wiwa, IN CERCA DI TRANSWONDERLAND. IL MIO VIAGGIO IN NIGERIA, 66thand2nd, 2015 (traduzione di Caterina Barboni)
“E così il parco di divertimenti Transworderland è lì ad arrugginire in attesa di essere inghiottito e strangolato dall’erba alta della stagnazione economica. Intanto i sogni della mia infanzia di una Nigeria moderna e artificiale sono a un punto morto. La soluzione sta nel non fidarsi delle guide scritte da quattro anni: i cambiamenti qui avvengono rapidamente”: Noo Saro Wiwa con IN CERCA DI TRANSWONDERLAND. IL MIO VIAGGIO IN NIGERIA, non ci regala solo un appassionante viaggio nello stato africano, suo paese di origine, ma un libro intelligente e vivace sul mondo che viviamo. Nata in Nigeria nel 1976, Noo è figlia di Ken Saro-Wiwa – l’attivista ucciso per essersi schierato contro le multinazionali del petrolio. Cresciuta in Inghilterra per volere del padre che desiderava per i suoi figli una buona istruzione, non possibile nel suo paese, ha frequentato il King’s College e, successivamente, la Columbia University di New York. Sino alla morte del padre, ogni estate tornava malvolentieri in Nigeria, nel villaggio natio dei genitori, senza luce elettrica e acqua corrente. Dopo l’assassinio di Ken, Noo ha visto il suo paese come il principale colpevole della sua morte. Poi dopo quasi vent’anni, decide di tornare per scrivere questa guida sui generis che le è valsa nel 2012 il Sunday Times Travel Book of the Year e l’inserimento tra i dieci migliori libri sull’Africa redatto dal Guardian. IN CERCA DI TRANSWONDERLAND, con l’ottima cura del raffinato editore 66thand2nd, è tanti libri insieme. Lo si può senza dubbio utilmente leggere prima di un viaggio in Nigeria, ma è anche un’acuta analisi geopolitica del continente africano. Poi è un’autobiografia letteraria, un ritratto familiare ma anche politico della figura di Ken Saro Wiwa: “Mio padre non ha mai attinto a questo sistema di corruzione. Io non mi rendevo conto di quanta rettitudine ci fosse dietro la nostra casa modesta e le poche vacanze, anzi, ce l’avevo con lui per quel suo essere frugale e per niente materialista... Vedere in tutta la sua crudezza ciò che i politici erano disposti a fare pur di proteggere i loro patrimoni ha minato il mio idealismo in modo piuttosto brutale... Dopo l’assassinio di mio padre ho capito che la corruzione è un mostro in grado di sconfiggere anche i più agguerriti difensori della morale”. E’ poi una sorta di romanzo di formazione al femminile, uno spaccato di storia dei diritti violati delle donne e una riflessione mai banale sulle dinamiche culturali della Nigeria. E’ anche una accurata storia della Nigeria e dei paesi vicini, con delle considerazioni spietate ma quanto mai lucide sulla schiavismo del passato e sui migranti dei nostri giorni. Spesso racconta degli incontri di inciviltà, a cui non sfuggiamo noi italiani: “... avrei voluto prendere a schiaffi l’italiano che aveva frainteso il nostro comportamento crogiolandosi nel suo senso di superiorità; allo stesso tempo avrei voluto sotterrarmi per il chiasso prodotto dai nigeriani, paranoici e indisciplinati, incuranti delle norme civili britanniche”. Ti accorgi che è una guida che quasi magicamente riesce a portarti in Nigeria semplicemente leggendo. Grazie alla capacità narrativa di Noo Saro Wiwa e alla sua ironia, che diventa spesso autoironia, calda e puntuale. Infine il viaggio di Noo è l’indubbia testimonianza umana e letteraria di una diaspora: “Certo, scegliere di tornare in Nigeria di mia spontanea volontà è stato cruciale per questo momento epifanico. Visitarla da adulta mi ha finalmente aiutato a spazzare via le associazioni negative e a stabilire con il paese un nuovo rapporto, di cui ero pronta ad accogliere tra le braccia incerte gli aspetti irritanti e sui cui avrei investito una parte di me”.

Bianca Pitzorno, LA VITA SESSUALE DEI NOSTRI ANTENATI, Mondadori, 2015
Quanto mi sono divertita, rilassata, emozionata leggendo il libro di Bianca Pitzorno! La scrittrice sarda è sempre una grande affabulatrice, un’incantatrice che ti tiene legata alle pagine e ti fa vivere molte esistenze, mai troppo lontane dalla tua. Così racconta il suo nuovo libro: “E’ una storia di famiglia dove quasi nessuno è allevato dai propri genitori.[...] E’ una storia di autoanalisi, dove Ada crede di essere donna ragionevole, e si lascia travolgere dall’irrazionale. Ci sono molti sogni importanti. C’è molto di quello che la mia generazione ha letto e amato”. LA VITA SESSUALE DEI NOSTRI ANTENATI, con il sottotitolo, a scanso di equivoci, che recita “spiegata a mia cugina Lauretta che vuole credersi nata per partenogenesi” si apre a Cambridge nel 1979. Conosciamo subito l’io narrante, Ada Bertrand, trentasette anni, docente precaria di letteratura greca all’università di Bologna, davanti a una sconcertante scoperta: “Qualche volta si era illusa che fosse orgasmo qualcosa per cui non aveva termini di confronto. Come pensava che non ne avessero le donne del passato, sua nonna per esempio, che quella parola da giovane probabilmente nemmeno la conosceva e da adulta si arrabbiava solo a sentirla nominare. Adesso finalmente Ada sapeva com’era, al di là di ogni esperienza e paragone”. Da qui parte un incredibile incastro di vicende, personaggi, case, oggetti, sogni, quadri, libri, di cui Bianca Pitzorno tiene con grande sicurezza i fili. Il romanzo è anche una riflessione su cosa significa essere genitori e se si può esserlo senza avere partorito. Ada e la cugina Lauretta sono entrambe orfane di madre e padre e vengono allevate da nonna Ada e da zio Tancredi, un personaggio intrigante e pieno di fascino. La storia poi ritrae con grande lucidità e anche umorismo la vita di provincia e mette in scena manie e assurdità della nobiltà locale, e nefandezze fatte per salvaguardare il buon nome della famiglia. LA VITA SESSUALE DEI NOSTRI ANTENATI non entra solo nelle camere da letto dei nostri nonni e bisnonni ma ci regala uno sguardo disincantato sulle relazioni amorose e sulle dinamiche di coppia dei nostri giorni. Inoltre il romanzo è un inesauribile fonte di libri, usati per commentare gli avvenimenti, suggeritori di pensieri e sensazioni, cassa di risonanza delle azioni dei protagonisti. In qualche modo anche “calendari dei tempi passati” come diceva Proust e insieme ai diari e ai testamenti ci raccontano la parabola di alcuni dei personaggi. Poi ci sono i luoghi - dalla cittadina di provincia affacciata sul mare dove nasce Ada all’amata Grecia -, e ancora le case, gli oggetti, che non sono elementi di contorno ma necessari coprotagonisti della storia. Mentre leggiamo, ma anche una volta chiuse le pagine, ci sentiamo pure noi “parenti” della famiglia Bertand-Ferrell, e possiamo aggiungere di diritto il nostro nome alla cronologia che Bianca Pitzorno mette all’inizio del romanzo.

Thomas Meyer, NON TUTTE LE SCIAGURE VENGONO DAL CIELO, Keller, 2015 (traduzione di Franco Filice)
«Mi passai la mano sulla barba e pensai: “non puoi mica dire a tua madre che la ragazza non ti piace perché è tale e quale a lei”. Mi limitai quindi ad aggiungere: “Mamma, tra di noi non è schioccata alcuna scintilla”. “Ma che scintilla e scintilla!” esclama lei. “Tu hai bisogno di una moglie, non di una scintilla!”». Ironia, divertimento ma anche profonde riflessioni in NON TUTTE LE SCIAGURE VENGONO DAL CIELO, il romanzo di Thomas Meyer appena pubblicato da Keller. Al centro della storia il giovane ebreo ortodosso Mordechai Wolkenbruch, detto Motti, che vive e studia a Zurigo e che, alla veneranda età di 22 anni, non ha ancora messo su famiglia, come invece hanno già fatto da tempo i suoi fratelli. La madre quindi decide di intervenire drasticamente sottoponendogli decine di candidate. Un intero catalogo di mogli che però Motti rifiuta facendo sempre più arrabbiare la madre, che si vendica su di lui in modo subdolo e spesso esilarante. Oltretutto Motti scopre un’attrazione verso Laura, una compagna di studi svizzera, che però non è ebrea, indossa pantaloni, beve Gin Tonic e le piace parlare in modo indecente e libero. Cosa fare? Continuare a seguire la tradizione, obbedendo alla madre e sottostando ai suoi modi invadenti, o provare a essere se stessi, percorrendo la propria strada? Seguiremo le peripezie di Motti, che viene addirittura spedito in Israele per trovare una moglie adeguata e insieme rideremo di una madre che non intende in nessun modo rinunciare ai suoi progetti sul figlio. NON TUTTE LE SCIAGURE VENGONO DAL CIELO, caso editoriale in Svizzera e Germania, è un romanzo leggero, spiritoso, intelligente e profondo sul rapporto con i genitori e le aspettative che nutrono verso i figli.

Kevin Brooks, BUNKER DIARY, Piemme, 2015 (traduzione di Paolo Antonio Livorati)
I ragazzi possono leggere tutto? Io credo di sì ma soprattutto dobbiamo dare loro occasione e modi per parlare di quello che hanno letto. Sicuramente BUNKER DIARY innesta discussioni infinite ed è uno dei suoi tanti meriti. Tanto che l’assegnazione al romanzo di Kevis Brooks della Canergie Medal, il più importante riconoscimento assegnato ai libri per ragazzi, ha scatenato numerose e prolungate polemiche. Da parte degli adulti. La storia è quella di un ragazzo di diciassette anni che si ritrova prigioniero in un bunker con altre cinque persone. Linus è il primo ad essere rapito, narcotizzato e con un ascensore spedito in un bunker di cemento, controllato da un preciso sistema di telecamere che non risparmia neppure il bagno. All’inizio sembra che il misterioso deus ex machina della vicenda stia facendo una sorta di gioco sulla falsariga del grande fratello o magari un esperimento sociologico. Ma pian piano insieme a Linus e agli altri prigionieri, rimaniamo disorientati di fronte a quello che scatena nel bunker. Tra umiliazioni, privazioni, rumori assordanti, freddo, buio passano le settimane e assistiamo a come una situazione di prigionia possa modificare le persone, rivelare il loro essere più oscuro o anche inaspettate generosità. BUNKER DIARY è un romanzo potente, vero, una metafora della precarietà della nostra esistenza, ma anche un incredibile propulsore di pensieri sul senso della vita e su come reagiremmo noi se ci trovassimo nei panni dei prigionieri. Tra tutti svetta Linus, intelligente ed empatico, autentico e mai sconfitto. Grazie al suo diario, scritto su un taccuino che l’uomo di sopra ha lasciato in ogni camera insieme a una Bibbia, seguiamo la quotidianità che si instaura nel bunker, i tentativi di fuga e quelli per sopravvivere. Un libro che gli adolescenti ma anche gli adulti dovrebbero leggere non per trovare delle risposte ma tante domande sulla nostra vita.

Helen Humpreys, IL CANTO DEL CREPUSCOLO, Playgruond, 2015 (traduzione di Fabio Viola)
Attenzione! Contenuto incandescente, dovrebbe essere scritto sulle copertine dei libri di Helen Humpreys. La scrittrice canadese infatti trasforma i sentimenti in materia viva e li racconta così profondamente che sembra quasi di toccarli. E’ così anche nel suo nuovo romanzo, IL CANTO DEL CREPUSCOLO, pubblicato sempre da Playground, con l’ottima traduzione di Fabio Viola, dove ritroviamo in una storia nuova un po’ tutti i temi delle sue opere precedenti: la guerra, il rapporto tra fratelli, l’amore in tutte le sue declinazioni, il rapporto con la natura. E poi tre protagonisti impossibili da non amare anche se a un certo punto si feriscono l’un l’altro. Incontriamo subito James, “l’uomo uccello”, aviatore della RAF catturato dai tedeschi alla prima missione e portato in un campo di detenzione per l’esercito Alleato. Qui cerca di sopravvivere scrivendo alla giovane moglie Rose e osservando una coppia di codirossi intenti a costruire il nido. Ogni giorno James passa la maggior parte del tempo a spiare il comportamento degli uccelli e ad annotarlo in un quaderno (“E’ per quello che James ama gli uccelli, per le loro infinite possibilità. Tracciano una linea nell’aria, la loro traiettoria invisibile, e quella può incrociarne altre oppure condurli verso lidi inaspettati. Bisogna solo credere all’esistenza della linea e seguirla”. Subito dopo conosciamo Rose, nella modesta casa del Sussex ai confini con la brughiera dove ha passato i primi mesi di matrimonio con James. All’inizio si sente molto sola poi grazie a Harris, il cane che prende da un vicino allevamento e ai compiti bellici che le vengono affidati, comincia ad abituarsi a stare con se stessa. Fino a quando Enid, la sorella di James che non ha mai conosciuto, la prega di ospitarla perché la sua casa di Londra è stata bombardata. Tra le due donne, molto diverse, all’inizio s’instaura un rapporto conflittuale, poi pian piano sembrano poter diventare amiche. Intanto James viene trasferito in un nuovo campo di prigionia e deve abbandonare i suoi codirossi. Con un salto temporale Helen Humpreys ci trasporta nel 1950, dove ritroviamo i tre protagonisti alla fine della guerra. James ha fatto della passione per gli uccelli il suo lavoro, anche se non riesce a uscire dall’orrore che ha vissuto nel campo di concentramento e tende ad isolarsi dal mondo: “Le persone non sono importanti. I cinque anni che ho passato in prigione con duemila uomini in pochi ettari di terreno sono una dose di umanità sufficiente per il resto della mia vita”. Le due donne rimpiangono per motivi diversi le sei settimane in cui hanno condiviso la casa nella brughiera. Ancora una volta Helen Humpreys costruisce un repertorio umano che coinvolge senza possibilità di difesa il lettore che vivrà, anche una volta terminate le pagine, immerso nelle vicende del romanzo. Gli uccelli e la natura in genere poi non sono un mero pretesto letterario, ma elementi indispensabili della storia, al pari dei personaggi in carne ed ossa e anzi, spesso loro speculare riflesso: “E’ troppo difficile capire come stare al mondo... E’ quasi impossibile dare a ogni cosa il giusto peso. E poi c’è una miriade di scelte importanti da fare. E’ un impegno senza speranza. Quanto sarebbe più facile essere una berta, in balia delle folate del vento che soffia incessante dall’Atlantico”. Tutto quello che abbiamo detto del romanzo si realizza grazie alla scrittura apparentemente semplice e lineare, ma in realtà densa, poetica, precisa della scrittrice canadese che ci regala tantissimi passaggi su cui tornare per coglierne appieno la ricchezza espressiva: “Non è solo l’amore a non essere mai uguale a se stesso, è ogni istante della vita. E come non si possono amare due persone allo stesso modo, certi istanti sono molto più importanti di altri, anche se è possibile capirlo quando ci si è invischiati”.

Jennifer Niven, RACCONTAMI DI UN GIORNO PERFETTO, De Agostini, 2015 (traduzione di Simona Mambrini)
Finalmente un libro intenso, ironico e vero come quelli di John Green e Aidan Chambers. Devo ammettere che ero piuttosto scettica davanti a RACCONTAMI DI UN GIORNO PERFETTO e invece grazie ai librai del coordinamento librerie ragazzi ho scoperto una lettura dolorosa e sentita che sa raccontare gli adolescenti. Al centro della storia un’amicizia. Jennifer Niven ci presenta i suoi protagonisti, Violet e Finch al loro primo incontro, sul tetto della scuola dell’Indiana che frequentano insieme ad altri centinaia di ragazzi. Qui, sulla torre della campana, in bilico sul cornicione, Theodore Finch sta valutando l'idea del suicidio. E Violet invece cosa fa in equilibrio sul tetto della scuola con la gonna svolazzante? Quando alla fine i due ragazzi scendono tutti sono convinti che Violet abbia salvato la vita di Finch. Non può essere diversamente: la ragazza è una delle più corteggiate della scuola, è un cheerleader molto popolare e frequenta il gruppo d’elite della cittadina. Finch invece è un ragazzo strambo, bravo musicista, ma anche instabile, spesso aggressivo e nasconde un terribile segreto. L’incontro tra i due in realtà sembra avvenire nel momento peggiore della loro adolescenza: Violet ha perso la sorella in un incidente stradale e Finch medita da tempo di togliersi la vita. Il loro incontro e il loro inaspettato amore offre a entrambi punti di vista diversi sulla vita e anche tanti giorni perfetti. Ma sarà sufficiente per continuare a vivere?

Chistophe Leon, REATO DI FUGA, Sinnos, 2015 (traduzione di Federico Appel)
Finalmente un altro titolo di Christophe Leon tradotto per i lettori italiani. Dopo GRANPA’ ecco REATO DI FUGA, da cui in Francia è stato tratto un premiatissimo film per la televisione con protagonista Eric Cantona. Il romanzo racconta di cosa porta Sebastien, quattordici anni, diviso tra due genitori in aperta guerra a conoscere Loic, che vive con la madre e sogna di arruolarsi come il padre, che è morto quando era ancora piccolo. Una sera la madre di Loic viene investita da un auto lanciata a tutta velocità che non si ferma a soccorrerla. Alla guida c’è il padre di Sebastien che, da vigliacco, decide di fuggire. Ma il ragazzo non riesce a fare finta di niente e dimenticare, e così rintraccia la donna investita e conosce Loic, senza però svelare il suo coinvolgimento nell’incidente. Paradossalmente tra i due nasce un sentimento quasi fraterno e il dolore dell’uno per le gravi condizioni della mamma e dell’altro per il comportamento del padre li avvicina come se si conoscessero da sempre. Chistophe Leon, autore di più di trenta romanzi, per ragazzi e adolescenti, ci regala un ritratto vero sino alla spietatezza del rapporto genitori-figli.

A.F. Harrold, IL MIO AMICO IMMAGINARIO, Mondadori, 2015 (traduzione di Manuela Salvi)
Non sorprende che Harrold sia uno dei maggiori poeti inglesi, perché IL MIO AMICO IMMAGINARIO trasuda poesia e profondità. E anche una grande capacità di rappresentare i sentimenti dei bambini. All’inizio la storia, magnificamente illustrata da Emily Garvett, sembra quella tradizionale del legame di un bambino e del suo amico immaginario, in questo caso Rudger, fedele compagno invisibile di giochi di Amanda. Ma poi il racconto vira verso il noir e ci troviamo a temere per la “vita” di Rudger, vittima del sinistro signor Bunting, cacciatore di amici immaginari, di cui si ciba per continuare anche da adulto a mantenere il suo. Rudger riesce per fortuna a rifugiarsi in una biblioteca dove vivono tutti gli amici immaginari rimasti senza bambini a... immaginarli. Ma saranno Amanda e la sua mamma a salvarlo. Un libro che ha già il sapore del classico.

Friedrich Ani, SÜDEN, Emons, 2015 (traduzione di Emilia Benghi)
Segnatevi il suo nome perché non lo dimenticherete facilmente e, anzi, sarete anche tentati di imparare il tedesco, se già non lo conoscete, per leggere i gialli di cui è protagonista. Intanto potete cominciare con il primo tradotto in italiano, SÜDEN - IL CASO DELL’OSTE SCOMPARSO, pubblicato da Emons e ben tradotto da Emilia Benghi. Cinquantenne, introverso, poco avvezzo alle nuove tecnologie ma dalla mente affinata come un moderno Sherlock Holmes, Süden è specializzato nel ritrovamento di persone scomparse. Quando era a capo dell’apposito dipartimento della polizia tedesca ha raggiunto risultati eccellenti. A un certo punto però molla tutto, città, lavoro per tornare a Monaco, dove è nato e da dove è scappato. Qui trova lavoro quasi suo malgrado presso una piccola agenzia investigativa diretta da una donna decisa e materna insieme. E si trova a indagare su un oste scomparso da due anni dalla sua casa bavarese. La moglie sembra non rassegnarsi alla misteriosa partenza del marito, ma Süden pian piano scoprirà la vera vita che l’uomo conduceva. Le indagini, fatte di lunghi silenzi, ma in realtà di attenti ascolti, e senza possedere un telefono cellulare portano l’investigatore a Sylt, l’isola più a nord della Germania, luogo di gran fascino intriso di brezza e salsedine, profumo di aringhe e donne, dove a Süden si rivelerà una profonda verità: nessuno è quello che appare, soprattutto agli occhi di chi ti sta più vicino. Parallelamente alla vicenda dell’oste scomparso, seguiamo anche la vita personale di Süden, come accade per altri commissari molto amati dai lettori, come il Kurt Wallander di Henning Mankell, che assomiglia caratterialmente molto all’investigatore dello scrittore tedesco. Scopriamo così che Süden è tornato nella sua città natale dopo una strana telefonata, dove il padre, scomparso da 35 anni, dice di volerlo incontrare. La linea però cade e Süden non riesce più a rintracciarlo. Dove sarà finito dopo averlo abbandonato in seguito alla morte della moglie? E’ per questo drammatico aspetto della sua vita che Süden è diventato un esperto nel rintracciare persone scomparse? Come fosse sempre alla ricerca di suo padre? A queste domande probabilmente risponderanno gli altri libri della serie, che non vediamo già l’ora di poter leggere.

Anne Tyler, UNA SPOLA DI FILO BLU, Guanda, 2015 (traduzione di Laura Pignatti)
Per chi già conosce e apprezza Anne Tyler UNA SPOLA DI FILO BLU sarà come ritrovare una vecchia e affidabile amica. Per chi non l’avesse ancora letta, il suo nuovo romanzo può essere un ottimo inizio per conoscerla. Come sempre, infatti, la scrittrice americana ha il potere di rappresentare la quotidianità come pochi scrittori sanno fare. I suoi personaggi sono talmente vivi che sembra di averli conosciuti nella nostra vita reale e non tra le pagine di un romanzo. Come si potrà dimenticare Abby Whitshank, sessantenne assistente sociale in pensione, ma, come la incolpano i suoi famigliari, sempre pronta ad aiutare tutti e a impicciarsi delle vite degli altri? Abby è una donna umanamente ricca che non è riuscita però a rendere felice Danny, il suo figlio minore. E il romanzo comincia proprio con una telefonata del ragazzo, che ci porta subito al centro della storia, nella camera da letto di Abby e di suo marito Red, un uomo buono e comprensivo. Come spesso accade nei libri della scrittrice americana le case hanno grande importanza e qui la grande villa con lo sterminato portico in legno è l’elemento catalizzante di tutte le vicende della famiglia di Abby. La casa di famiglia, orgoglio del padre di Red, arrivato a Baltimora negli anni Venti per poi fare carriera come costruttore, ha visto avvicendarsi quattro generazioni di Whitshank e conserva tra le pareti l'eco delle loro storie. Che sono quelle che Anne Tyler ci racconta con il suo ritmo avvolgente, la sottile ironia, lo sguardo insieme partecipe e distante sui suoi personaggi. Perché in ogni famiglia ci sono segreti e mezze verità, risentimenti, invidie, aspettative disattese, ma anche amore, risate, voglia di stare insieme. Come nella vita.

Robin Black, RITRATTO DI UN MATRIMONIO, Neri Pozza, 2015 (traduzione di Chiara Brovelli)
Arno Geiger, TUTTO SU SALLY, Bompiani, 2015 (traduzione di Giovanna Agabio)

“Trecento anni fa raccomandavano delle trasfusioni per bilanciare l’umore dei coniugi: al marito malinconico somministravano il sangue della moglie piena di gioia di vivere. Purtroppo i pazienti sopravvivevano di rado al trattamento, e questo spiega perché la procedura non è mai diventata veramente di moda”. Una conferma e un brillante esordio per raccontare matrimoni di lunga data. Lo scrittore austriaco Arno Geiger, che ha raccontato tra l’altro l’alzheimer nel magnifico IL VECCHIO RE NEL SUO ESILIO, in TUTTO SU SALLY mette in scena l’inesorabile declino di una coppia verso la vecchiaia. La giovane scrittrice americana Robin Black con RITRATTO DI UN MATRIMONIO riesce a rappresentare, grazie a un’impressionante veridicità e a una trama ad alta tensione la vita coniugale dei cinquantenni artisti Augusta e Owen, appena trasferitisi da Philadelphia in una isolata casa di campagna. Reduci infatti da un tardivo matrimonio, fatto per sancire un nuovo inizio dopo un fugace tradimento di Augusta, i due artisti, lei una pittrice in ascesa, lui uno scrittore di nicchia, sembrano aver trovato il loro Eden in una casa di campagna dove ognuno ha il suo spazio. Robin Black ci immette subito al centro della storia, rivelandoci dalle prime parole come andrà a finire. Ma proseguendo la lettura ce ne dimentichiamo subito, irretiti dalla grande capacità narrativa ed empatica della scrittrice, che riesce a raccontare i sentimenti che uniscono due persone che condividono la vita da molto tempo: “Ma Owen era Owen. Owen era me. Io ero lui. Con la rabbia e tutto il resto. Con i tradimenti e tutto il resto. A volte entrava in una stanza e avrei voluto ucciderlo, per così dire, ma al tempo stesso, per buona parte della mia vita, non sarei riuscita a dire dove finivo io e dove cominciasse lui”. L’equilibrio faticosamente conquistato o forse solo fortemente voluto, sembra incrinarsi con l’arrivo, nella casa accanto, di Alison, che ha affittato il piccolo podere attratta dall’idea di vivere vicino a due artisti. E qui Robin Black non scade nello scontato, facendo nascere un legame con Owen, per riequilibrare i tradimenti. E’ infatti Augusta che diventa amica di Alison, a testimoniare che forse, nonostante la passione sempre accesa e l’intesa intellettuale, una coppia non può sempre bastare a se stessa e rinunciare ad avere rapporti con il mondo intero. RITRATTO DI UN MATRIMONIO è un romanzo ricco, sentito, mai banale e illuminante non solo sui rapporti umani ma anche sulla creazione artistica.
Come nel romanzo della Black, anche in TUTTO SU SALLY di Arno Geiger il personaggio chiave è quello della moglie, come si intuisce già dal titolo. Incontriamo Alfred e Sally, una coppia della media borghesia viennese, in una camera d’albergo, durante una vacanza estiva in Inghilterra. Si respira subito la complicità tra i due, ma anche la tensione di Sally che vuole opporsi a un precoce e pigro lasciarsi andare del marito: “Con espressione assorta si gratta con la penna l’ascella sinistra. Non sembra scontento, sta solo riflettendo. Sally conosce quell’espressione: è il simbolo della profondità, di pensieri importanti e grevi; e anche lui è importante e greve, antiquato e imperturbabile come la regina inglese, perennemente accompagnato dai suoi servitori particolari: ritualità e ripetizione”. Su questa lenta spaccatura di aspettative e anche di energie mentali e fisiche si innesta come un cuneo il furto che subisce la loro casa viennese mentre sono ancora in Inghilterra. L’avvenimento irrompe nella coppia portando alla luce rancori sopiti, segrete delusioni, rivendicazioni, ma anche desideri inconfessati e di rivalsa.
Se non siete proprio convinti del vostro matrimonio, però, aspettate a leggerli...

Andrés Barba, HA SMESSO DI PIOVERE, Einaudi, 2015 (traduzione di Federico Niola)
Alejandro Zambra, I MIEI DOCUMENTI, Sellerio, 2015 (traduzione di Maria Nicola)

Se amate leggere i racconti sarete contenti di scoprire due giovani e affermati autori alle prese con la prova forse più difficile per uno scrittore; se non amate i racconti non preoccupatevi, perché potete leggere i due libri come una sorta di romanzo a puntate. Perché HA SMESSO DI PIOVERE di Andrés Barba e I MIEI DOCUMENTI di Alejandro Zambra sono romanzi fatti di racconti, dove non è difficile trovare un grande collettore narrativo. Quello dello scrittore spagnolo è sicuramente il rapporto genitori-figli. Con uno stile raffinato ed efficace Barba ritrae situazioni quotidiane molto diverse dove, però, entrano sempre in gioco i rapporti familiari. In 'Paternità' un ex bambino copertina, vessato all’inverosimile dalla madre ambiziosa e ossessiva, si riscopre grazie a una inaspettata maternità. Barba riesce a farci passare in pochi tratti dalla commozione alla rabbia, ritraendo questo giovane uomo bellissimo e che non ha mai davvero amato. In 'Astuzia' una donna, madre di due vivaci bambini, deve occuparsi della madre, resa insopportabile dalla malattia. Anche qui non manca nessuna declinazione dei sentimenti nel rapporto di odio e amore che si instaura tra le due donne. In 'Fedeltà' un’adolescente scopre il tradimento del padre e perde così la sua verginità sentimentale. In 'Acquisti' un uccello del paradiso tenta una fuga impossibile e ostinata dalla cupola di vetro di un centro commerciale. Nei quattro racconti c’è un ritmo simile, per così dire in discesa, perché, come dice il titolo, a un certo punto smette di piovere e appare il sole che apre uno spiraglio nel grigio della vita. Tutti i personaggi sono dei caleidoscopi di emozioni, che poi passano, attraverso le pagine, ai lettori.
Rimaniamo nella lingua spagnola ma ci spostiamo in Cile con Alejandro Zambra, una delle nuove grandi voci della letteratura latinoamericana. Il suo I MIEI DOCUMENTI raccoglie undici brevi racconti che vanno a comporre la storia della sua famiglia ma anche del Cile. Rispetto ai racconti di Barba, qui c’è un continuo passaggio di testimone tra la vita del singolo e quella del paese in cui vive. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il protagonista, infatti, scopre a otto anni che cos’è la rivoluzione e si deve misurare con le problematiche della sua età, come il desiderio di entrare nella banda scolastica e i discorsi degli adulti. In particolare sulla politica del paese. I racconti di Zambra sono poi un modo e quasi un’urgenza per riappropriarsi del passato, per scandagliare i dolorosi lutti del paese, come i devastanti terremoti e la dittatura, ma anche per non dimenticare i piccoli oggetti quotidiani, le tradizioni, le persone care.

Okey Ndibe, IL PREZZO DI DIO, Clichy, 2015 (traduzione di Leonardo Taiuti)
L’ho capito subito appena l’ho iniziato che questo sarebbe stato uno dei miei libri. Immagino capitino anche a voi questi colpi di fulmine: già dalle prime pagine sei parte del libro, respiri lo stesso ritmo e quando devi abbandonare la lettura, il libro però non ti lascia e te lo porti dietro fino a quando non riprendi la lettura. Beh, Ike, il protagonista de IL PREZZO DI DIO fa ancora parte delle mie giornate. Perché Okey Ndibe ha un’indubbia capacità narrativa e riesce a esprimere la sua sottile ironia anche nei momenti più drammatici della storia. Che è insieme surreale e vera, drammatica e comica, e regala al lettore un godimento estetico e un viaggio realistico nella Nigeria di oggi. Ottima la traduzione di Leonardo Taiuti, che è riuscito a trasmetterci la scrittura immediata e raffinata dello scrittore nigeriano, di cui il premio Nobel Wole Soyinka dice: “Siamo chiaramente di fronte a un nuovo talento. Era da tanto che non percepivo potenzialità simili in uno scrittore”. In breve la storia: Ike, immigrato nigeriano che vive a New York, ha visto svanire tutte le sue speranze. Malgrado una carriera scolastica impeccabile, coronata dalla laurea in economia in un prestigioso college statunitense, prima non trova lavoro per la mancanza della green card. Poi quando se la procura grazie a un turbolento matrimonio, si vede respinto per il suo marcato accento. Costretto a sbarcare il lunario facendo il tassista, è continuamente pressato dalle richieste di denaro della sorella e della madre nel suo villaggio in Nigeria. A un certo punto però da un articolo di una rivista Inke scopre l’esistenza di una particolare galleria d’arte in città, la Foreign Gods Inc., specializzata nel commercio di divinità esotiche, vendute a cifre astronomiche. E così il giovane uomo decide di trafugare e rivendere Ngene, la statua dell’antico dio guerriero del suo villaggio natio. E qui vi lascio...

Lars Saabye Christensen, BEATLES, Atmosphere, 2015 (traduzione di Alessandro Storti)
I Beatles, I Rolling Stones, Gli Animals, i Dave Clarck Five, Bob Dylan, Leonard Cohen, Jim Morrison tutti in un libro in cui ogni capitolo ha il titolo di una canzone del complesso di Liverpool. Il poderoso BEATLES del norvegese Lars Saabye Christensen non è una storia del rock, ma un avvincente romanzo di formazione che ripercorre a suon di musica gli anni Sessanta. Attraverso l’adolescenza di Kim, Ola, Seb e Gunnar che a quattordici anni sognano di avere una band simile ai Beatles e creano il gruppo The Snafus, nel quale ognuno adotta i nomi dei Fab Four, John, Paul, George e Ringo. La musica è la colonna sonora della loro crescita che si divide tra la scuola, la famiglia e i lunghi pomeriggi insieme, magari a collezionare gli stemmi rubati dai cofani delle auto. Siamo nel 1965, a Oslo, ma potremmo essere in qualsiasi paese europeo, perché, per la prima volta, c’è una musica che arriva in ogni luogo e sembra rimbalzare di ragazzo in ragazzo e non solo: “Mio padre disse che i Beatles erano diventati membri dell’Ordine dell’Impero Britannico per aver riequilibrato la bilancia commerciale inglese. E mia madre era del parere che Yesterday fosse molto carina, e che la regina Elisabetta sapesse sicuramente il fatto suo. Noi, arrabbiati e confusi, ci chiudemmo in camera mia. “C'è qualcosa che non quadra” mormorò Ola. “No-no-non mi piace quando ai nostri genitori piacciono le cose che piacciono a noi”. Il successo dei Beatles prevalica le generazioni, fa cantare e ballare fan di ogni età. Il romanzo di Christensen racconta bene questa follia collettiva, l’aura del successo mediatico che non conosce confini. E sembra che anche i ragazzi protagonisti partecipino di questa magia, mentre crescono e cominciano a sviluppare i loro sogni. Noi li seguiamo in campeggio, nei primi contrastati amori, nelle lotte quotidiane a scuola, nelle prime esperienze lavorative. Così facciamo anche una sorta di immersione vintage negli anni Sessanta, con i primi supermercati, le grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam, i dischi in vinile, le droghe, i viaggi in India, la voglia di cambiare davvero il mondo. Da una parte quindi il romanzo di Christensen può essere una sorta di tuffo nostalgico per chi quegli anni li ha vissuti. D’altra parte per un lettore adolescente è un’immersione incredibile in un’epoca irripetibile. Dove non si sente la mancanza di internet, del cellulare, dei pc tanto l’amicizia e la passione per la musica sono universali e non legati agli anni che si vivono.

Francesca Scotti, IL CUORE INESPERTO, Elliot, 2015
Quello che riesce a raccontare bene Francesca Scotti è il rapporto complesso tra maestro e allievo. Ed è quello che mi ha colpito maggiormente de IL CUORE INESPERTO, il suo nuovo romanzo. Dove ho ritrovato il suo talento narrativo, la scrittura raffinata e minimalista, la musica, il Giappone, i rapporti familiari impressi indelebilmente sulle pagine e poi sui lettori. Protagonista della storia è la fragile e insieme forte Anita, un talento e una passione per la viola, rapporti complicati con i genitori separati, un amico fraterno poco ascoltato, una vicina di casa invadente e amorevole. E poi c’è la musica, rifugio sicuro, ma anche motivo di ansia per le alte aspettative che quasi la divorano. Tutto il mondo di Anita sembra a un certo punto confluire in Gabriele, il suo nuovo insegnante al Conservatorio. L’incontro sembra catalizzare tutte le forze positive e negative di Anita. E anche di Gabriele, un presente di rimpianti e delusioni, la giovinezza di Anita quasi a rimproverargli e a risarcire quella che lui ha perso. Come vi dicevo è questo che Francesca Scotti sa rappresentare da vera scrittrice, senza percorrere facili strade narrative ma mantenendo sempre rispetto e onestà verso se stessa e i lettori. Al di là del rapporto più sessuale che sentimentale tra i due protagonisti, è infatti la relazione tra maestro e allievo, nella condivisione di un’arte, nello scambio di esperienza e vitalità, nel continuo ricorso tra passato e presente il valore di un romanzo che conferma le qualità non solo letterarie di Francesca Scotti.

Ian McEwan, LA BALLATA DI ADAM HENRY, Einaudi, 2014 (traduzione di Susanna Basso)
Non ho letto subito il nuovo libro di Ian McEwan. Ho aspettato perché lo scrittore inglese mi ha regalato delle letture magnifiche ma anche cocenti delusioni. Quindi ho approfittato che fosse in lettura a un gruppo, in modo da essere praticamente obbligata. Non so se sia stata la commistione delle due situazioni o probabilmente solo il fatto che McEwan è oltre ogni ragionevole dubbio uno dei pochi veri scrittori al mondo, LA BALLATA DI ADAM HENRY mi ha regalato una notte pressoché insonne e un dialogo notturno con un marito (per di più non lettore) che avrebbe dormito volentieri. E tutto quello che pensavo di trovarci, che avevo letto nelle recensioni, sentito da altri lettori, ce l’ho trovato, e anche molto di più. La trama è molto semplice, come spesso accade nei libri di McEwan, ma i protagonisti sono solidi, corposi, presenze che ti abitano e non ti lasciano più. La discussione al gruppo è stata molto lunga e vivace e alcune delle considerazioni che farò le devo agli altri lettori. Prima di tutto incontriamo Fiona, giudice cinquantenne dell’Alta Corte al Tribunale sezione famiglia, nella Londra dei giorni nostri. Donna definita «di divino distacco e diabolica perspicacia» si mostra nel suo lavoro equilibrata, vera, empatica, un talento, se così si può dire, nel saper giudicare. Poi incontra Adam, quasi diciottenne, il bisogno urgente di una trasfusione di sangue che lui e i suoi genitori rifiutano perché Testimoni di Geova. Fiona è chiamata a decidere in poche ore del suo destino. Dall’aula giudiziaria la storia si sposta alla vita privata di Fiona, al matrimonio in crisi, alla mancanza di figli (spesso sottolineata), alla passione per la musica. L’incontro con Adam però non rimane nell’ambito del lavoro. Ed è qui il centro vitale della storia. Adam crea una breccia, avvicina Fiona nel suo intimo e crea, come mai prima, un ponte tra il giudice dell’Alta Corte e la donna lasciata dal marito e impegnata nelle prove del concerto di Natale. E’ questo che McEwan racconta con precisione chirurgica, impendendo al lettore di rimanere indifferente, ma anzi caricandolo dei tanti sentimenti che entrano in gioco nella storia. Nabokov nelle LEZIONI DI LETTERATURA dice che il grande scrittore è soprattutto un incantatore. Qui ne avete un ottimo esempio.

Zdravka Evtimova, SINFONIA, Controluce, 2015 (traduzione di F. Sammarco)
Appena finito di leggere SINFONIA della scrittrice bulgara Zdravka Evtimova ho pensato che per fortuna non manca l’ironia in questo romanzo, a partire dal titolo. Perché le voci narranti non formano certo un’armoniosa sinfonia ma piuttosto un cacofonico grido di ribellione e denuncia. Che Zdravka Evtimova sia una grande scrittrice lo si capisce già dalle prime pagine, dove grottesco e violenza, tristezza e umorismo convivono fianco a fianco. E forse la sinfonia del titolo è piuttosto una polifonia di storie e di altrettanti registri narrativi. Perché se le protagoniste del libro sono quasi tutte donne, sono in realtà gli uomini che condizionano se non rovinano le loro esistenze. A parte Petar, afflitto da problemi psicologici, non c’è infatti un solo personaggio maschile positivo. Ma non pensate a un romanzo di impostazione femminista perché in realtà molti degli uomini della storia sono frutto di madri devastanti quanto loro. Ma una volta dentro le vite di Moni, ragazza grassa e ricchissima, della signora Aneva, bellissima e tristissima, della talentuosa D. e della disperata Nora, non riuscirete a uscirne. Un catalogo vivo e letterario di vite al femminile e insieme uno spaccato realistico della società bulgara. E non solo.

Alberto Cavanna, IL DOLORE DEL MARE, Nutrimenti, 2015
Un altro romanzo di mare e di vita di uno scrittore che amo molto e che in Nutrimenti ha trovato il suo porto sicuro. In realtà IL DOLORE DEL MARE è un romanzo di guerra e di isola ma, come sempre, Alberto Cavanna sa raccontare gli animi e la natura nella loro relazione più vera. La storia segue tre generazioni nella piccola isola ligure di Palmaria, dove sembra che il mondo intorno possa solo lambire i suoi scogli. In realtà non c’è luogo abbastanza nascosto per non essere toccato dall’assurdità della guerra. E dopo che Elvira ha perso dopo soli venti giorni di matrimonio il marito caduto nelle trincee del Piave, cresce il figlio Ermes con la speranza che possa uscire dall’isola grazie allo studio e alle sue capacità. Ma il fascismo e la prospettiva di una nuova guerra romperanno la serenità conquistata a fatica. Il valore del romanzo di Cavanna è nella precisa e partecipe descrizione della vita sull’isola. Della vita di chi non se ne è mai allontanato e obbedisce ai riti che sanciscono il lavoro, i ritmi della natura, i rapporti con gli altri isolani, il mare come ultima protezione verso il mondo esterno. Un libro duro e poetico insieme, che fa rivivere un mondo arcaico e moderno insieme, che esalta il ruolo delle donne, soldati della quotidianità, e sancisce l’ineluttabilità del male.

Maylis De Kerangal, RIPARARE I VIVENTI, Feltrinelli, 2015 (traduzione di Maria Baiocchi con Alessia Piovanello)
“Seppellire i morti e riparare i viventi”. Sta in questa frase, tratta da una piéce di Platonov, il magnifico romanzo di Maylis De Kerangal. Simon, diciotto anni, scivola sul suo surf all’alba e dopo un’ora è morto a causa di un incidente stradale. All’ospedale i suoi genitori devono decidere in poche ore se dare il consenso per l’espianto degli organi e in particolare del cuore. Il libro della scrittrice francese ci immerge nelle ventiquattr'ore in cui il cuore di Simon diventa quello di Claire, raccontandoci non solo le vicende che porteranno al trapianto ma soprattutto le implicazioni emozionali di un tale trasferimento. Ma paradossalmente il “cuore” del libro non è questo, ma nell’intensità vitale che Maylis De Kerangal riesce a trasmettere. Perché la scrittrice francese ci porta in equilibrio su una tavola da surf più che stesi su un tavolo operatorio. Riparare i viventi infatti è un libro che dà le vertigini, e sempre ti spinge a continuare a scivolare sulle sue pagine. Ed è impressionante come ogni personaggio, anche quelli che hanno un ruolo minore sono tutti portatori di emotività e senso. C’è un controllo sicuro e letterario delle parole tanto che De Kerangal spinge all’estremo le sensazioni del lettore e quando sembra stare per precipitare nel retorico, in un linguaggio troppo metaforico e raffinato, allora sa staccare appena in tempo, per prepararsi ad affrontare la prossima onda: “... gambe flesse e busto orizzontale quasi parallelo al surf, braccia aperte per stabilizzare l’insieme, e quello è decisamente l’attimo che Simon preferisce, quello che gli permette di afferrare tutto lo sfavillio della sua esistenza, e di addomesticare gli elementi, di fondersi col vivente, e una volta in piedi sul surf – in quell’istante si può valutare l’altezza dell’onda, più di un metro e mezzo -, amplificare lo spazio, allungare il tempo, fino alla fine della corsa consumare l’energia di ogni atomo di mare. Diventare onda, diventare flutto”. E sembra che la storia si possa raccontare solo così, senza punti, senza pause regolari, come il cuore malato di Claire o come il frenetico lavoro contro il tempo del personale sanitario. RIPARARE I VIVENTI offre tante letture e può essere tanti libri, quanti sono i suoi lettori. Che non devono esitare di fronte alla storia o al linguaggio travolgente ma invece seguire il flusso e prepararsi a rileggere il romanzo per rinnovare un’esperienza insieme emotiva ed estetica. Cosa ancora più sorprendente perché non siamo forse più abituati all’intensità che regala il talento letterario.

Fabio Genovesi, CHI MANDA LE ONDE, Mondadori, 2015
Non rimarranno delusi i tanti lettori di Fabio Genovesi, perché in CHI MANDA LE ONDE ritroveranno tutti i libri precedenti dello scrittore toscano. Ci sono la Versilia, il mare, le denunce contro le speculazioni e i soldi facili, lo sguardo malinconico e l’alternarsi di momenti esilaranti ad altri al limite del sentimentale se non commuoventi. Un racconto dettagliato, forse a volte troppo, ma è anche bello leggere un libro generoso e articolato, che ti lancia tanti fili che alla fine devi essere bravo a riannodare insieme. E’ difficile riassumere i tanti personaggi che Fabio Genovesi riesce ad orchestrare con abilità, a partire da Luna, la ragazzina albina che nonostante le difficoltà e la mancanza del padre, ha una vita ricca di sogni e uno spirito libero e giocoso. E’ lei l’elemento catalizzatore di tutte le vicende del romanzo e il punto di vista che Genovesi sceglie per la sua macchina da presa narrativa. Uno sguardo dal basso, che non è così solo grazie agli occhi dei bambini, ma anche dal basso delle speranza perdute del “dream team”, composto da tre quarantenni mai cresciuti, dalle esistenze comiche e drammatiche insieme. O dal basso della fame di denaro o del letto dove può inchiodarti un dolore intollerabile. Il romanzo di Genovesi ha anche il merito di raccontare l’Italia con grande lucidità e intelligenza, con uno sguardo insieme ironico e affettuoso.

Marco Parlato, TIROIDE, Gorilla sapiens, 2014
Prima di parlare del libro, un accenno alla casa editrice Gorilla sapiens che così si presenta: “Adoro l'ironia, ho un'ossessione per la corretta lingua italiana e un certo appetito per la distruzione delle categorie. Mi piace parlare di grandi sciocchezze come di questioni filosofiche di poco conto. I Gorilla sapiens sono fatti così! Sarà forse per via di quella storia dell'estinzione, che non ci fa dormire sonni tranquilli, ma nei momenti di veglia ci piace prendere la vita con leggerezza”. Ed è esattamente quello che troverete nei libri da loro pubblicati. Veniamo ora a TIROIDE di Marco Parlato. Appena l’ho iniziato mi ha ricordato un libro che ho letto diverse volte e sempre mi diverte: BASSOTUBA NON C’È di Paolo Nori. Anche qui uno studente universitario, Stefano affetto da ipertiroidismo. La malattia è il filo conduttore dei suoi rapporti con il resto del genere umano, a partire dall’ingombrante madre sino ai medici che lo curano. Senza dimenticare gli ex compagni di classe, i coinquilini con cui divide l’appartamento a Roma, librai e bibliotecari. Marco Parlato possiede la rara capacità di raccontare storie importanti con apparente noncuranza. Il testo scorre velocemente, gli eventi si rincorrono, i personaggi si passano il testimone, e alla fine rimane la netta sensazione di aver letto una voce autentica, scovata, supportata, curata da una piccola casa editrice di qualità. Speriamo che almeno questi gorilla non si estinguano!

Mario Benedetti, LA TREGUA, nottetempo, 2014 (traduzione di Francesco Saba Sardi)
La prima pagina di diario è datata 11 febbraio, l’ultima 28 febbraio dell’anno successivo. Dodici mesi che per il quarantanovenne Martin Santomé significano l’inizio dell’agognata pensione, il raggiungimento del mezzo secolo di età e un amore assolutamente inaspettato. Quello che mi ha colpito del libro, che ho trovato insieme accogliente e sconvolgente, è il mettersi a nudo del protagonista, l’alternarsi della cronaca della vita di un comune impiegato e insieme il diario di un’anima unica ma che nei suoi molteplici aspetti parla a ognuno di noi. L’irritazione che a volte ho provato leggendo è proprio perché mi sono ritrovata nei pensieri meschini del protagonista, nelle scelte egoistiche, nelle amare riflessioni, nel barcamenarsi tra la vita pubblica e i desideri interiori. E capisco come questo romanzo dello scrittore uruguaiano sia già considerato un classico. Non c’è una sbavatura nello stile e nella scrittura solo apparentemente colloquiale, e neanche nel restituirci un anno di vita di un uomo come tanti e nello stesso tempo unico. Come ognuno di noi.

Antonio Manzini, NON È STAGIONE, Sellerio, 2015
Da una parte è una certezza. Eccolo lì il vicequestore Rocco Schiavone, in equilibrio tra giusto e sbagliato, un segreto pesante che gli parla ogni volta che torna a casa, le clark regolarmente sfondate. Dall’altra la sorpresa di trovare Antonio Manzini sempre più bravo; non solo nel gestire un personaggio non certo facile, ma anche nel maneggiare una scrittura ricca e precisa, mai banale. Come i suoi gialli. Che piacciono molto non solo per le capacità investigative di Schiavone e il suo stare sempre in bilico tra legalità e illegalità, ma anche per tutto quello che Manzini riesce a metterci, dosando bene i vari ingredienti. Quindi rimaniamo legati alle vicende personali di Rocco e in particolare ai suoi rapporti con le donne; poi non sono mai scontati i riferimenti sociali, politici ed economici al nostro paese. Nel fare questo Manzini riesce a tenersi lontano da ogni facile semplificazione, dimostrando grandi capacità narrative ma anche un’intelligenza lucida ed ironica.

Patrick White, IL GIARDINO SOSPESO, Bompiani, 2014 (traduzione di Mario Fortunato)
“Un bambino, diceva Brodskij, è sempre e prima di tutto un esteta, perché reagisce alle apparenze, alle superfici, alle linee e alle forme. Ecco a quale categoria appartengono i due piccoli protagonisti del racconto. Essi riconoscono la bellezza della natura che li circonda nella sola maniera in cui gli esseri umani – quando non sono ancora dominati dalla volgarità – sanno fare, e cioè diventano parte integrante di quella bellezza”. Prima di immergersi nella storia dei quattordicenni Gilbert e Eirene, la prefazione di Mario Fortunato, che cura anche la traduzione, è il modo giusto per affrontare questo romanzo ritrovato di Patrick White, uno dei maggiori autori contemporanei, Nobel per la letteratura nel 1973. IL GIARDINO SOSPESO infatti ha una storia curiosa, che è una sorta di lungo romanzo che prelude alla vicenda vera e propria. E chiarisce anche il valore di un’operazione di recupero e valorizzazione che non lascia spazio alla superficialità o ad altri intenti se non quello di fare conoscere ai lettori un altro importante tassello della produzione dello scrittore australiano. Ambientato durante la seconda guerra mondiale, IL GIARDINO SOSPESO ci fa conoscere Gilbert, inglese e orfano in fuga dall'Europa devastata dalla guerra mondiale e Eirene, di madre australiana e orfana del padre, un partigiano comunista greco. I due ragazzini si ritrovano alla fine di un lungo viaggio, in Australia, affidati all’anziana vedova signora Bulpit, impettita e rigida, ma non indifferente al destino e ai sentimenti dei due adolescenti. Un romanzo originale e sentito, che sa raccontare il dramma della guerra e la fatica di crescere.

Sorj Chalandon, CHIEDERÒ PERDONO AI SOGNI, Keller, 2014 (traduzione di Silvia Turato)
TRADITORI 1 - “Ora che tutto è venuto allo scoperto, saranno loro a parlare al mio posto. L’IRA, i Britannici, la mia famiglia, persone a me vicine e giornalisti che non mi hanno nemmeno incontrato. Alcuni oseranno spiegarvi perché e per come sono arrivato a tradire. Forse su di me scriveranno dei libri e questo mi manda in bestia. Non ascoltate nulla di quel che diranno. Non fidatevi dei miei nemici, e ancor meno dei miei amici. Fuggite quelli che sosterranno di avermi conosciuto. Nessuno è stato dentro la mia testa, nessuno. Se oggi parlo, è perché sono l’unico a poter dire la verità. Perché dopo di me, spero nel silenzio”. Sono grata a Sorj Chalandon e alle edizioni Keller per l’ultimo romanzo letto nel 2014 e che balza nelle vette dei migliori dell’anno appena passato. La storia è quella di un traditore, ma anche molto di più. E’ la scioccante vicenda di un’intera esistenza in guerra, di un’infanzia dura e povera, sorretta dagli ideali di libertà. Tyone Meehan è un personaggio indimenticabile, eroe e antieroe insieme, un uomo di cui innamorarsi per la fede risoluta nella sua lotta, che non abbandona neanche a costo di immani sofferenze. Allora perché questo combattente per l’indipendenza dell’Irlanda, a un certo punto collabora con i Britannici? La risposta è nel romanzo e lo scrittore francese riesce a sublimare la letteratura per raccontare un’esistenza straordinaria, ma anche universale. CHIEDERO’ PERDONO AI SOGNI ha un ritmo perfetto, e crea tra personaggio e lettore un’empatia rara e preziosa. Un libro straordinario, dove la Storia con la S maiuscola affida alla letteratura la possibilità di essere narrata e compresa.

Amos Oz, GIUDA, Feltrinelli, 2014 (traduzione di Elena Loewenthal)
TRADITORI 2 - Ho subito letto il nuovo atteso libro di Amos Oz e mi trovo a misurarmi con un altro traditore. In realtà il traditore per eccellenza, Giuda, al centro della tesi del giovane Shemuel Asch, che decide di lasciare gli studi per le difficoltà economiche della famiglia. Siamo a Gerusalemme, nell'inverno tra la fine del 1959 e l'inizio del 1960. Shemuel viene anche lasciato dalla sua ragazza, Yardena, che decide di sposare il suo precedente fidanzato, e così non esita a rispondere a un annuncio nella caffetteria dell'università dove vengono offerti alloggio gratis e un modesto stipendio a uno studente di materie umanistiche che sia disposto a tenere compagnia, il pomeriggio, a un anziano disabile di grande cultura. Da qui iniziano i quattro mesi di convivenza di Shemel con Gershom Wald, e le conversazioni che spaziano dalla letteratura alla religione, e al destino di Israele. “Chi è pronto al cambiamento, disse Shemuel, chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento e hanno una paura da morire del cambiamento e non lo capiscono e hanno disgusto di ogni cambiamento. Shaltiel Abrabanel aveva un bel sogno, e per quel sogno lo hanno chiamato traditore”. Lascio a voi poi il resto della trama, che secondo me è funzionale a quello che Amos Oz ci vuole raccontare del suo paese, della nascita dello stato d’Israele, delle guerre, dei rapporti con il mondo arabo. E’ questo il fulcro del racconto, che spesso vira sulla riflessione politica, filosofica, storica. Al romanzo è lasciata la rappresentazione delle esistenze comuni, del dolore, dei sogni infranti, del difficile rapporto tra lo Stato e il singolo.

Pasi Ilmari Jaaskelainen, LA SOCIETÀ LETTERARIA DI SELLA DI LEPRE, Salani, 2014 (traduzione di Marcello Ganassini)
Se non mi fosse stato segnalato da un amico di cui mi fido, non credo avrei letto il romanzo dello scrittore finlandese. Temevo fosse uno degli innumerevoli titoli con protagonisti i libri per irretire gli ingenui amanti della lettura e che fosse quindi pieno di banalità e frasi scontate. Invece è stato una piacevole sorpresa e una lettura perfetta per i giorni natalizi. Perché ti porta in un mondo fantastico, ma nello stesso tempo incredibilmente e quasi violentemente reale. Perché Jaaskelainen sa sfruttare bene una bella idea, tenendo il ritmo sempre alto e impedendo al lettore di staccarsi dalle pagine. Perché alla fine quello che dice dei libri, a partire dalla loro pericolosità, è intensamente vero e nessuna banalità sfiora una trama ben congegnata dove la lettura è raccontata nelle sue varie sfaccettature. Non esitate quindi a immergervi nel gelido clima di Sella di Lepre dove esiste una società letteraria che ha regalato ai suoi nove soci il successo. Reclutati sin da bambini da Laura Lumikko, famosissima autrice per bambini, i nove scrittori sono legati da un legame fortissimo, che prevede anche un pericoloso e misterioso “Gioco” della verità. Quando a sorpresa viene ammesso un nuovo membro alla società, scompare improvvisamente Laura Lumikko. Da qui si susseguono avventure, colpi di scena, classici che misteriosamente si ritrovano cambiati, una bibliotecaria che brucia gli strani mutanti e un finale davvero a sorpresa.

Sonali Deraniyagala, ONDA, Neri Pozza, 2014 (traduzione di Chiara Brovelli)
“Ho il sospetto di poter mantenere la mia stabilità, mentre attraverso questo mondo privo della mia famiglia, solo quando ammetto che loro sono reali, e che lo sono anch’io”. La vacanza del Natale 2004 in Sri Lanka è per Sonali la morte di una parte di se stessa. Infatti solo lei sopravvive allo tsunami che si porta via i suoi due bambini, il marito e i suoi genitori. Come si può sopravvivere a un lutto così devastante? Sonali Deraniyagala ci racconta i suoi dieci anni da superstite, a partire dalle ore del disastro, sino al suo trasferimento a New York, che paragona a una sorta di programma di protezione testimoni. Non ci viene risparmiato nulla, come è giusto che sia, ma è comunque impressionante la capacità della scrittrice di raccontare il dolore. E di come da una storia vera nasca una grande opera letteraria. Per chi ha amato L’ANNO DEL PENSIERO MAGICO di Joan Didion e VITE CHE NON SONO LA MIA di Emmanuel Carrere.

Annie Goetzinger, LA RAGAZZA INDOSSAVA DIOR, Bao, 2014 (traduzione di F. Savino)
"La costruzione di un vestito di Christian Dior incastona il corpo di una donna come l'oro fa con una pietra preziosa... Il 12 febbraio 1947 è la sola rivoluzione con la data precisa nella storia della moda, il giorno del suo primo défilé. Come tutti i grandi stilisti, è ancora influente. Si 'declina', si 'rende omaggio'... Succede nella moda e in molti altri campi, in fondo. I miei modelli preferiti? Amo l'insieme della sua forza creativa: si può amare una tela in particolare di un pittore, ma un tailleur?". Un romanzo per immagini che celebra le donne, l’eleganza, una stagione indimenticabile della moda e non solo. Un libro da regalare e regalarsi per essere immersi nella bellezza. La Parigi-bene infatti si ritrova in Avenue Montaigne all’inizio del 1957 per assistere alla prima sfilata di un certo Christian Dior. Spalle arrotondate, figure slanciate, lunghe gonne a corolla. Il "New Look" consacra il geniale stilista. Attraverso gli occhi di Clara, giovane giornalista di moda, poi modella, Annie Goetzinger ci guida nel cuore della maison Dior, divenuta quasi immediatamente emblema dell'eleganza parigina. E lo fa grazie a un’accurata ricostruzione storica e culturale, con grande raffinatezza e leggerezza. Dimostrando come non esistono storie che i graphic non possano raccontare.

Peter Ackroyd, CHARLIE CHAPLIN, ISBN, 2014 (traduzione di Francesca Valente)
Diciamo che in questo libro si incontrano due geni. Uno chiaramente è il grande regista e attore, ma il libro varrebbe anche solo per chi lo ha scritto, il grande Peter Ackroyd, biografo di Shakespeare ma anche di una città, Londra, che nessuno ha saputo raccontare come lui. E anche qui non smentisce le sue acute capacità di indagine ma anche di empatia e narrative e ci restituisce appieno la complessità della figura di Chaplin. La lettura accontenta il conoscitore più raffinato di Chaplin e chi invece conosce poco della sua vita e della sua carriera cinematografica. Ed è anche un racconto appassionante e preciso della nascita del cinema. Da leggere e rileggere, magari guardando con occhi diversi i film di Charlie Chaplin.

Afro Somenzari (a cura di), FUOCO FUOCHINO 3, fuocofuochino edizioni, 2014
Una rivista? Un’antologia? Un gioco letterario? Difficile dire cosa sia FUOCO FUOCHINO, pubblicato dalla casa editrice più povera del mondo. Molto più facile è leggerlo e diffonderlo il più possibile. Come ha scritto Gino Ruozzi nell’introduzione alla prima raccolta, FUOCO FUOCHINO è “un piccolo segno di vita di una letteratura del tutto gratuita, un omaggio alla meraviglia della scrittura. Nasce da un’intuizione di Afro Somenzari, dai suoi rapporti di amicizia, dal desiderio di riunire amici a una comune tavola letteraria. Un gesto gratuito di scrittori che hanno voluto regalare ad Afro e alla sua minuscola neonata casa editrice racconti, poesie, pensieri. Per amore della letteratura, per amore dell’amicizia, per amore di fare e di offrire qualcosa fuori dai circuiti mercantili”. In questo terzo volume tra gli altri hanno scritto Don Bachy, Paolo Albani, Hans Tuzzi, Paolo Colagrande, Valerio Magrelli. Diciamo che è un bel regalo da fare e soprattutto da farsi. E offre la possibilità di scoprire o riscoprire autori che regalano ad Afro delle vere e proprie perle. Come potrò guardare con indifferenza il burrocacao dopo aver letto il racconto di Simonetta Gilioli? Come farò a non sorridere incrociando gli operai di un cantiere, a cui Camillo Cuneo attribuisce gli esilarantio star-falcioni? E chi, se non Don Bachy, poteva scrivere 'Figli delle stelle'? E che dire dei 'Dieci comandamenti per l’uso della bellezza' redatti da Roberto Barbolini? Andrebbero appesi ovunque, dalle fermate degli autobus alle scuole, dai ristoranti agli uffici postali. Come anche, in ogni libreria e biblioteca, 'I tredici epigrammi letteroidi' di Antonio Castronuovo a cui affido la chiusa della recensione:

    Tra mattoidi, scienze anomale e libri inesistenti
    Ci ha indotto a pensare lo scrittore Paolo Albani
    Ch’esiste una letteratura che vive di altrimenti
    E tutto il resto, forse, è calligrafia da scalzacani.

Charles Lambert, OCCASIONI DI MORTE, Voland, 2014 (traduzione di Isabella Zani)
OCCASIONI DI MORTE è stato per me già dalle prime pagine un libro disturbante. Ammetto anche di non amare ultimamente romanzi che raccontano il nostro Paese. Dopo essermi lamentata che gli scrittori italiani non sanno rappresentare il presente, adesso provo fastidio per chi invece ci riesce magnificamente? Diciamo che non avrei pensato di leggere questo libro se non fosse stato pubblicato da Voland. E poi una volta iniziato, non solo non ho potuto smettere di leggere, ma anche di pensarlo. La mia mente ci tornava continuamente, tanto che assistevo a un dialogo surreale tra due “me” che discutevano del libro con considerazioni spesso opposte. Ma non vi ho raccontato tutto questo perché vi preoccupiate della mia salute mentale, ma perché non so spiegare altrimenti l’effetto che mi ha fatto OCCASIONI DI MORTE. In sostanza: è da leggere? Assolutamente sì. Per tanti motivi. Perché racconta una stagione dolorosa e mai metabolizzata della nostra storia recente. Perché è un racconto sentito e spietato sul passaggio dal sogno rivoluzionario alle comodità alto borghesi; perché ritrae una Roma non solo politica, ma anche sociale e culturale. Perché riflette sull’amore e su come vediamo le persone di cui ci innamoriamo. Perché è un romanzo politico, ma anche sentimentale. Uno spaccato doloroso, ma vero del nostro Paese, scritto da uno scrittore inglese, da anni residente in Italia. Davvero bravo.

Claudio Panzavolta, L’ULTIMA ESTATE AL BAGNO DELFINO, ISBN
Chi, come me, ha passato molte estati a Casalborsetti, non può non apprezzare L’ULTIMA ESTATE AL BAGNO DELFINO. In realtà non è necessario conoscere la riviera romagnola per godersi questo viaggio nel tempo che dal 1988 ci porta all’aprile del 2014. Per scoprire cosa ne è stato di Corrado, Monica, Michael, Fabio e Antonino, Alessio, Giulio, Jenny. Claudio Panzavolta sembra raccontare con una cinepresa 8 millimetri per portarci alle estati da adolescenti con i primi amori, i giochi, le rivalità, le amicizie, le piccole grandi tragedie di quando si hanno quindici anni. Ci sono quelli che affittano le case tutta la stagione, i padri del fine settimana, chi invece vive al mare tutto l’anno (beati loro! Ma è così?), chi non ha abbandonato il piacere della conquista nonostante i settant’anni suonati, chi gioca a carte quasi tutto il giorno. E poi gli ombrelloni prenotati da anni, con il nome scolpito sopra, i bagnini indolenti e distratti, le ragazze straniere, dal fascino esotico, le sfide, gli scherzi anche crudeli, lo strappo sempre più netto con il mondo degli adulti. Anche qui un lutto, un fatale incidente, incide a vivo una linea di demarcazione. Non ci sarà più una stagione così, ma soprattutto nessuno, adulto o ragazzo che sia, sarà uguale a prima. E solo il futuro mostrerà chi è rimasto più segnato dall’ultima estate. Bellissima la copertina.

Mario Pistacchio e Laura Toffanello, L’ESTATE DEL CANE BAMBINO, 66thand2nd, 2014
Un romanzo che sa ingranare le marce giuste. Sarà perché ho sempre dei problemi con il cambio, ma appena ho letto il libro d’esordio di Pistacchio e Toffanello ho pensato subito che riesce dove io, alla guida, fallisco spesso. Ha infatti un passo fluido, gioca sugli indizi, ma non anticipa troppo, crea tensione e sa mantenerla, tiene in equilibrio con mano ferma tragedia e commedia. Sa infatti raccontare le dinamiche di un paese di provincia, in questo caso vicino a Chioggia, riporta alla mente cosa voleva dire essere ragazzi negli anni ’60, con i lunghi pomeriggio estivi passati con il gruppo, quanto mai variegato e spesso improponibile, le partite di pallone, il mito dei grandi calciatori, le prime attrazioni sessuali. E poi i rapporti con gli adulti, il parroco, la levatrice, i luoghi proibiti, la tana, ricavata in una vecchia trincea, i genitori avari di gesti d’affetto, l’amicizia sopra tutto e tutti. E come un fatto, in questo caso la scomparsa di un bambino, scoperchi la patina di normalità, centrifughi teste e cuori di tutta la comunità e inneschi reazioni a catena che sembra impossibile fermare. Alla fine sono i più giovani quelli che rimangono sul campo. Un romanzo di formazione con un’atmosfera e un ritmo che ricordano l’Ammaniti di TI PRENDO E TI PORTO VIA e MAL’ARIA di Eraldo Baldini.

Radhika Jha, CONFESSIONI DI UNA VITTIMA DELLO SHOPPING, Sellerio, 2014 (traduzione di Alfonso Geraci)
Posso capire i motivi per cui a Sellerio hanno scelto di cambiare il titolo, ma io avrei lasciato MY BEAUTIFUL SHADOW, perché CONFESSIONI DI UNA VITTIMA DELLA SHOPPING dà al libro un tono frivolo, che assolutamente non ha. Anzi, è un libro insieme ironico e drammatico. Non fatevi quindi fuorviare. E’ vero che si parla di shopping, di abiti firmati, gioielli, negozi esclusivi, ma il romanzo della scrittrice indiana è una feroce critica sociale e un ritratto desolante se non drammatico della vita di una giovane donna. Da una parte un tono ironico, che racconta di un club insieme esclusivo e universale. Dall’altra una vita vuota che solo gli abiti riescono a ravvivare. Ma non perché appartengono al mondo del lusso o appaghino la vanità della protagonista o la facciano sentire ammirata e corteggiata. Ma perché la giovane donna riesce a trovare solo lì il piacere che dà la bellezza. Questo è secondo me il senso del romanzo e quello che riesce a raccontare con grande profondità: abbiamo bisogno della bellezza e se non c’è nel luogo in cui viviamo, se non riesci a incontrarla nell’amore o nel tuo lavoro, se non riesci ad assorbirla dall’arte o dalla natura, allora puoi trovarla negli abiti. E gli abiti di qualità sono belli, ricercati, preziosi, delle opere d’arte.

Hans Tuzzi, IL MONDO VISTO DAI LIBRI, Skira, 2014
“... vidi, nello scoscendere dei secoli, morti disastri e ferocie scatenati dal sonno della ragione, e, fra stragi e guerre, prepotenze e ingiustizie, fra incerti progressi e mai facili conquiste, l’Uomo, nudo, piccolo, spaurito, molteplice, confuso e talvolta inconsapevole debitore a quanti, appunto, mai fra ignavia e orrore ammainarono il vessillo dell’intelligenza, del raziocinio, della scienza, dell’arte. Nella tradizione occidentale, forse nessun oggetto meglio del libro compendia in sé questi valori, riassumibili nella parola civiltà, o quantomeno nella parola cultura... Mi resi conto che le voci di questo personale abbecedario, allora in parte già scritte, vogliono dire anche questo: essere stato, il libro, lievito di civiltà presente e attivo persino nei momenti più tragici del nostro cammino di specie.” IL MONDO VISTO DAI LIBRI è un dizionario letterario ed etico, uno spaccato di storia dell’umanità che mette in luce la cultura curiosa e molteplice di Tuzzi, ma anche il suo pensiero lucido e partecipe sugli accadimenti umani, dalle guerre alle conquiste scientifiche, dalle devastazione alle incredibile scoperte. Un piccolo e prezioso scrigno di libri, storie, personaggi, curiosità, colpi di scena, che spaziano dalla botanica alle legature, dalla rivoluzione francese a Ian Fleming, creatore di James Bond, ma anche appassionato bibliofilo. Un divertissement raffinato ed empatico che si rivela via via una profonda riflessione sulla natura umana. Grazie a una scrittura precisa, ma mai didattica, e a un tono divertito e partecipe, lo scrittore e studioso milanese sfata molti luoghi comuni legati alla bibliofilia e permette anche al più ignaro lettore di mettere il naso nel mondo del collezionismo librario. Così, senza quasi accorgersene, si scopre che cos’è una legatura e come si misura il grado di rarità di un libro, ma anche che dobbiamo a una donna un libro fondamentale sugli insetti o che Ian Fleming, tra le sue grandi passioni, vino, donne, avventura, aveva anche i libri di ornitologia. Non bisogna quindi pensare a un puro gioco di erudizione: certo si respira sempre la precisa e affettuosa competenza che fa di Hans Tuzzi, o meglio di Adriano Bon, il suo vero nome, uno dei maggiori bibliofili italiani oltre che un raffinato e profondo studioso di libri e letteratura, ma traspare anche l’ironia e la capacità narrativa che molti hanno apprezzato nei gialli con protagonista Norberto Melis. IL MONDO VISTO DAI LIBRI è una sorta di monopoli con tante partenze e infiniti arrivi. Si può non rispettare l’ordine alfabetico e cominciare la lettura da soggetti, luoghi personaggi che ci attirano di più. E all’interno del libro sono tanti i fili che si possono seguire e le letture che ne derivano. Perché attraverso i libri rari, perduti, ritrovati, catalogati, smembrati, collezionati, odiati, desiderati, si snoda la storia d’Europa ma anche di Zanzibar e insieme la microstoria di personaggi comuni e dei tanti luoghi, cibi e oggetti, non solo legati ai libri, che Hans Tuzzi riesce a collocare, ognuno al suo posto, nel suo teatro letterario. Alla fine gli rubiamo anche le parole per disporsi alla lettura del suo libro: “... Calma, accendiamo il fuoco nel camino – in questi casi è sempre una sera d’autunno, vero?, di quelle che richiedono una cena saporita e un gran vino d’annata – accendiamo un buon sigaro Partagas e...”.

Ella Berthoud e Susan Elderkin, CURARSI CON I LIBRI. RIMEDI LETTERARI PER OGNI MALANNO, Sellerio, 2013 (a cura di Fabio Stassi, traduzione di Roberto Serrai)
Lo so, ci ho messo un po’. Siccome detesto la libro terapia, il titolo CURARSI CON I LIBRI, mi aveva subito infastidito. Poi però è un libro Sellerio, e per di più curato da quel bravissimo narratore e bibliotecario che è Fabio Stassi. Così ogni tanto ci incappavo, aprivo a caso le pagine e trovavo sempre indicazioni interessanti e anche molto ironiche. Finché ho deciso di dedicargli una giornata e ne sono uscita completamente convinta. Alla fine non è un libro terapeutico. Al contrario. Perché aggrava con grande efficacia la malattia della lettura. Bibliotecari e librai dovrebbero tenerlo sempre sottomano e così non saranno mai impreparati di fronte a qualsiasi richiesta di consiglio. Non voglio però raccontarvi troppo perché basta andare sul sito sellerio nella sezione dedicata al libro, per potersi scambiare commenti, aggiungere libri e segnalazioni, per fare sempre più propria la “cura”. E non fate come me che mi sono trascritta le pagine che più mi interessavano con i vari disturbi e i divertenti elenchi “I migliori dieci libri per...”, perché a Sellerio hanno pensato a tutto: alla fine ci sono ottimi sommari...

Ingrid Noll, TUTTO SOLO PER ME, Astoria, 2014 (traduzione di Barbara Graffini)
Quando ho visto che Astoria riproponeva in Italia i libri di Ingrid Noll, ho cominciato a sorridere ricordando il gruppo di lettura di San Giorgio alle prese con IL GALLO E’ MORTO nel 1996. Era stato pubblicato da Mondadori, tra l’altra con una veste molto curata e io mi ero divertita tantissimo. Lo trovo uno dei libri più spassosi che ho letto, molto catartico perché verrebbe davvero voglia di fare fuori quelli che ti si mettono di traverso, come fa la protagonista. Questa non zitella che pur di avere, proprio nel senso di possedere, l’uomo di cui si invaghisce, non esita a eliminare, proprio nel senso definitivo, chi si mette, per lo più donne, sulla sua strada. In Germania Ingrid Noll è amatissima, sempre in testa alle classifiche di vendita, mentre in Italia è stata praticamente ignorata. Tanto che Mondadori l’aveva subito abbandonata. Tornando al gruppo di lettura di San Giorgio, quella sera mi guardarono tutte schifate. Erano addirittura scandalizzate. Ora Astoria lo ripropone con una nuova traduzione, un nuovo titolo e sono curiosa di vedere se dopo vent’anni i lettori italiani sapranno apprezzare questo umorismo nero e politicamente scorretto. Io spero di sì!

Howard Jacobson, PRENDETE MIA SUOCERA, Bompiani, 2014 (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra)
Il nuovo romanzo di Howard Jacobson merita anche solo per il primo capitolo, dove lo scrittore protagonista incontra un agguerrito gruppo di lettura e poi “libera” da una libreria il suo primo romanzo. Comincerete a ridere e non vi fermerete più. Come sempre politicamente scorretto, intelligente ed estremamente liberatorio, lo scrittore inglese parte da una circostanza non certo rara: innamorarsi cioè della madre della propria moglie. Con un elogio lusinghiero per le ultrasessantenni (che se sono state brave a tenersi sono meglio delle trentenni) che non possono che ringraziare e un’acuta analisi del matrimonio. Senza però farci mancare i pungenti riferimenti politici e sociali a cui ci ha abituato e frecciatine più o meno garbate al mondo dell’editoria e anche ai lettori: “Fremeva di rabbia, quella rabbia che capita di incontrare solo nei lettori. Come attività 'civile' era ormai superata, forse per questo le ultime persone che ancora la praticavano si infuriavano così tanto ad ogni pagina voltata. Si trattava dell’ultimo parossismo prima del decesso?”.

Maja Haderlap, L’ANGELO DELL’OBLIO, Keller, 2014 (traduzione di Franco Filice)
Ci sono romanzi che subito sulla soglia della lettura ti accolgono. Ti metti comoda e ti senti a casa. Anche se raccontano di baite sperdute tra le Alpi della Slovenia, di fredde giornate passate nell’orto e ad accudire gli animali, di un padre distante e temuto e di una madre umorale a causa dell’instabilità del marito. E poi le voci, i racconti che sempre evocano la guerra, i campi di concentramento, chi non è tornato e chi invece ha potuto rivedere il suo paese. E raccontano di chi si è unito ai partigiani o ha tentato di scappare. Dell’incredulità di fronte alla violenza, spesso esercitata contro anziani e bambini. E su tutto il non capire perché e come è accaduta questa tragedia quasi innominabile nella sua immane sofferenza. Quello che riesce a fare Maja Haderlap è raccontare insieme, anzi strettamente intrecciate, la vita singola e quella collettiva, la storia personale e quella con la S maiuscola. Con un stile apparentemente colloquiale, affidato a una bambina piena di sogni e di speranza. In realtà L’ANGELO DELL’OBLIO è un grande romanzo corale che rende omaggio all’angelo della memoria, per non dimenticare la sofferenza, ma anche la solidarietà di una piccola comunità gravemente ferita.

Andre Dubus III, LA CASA DI SABBIA E NEBBIA, BEAT, 2014 (traduzione di Luciana Crepax)
Nella mia ignoranza cinematografica, scopro che molti conoscono il romanzo di Andre Dubus III dal film che ne è stato tratto. Io me lo sono portata in vacanza perché avevo amato le atmosfere cupe di I PUGNI NELLA TESTA e ho approfittato della riedizione Nutrimenti Beat perché, naturalmente, non ho trovato in casa quella del 2004. Letto a Pantelleria davanti al mare è stato perfetto. Una tensione emotiva crescente e la sensazione che potrebbe essere stato scritto adesso e non nel 1999. Una casa sull’oceano in cima a una collina a San Francisco diventa infatti l’occasione per raccontare le vite di Kathy e Massuod che se la contendono, ognuno alla ricerca di un modo per sopravvivere. Tra i due si scatena una battaglia giuridica ma soprattutto psicologica che avrà conseguenze drammatiche. Perché la casa è per Kathy il passato e la possibilità forse di avere un nuovo amore e per Massuod, generale iraniano fuggito in seguito alla rivoluzione di Kohmeini, un nuovo futuro per la sua famiglia. Una desolante guerra tra poveri, segnata dal dolore e dall’ingiustizia.

Zadie Smith, PERCHÉ SCRIVERE, Minimum fax, 2011 (traduzione di Marina Astrologo e Martina Testa)
E’ proprio vero che sono i libri a trovarti. Messa a soqquadro la sezione di critica letteraria per cercare un libro che naturalmente non ho trovato e ho poi preso in biblioteca, mi salta fuori il piccolo saggio di Zadie Smith, che io considero uno dei più grandi critici contemporanei. Era quello che mi serviva per chiarirmi alcune questioni essenziali, per darmi da pensare e anche un’opportuna ridimensionata sul mio lavoro. Lascio a voi la lettura, non ve ne pentirete e riporto solo uno dei tanti punti che mi sono segnata: “I lettori che procedono per sistemi creano scrittori che procedono per sistemi, scrittori capaci di spacchettarti davanti il proprio romanzo, indicare i vari temi, il sottotesto; qui il problema della razza, lì il dibattito sul genere. In mente hanno i supplementi letterari della domenica e la loro prosa è irta di agganci, bell’e pronta per una discussione generale, perfetta per un paginone centrale. Ma che dire, invece, di quei romanzi che non si prestano così facilmente a discussioni pubbliche generali? A volte si ha l’impressione che le qualità che lettori e critici più desiderano trovare nei romanzi siano quelle antitetiche alla scrittura di un buon romanzo”.

Miki Bencnaan, IL GRANDE CIRCO DELLE IDEE, Giuntina (traduzione di Anna Linda Callow)
Nei meccanismi perversi della lettura, tutte le volte che vedo un titolo con 'circo' penso a uno dei libri più straordinari che ho letto, IL CIRCO DELL’ARTE E DEL DOLORE di Gudrun Minervudottir. Questa volta l’accostamento per così dire circense tra il romanzo quasi distopico della scrittrice islandese e questo della Bencnaan, alla fine non si è rivelato così assurdo, perché ho ritrovato quella commistione riuscita ed efficace tra realtà e irrealtà, dove spesso il reale supera la fantasia. Già dalla scena iniziale entriamo al centro del tendone del circo letterario della scrittrice israeliana: in una casa di riposo a Gerusalemme vengono ritrovate morte due anziane, forse vittime della vecchia stufa a gas. Fin qui niente di strano, se non che le due donne sono vestite una con un costume da elefante e l’altra con un lezioso vestitino da bambola. Inizia così un viaggio che porterà il lettore da Israele alla Germania, da Roma a Buenos Aires, seguendo gli spostamenti dei protagonisti. Fino a un finale che riallaccia tutti i fili e chiude, con l’ultima e più incredibile magia, lo spettacolo. Ma al di là della capacità di sorprendere, di giostrare sapientemente i personaggi, di usare una lingua scorrevole, ma sempre ricca e precisa, colpiscono l’intelligenza e la capacità analitica della Storia e della realtà di Miki Bencnaan. Il libro meriterebbe di essere letto anche solo per come vengono raccontate la vecchiaia e la morte. “E’ mai possibile che per capire il mondo tu debba prima subire un danno? Possibile che il corpo debba tradirti, i tuoi denti cadere, i tuoi capelli diventare bianchi e radi, il tuo stomaco respingere i cibi che più ami, il tuo cuore essere colto da spasimi e inviare al cervello la notizia della fine imminente? Davvero è necessario che gli occhi del tuo prossimo ti guardino con distanza, estraneità, compassione, ripulsa, perché sei spezzato e nient’altro che un’entità aliena, priva di ogni conoscenza? Davvero otterrai di comprendere la vita fino in fondo solo quando non sarai più in grado di trasmettere questo sapere a nessuno?”. La comprensione del mondo ti si apre davanti quando stai per morire o quando sei una scrittrice straordinaria come Miki Bencnaan, capace di capire e trasmettere il senso della vita.

Jillian Tamaki e Mariko Tamaki, E LA CHIAMANO ESTATE, Bao (traduzione di Caterina Marietti)
Provvidenziale il titolo di questo libro per questo clima di una fine estate che però non è mai cominciata... Ma al di là dei miei patemi metereologici ecco un altro magnifico graphic che ci regala Bao. E non certo solo per adolescenti. Anzi, sì per adolescenti di tutte le età. Perché anche se siete maggiorenni da tempo non potrete non ritrovarvi nella storia di Rose, quattordici anni, che attende con ansia l’estate per rifugiarsi ad Awago Beach, il familiare luogo di villeggiatura in cui passa l’estate sin da bambina. Ma che sia una spiaggia americana o la riviera adriatica, i sentimenti sono gli stessi e i cugini Tamaki sono bravissimi nel raccontarli, in particolare con delle immagini così vive che sembrano uscire dalle pagine. Poi l’intelligenza con cui racconta il passaggio dall’infanzia all’adolescenza e come questo regali uno sguardo che rende tutto diverso. Nel bene e nel male. Queste sensazioni sono poi amplificate dal confronto tra le eterne amiche estive, Rose che comincia a sentirsi turbata da un ragazzo più grande e ferita dalle liti tra i genitori e Windy, un anno, ma sembra ora una vita, in meno, la cui unica infantile preoccupazione rimangono il cibo e i film dell’orrore. Ma tanto non riesco a trasmettervi a parole la ricchezza di queste magnifico libro, che è riuscito anche a consolarmi dell’estate mancata.

Barbara Pym, AMORI NON MOLTO CORRISPOSTI, Astoria (traduzione di Bruna Mora)
Non ho resistito. Ho pile di libri da leggere a casa, il kindle pieno, sto lavorando a non so quante bibliografie contemporaneamente, ma quando ho intravisto in biblioteca AMORI NON MOLTO CORRISPOSTI l’ho subito gaffato (si dice? boh, ma avete capito). Perché Barbara Pym è Barbara Pym, perché i libri di Astoria sono una certezza, perché la storia è ambientata negli anni ’50, perché la protagonista ama leggere e fa la correttrice di bozze. Perché dopo tante avventure c’è un lieto fine, ma non scontato. Quindi l’ho anche letto subito. La storia gira intorno a una vecchia casa, abitata da Dulcie, zitella predestinata. Tenete conto che stiamo parlando di donne sui trent’anni... Dopo un noioso convegno sui mestieri editoriali, Dulcie ospita Viola, sua coetanea e collega e la nipote diciannovenne, venuta a Londra per frequentare un corso da segretaria. Le vicende lavorative e sentimentali delle tre donne si intersecano, anzi si scontrano e complicano. Dimenticavo, non ho privato per molto gli altri lettori, perché dopo due giorni l’ho restituito.

Janne Teller, IMMAGINA DI ESSERE IN GUERRA, Feltrinelli (traduzione di Maria Valeria D’Avino)
Intanto il nuovo libro dell’autrice di NIENTE, colpisce per la veste grafica, che è esattamente quella di un passaporto. Poi il titolo spiega tutto. In realtà anche se naturalmente è assai scoperto l’intento di ribaltare le prospettive e raccontare cosa succede a una famiglia italiana che è costretta a fuggire dall’Europa per trovare la pace in terra africana, il racconto risulta quanto mai autentico e verosimile. I particolari, le immagini, i luoghi, le situazioni, tutto vi porterà a fare questo viaggio della speranza in cerca di una vita accettabile. Jane Teller riesce in poche pagine a trasmettere il senso di smarrimento e perdita dell’identità che colpisce chi deve lasciare il proprio paese a causa della guerra. Un libro da leggere, far leggere, discutere e diffondere il più possibile.

Julia Glass, TRE VOLTE GIUGNO, Beat (traduzione di Caterina Barboni e Giovanna Scocchera)
Un romanzo familiare nel senso più profondo del termine perché dopo poche pagine anche voi farete parte della famiglia scozzese dei McLeod e vi sposterete con loro dalla Scozia alla Grecia sino a New York. Non sto a raccontarvi le vicende dei protagonisti, raccontati attraverso tre estati nell’arco di dodici anni, step del calendario che segnano profondamente le esistenze dei componenti della famiglia. Quello che colpisce del romanzo d’esordio di Julia Glass, premiato nel 2002 dal National Book Award e tradotto in Italia da Nutrimenti che ora lo ripropone nell’economica Beat, è la capacità di raccontare la quotidianità senza incorrere in facili catalogazioni. Il figlio gay, la coppia che non riesce ad avere figli, quella che invece li esibisce sfacciatamente, il matrimonio dei genitori, la speranza di rifarsi una vita, il peso della vecchiaia, il desiderio di lasciare la propria eredità lavorativa sono rappresentati con un lucido realismo che non scade mai nella banalità. E quello che all’inizio sembra un’eccessiva preoccupazione per tanti particolari, dagli aspetti naturali, al cibo, dai gesti comuni agli animali, serve invece via via a comporre il quadro delle vite narrate.

Marie-Aude Murail, CRACK! UN ANNO IN CRISI, Giunti (traduzione di Federica Angelini)
Ammetto che sulla Murail non sono del tutto obiettiva perché praticamente la venero. Non mi ha mai delusa e anche in questo CRACK! UN ANNO IN CRISI ho ritrovato tutti i motivi per cui la adoro. E soprattutto la capacità di raccontare ai ragazzi, ma non solo, la straordinaria quotidianità della vita. E di illuminare con le sue storie, senza pedante moralismo o ostentato clamore, i grandi temi esistenziali con cui ci troviamo a convivere. Dalla perdita dei genitori alla malattia di OH, BOY!, dall’invalidità psichica di MIO FRATELLO SIMPLE alla scuola di CECILE sino al magnifico MISS CHARITY, romanzo di formazione senza età. In questo ultimo romanzo si concentra sul lavoro e sul labile confine tra quello che siamo disposti a fare per lavorare. Le descrizioni delle situazioni lavorative dei genitori di Charline, 14 anni e lettrice famelica di manga, colpiscono per la spietata veridicità. Perché, come dice la stessa Murail “Qualsiasi cosa si voglia dire ai ragazzi, la prima cosa da fare è scrivere una storia interessante attraverso cui giocare la sfida di dare ai ragazzi le parole con cui esprimere ciò per cui si soffre, ciò che si desidera, si ama, le parole per dire il bene, il male, la paura, l’odio. Tutte parole che rendono l’uomo tale”.

Elizabeth Jane Howard, IL LUNGO SGUARDO, Fazi (traduzione di Manuela Francescon)
“Ti piace leggere, allora”, osservò lui. Non era l’astiosa recriminazione dell’illetterato, ma una semplice constatazione. “Sì. Crea nuove aspettative, e certe volte i libri davvero buoni riescono a soddisfarle”. E questo ci riesce sicuramente. E’ uno di quei libri che ti abitano dentro, a cui non riesci a non pensare quando non li stai leggendo. Quello che mi ha colpito subito è la grande capacità narrativa della scrittrice inglese, la facilità con cui ritrae i suoi personaggi e li fa diventare persone reali, che ti sembra di conoscere e frequentare da sempre. E poi le riflessioni fulminanti, i pensieri profondi e precisi, il malinconico humour, il ritmo perfetto, il rarefatto strato di glamour e dolore che respiri leggendo. IL LUNGO SGUARDO è un romanzo elegante e dolente. E’ un libro argentato, ben rappresentato dalla magnifica copertina. Pubblicato nel 1956, mi ha incantato anche per come racconta gli anni Cinquanta, e poi via via torna indietro nel tempo. Ma della storia di Il LUNGO SGUARDO, della vita della sua autrice lascio che vi informiate voi, se volete. Non voglio raccontarvi troppo. Vi dico solo che la narrazione a ritroso è magnificamente costruita, da sembrare naturale e l’unico modo per raccontare la vita della bellissima Antonia e del suo matrimonio. Quello che conta è cominciare a leggerlo e capirete subito che non potrete mai dimenticare Antonia e Conrad Fleming.

Jamie Attenberg, I MIDDLESTEIN, Giuntina (traduzione di Rosanella Volponi)
Altro matrimonio, altra storia. Anche qui una donna al centro del romanzo, che a un certo punto deraglia. Incomprensibilmente, secondo familiari, amici, conoscenti. Perché infatti un avvocato di successo, sposata da più di trent’anni, con due figli, una bella casa, due sani nipotini decide di distruggersi, mangiando continuamente? Cosa porta una persona a autodistruggersi senza riuscire a fermarsi? Ma non è solo il rapporto con il cibo al centro di questo romanzo tradizionale e originale insieme. Intanto è un ritratto della comunità ebraica ucraina che è emigrata negli Stati Uniti cercando di cancellare e superare il passato. Poi è un racconto sul rapporto tra genitori e figli e sulle aspettative reciproche che vengono spesso deluse. I MIDDLESTEIN è poi una lettura ingannevolmente facile: una saga familiare scorrevole che alterna momenti di tensione a scene inevitabilmente comiche; un catalogo sentito e non banale degli sguardi miopi che spesso indossiamo. Jamie Attenberg riesce a fare un ritratto spietato e senza speranza della famiglia ingannandoci con una storia quotidiana e innocente. Davvero brava!

Jaquin Perez Azaustre, I NUOTATORI, Codice (traduzione di Paola Tomasinelli)
Visto che a causa di questo luglio novembrino vedo poco la piscina, ho cercato di compensare con la lettura di questo libro. Scelto subito per il titolo e la raffinata copertina. Ma anche stima verso le edizioni Codice. Ha funzionato? Credo di sì anche se in maniera imprevedibile. Il romanzo segue due amici trentenni che condividono la passione per il nuoto. Quello che prevede migliaia di chilometri in acqua, fianco a fianco con altri appassionati. La descrizione della fauna che si sfinisce di vasche, dei riti, degli odori e delle parole degli spogliatoi valgono il libro. Come anche il rapporto tra i due amici, Jonas, il fotografo protagonista, lasciato dalla compagnia e quasi prosciugato di interessi e prospettive e Sergio, un lavoro di successo, un matrimonio sereno, e un fratellino in arrivo per la piccola Paula. Oltre a un carattere aperto e positivo e ottimi tempi sulla rana. Ma la perfezione rende felici? Questa la parte diciamo più realistica e che mi ha convinto maggiormente, insieme alla descrizione di una Madrid percorsa da nord a sud e raccontata attraverso bar e locali. Poi però Perez Azaustre sceglie una deriva un po’ fantascientifica, diciamo tipo Leftovers che ho cominciato a guardare in tv (che volete farci? piove sempre...), e quando pian piano scompaiono parenti e amici del protagonista sono rimasta perplessa. Era già sufficientemente alienante come luogo la piscina!

David Wagner, IL CORPO DELLA VITA, Fazi (traduzione di Fabio Lucaferri)
Se esistesse una lista ad uso dei lettori che segnali i libri dall’argomento non allegro, come per esempio la malattia, ma dal tono leggero e comico, IL CORPO DELLA VITA di David Wagner avrebbe un posto d’onore. Perché è un ottimo esempio di come la scelta di un romanzo sia sempre complessa e di come sia assolutamente sbagliato fermarsi al tema o all’ambientazione della storia. Perché alla fine quello che conta non è cosa ti viene raccontato, ma come. Ed è qui che si vede subito il vero scrittore. Come David Wagner, che con IL CORPO DELLA VITA ha vinto il Leipziger Buchpreis nel 2013, il premio per la letteratura della Fiera del libro di Lipsia, il maggiore riconoscimento per la nuova narrativa tedesca. Ma al di là di premi e riconoscimenti, basta leggere anche solo poche righe per capire il valore e l’originalità di questo libro: “La malattia, della quale cercavo di sapere poco o niente, alla quale non pensavo nemmeno quando mattina, pomeriggio e sera, alienato come un robot prendevo le mie medicine, si ergeva all’improvviso in tutta la sua mole, imponente. Tornava a travolgermi con tutta la sua violenza, una, due tre volte all’anno, mi si parava davanti e mi colpiva con la consapevolezza, la certezza: sì, tu prima o poi morirai, magari fra un anno o due, magari solo fra quattro o cinque. Comunque quattro anni non sono poi tanti, giusto l’intervallo tra due mondiali di calcio - quando ero piccolo un’eternità in miniatura, oggi un tempo che trascorre in un batter d’occhio. In quei giorni di autocommiserazione aveva come l’impressione di trapassare con lo sguardo la finzione dell’immortalità, di sbirciare dietro il sipario che cela l’abisso spalancato a destra e a sinistra di tutto: un giorno è finita, torniamo alla terra e la terra continua a girare, anche senza di noi”. Il protagonista di IL CORPO DELLA VITA soffre di una grave forma di epatite autoimmune ormai da anni. Poi un giorno arriva una telefonata dall’ospedale per comunicare che c’è un fegato compatibile per il trapianto. La notizia che aspettava e temeva da tempo. Il romanzo racconta ciò che precede la telefonata e la lunga permanenza all’ospedale, tra gli altri malati, che raccontano le loro storie, creando un intreccio di vite, destini e confessioni: “Comprendo col tempo che ogni malattia, qualunque essa sia, dona al suo paziente una storia. Una storia che lui o lei ama raccontare, mille volte, con abbellimenti, pause, divagazioni e drammatici colpi di scena. Sentirsi raccontare vuol dire essere ancora vivi”. Il talento letterario di Wagner è nella scrittura, nel tono, nello sguardo che usa per raccontare la sua storia. Non c’è mai traccia di pietismo, nulla di patetico o anche solo sentimentale, ma una visione spesso ironica se non comica di quello che gli sta succedendo. Alla fine al centro del libro non è la malattia, come evidenzia bene il titolo tedesco LEBEN, cioè vita, ma un uomo con il suo passato, gli amori, la figlia, le paure, i desideri e i sogni per il futuro. La malattia in qualche modo amplifica il sentire, mette di fronte a scelte rapide e drastiche, dona una luce diversa alla vita di tutti i giorni, ma anche agli anni passati. Passa una patina di veridicità sulle amicizie, gli amori, i rapporti familiari e lavorativi. Con la sua capacità narrativa Wagner ci regalo il ritratto di un uomo vero, sfruttando al massimo le potenzialità rappresentative del genere romanzo, regalandogli un libro riuscito, autentico e soprattutto empatico più che epatico!

Allan Gurganus, NON ABBIATE PAURA, Playground (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini)
“Le stesse storie travolgenti delle tragedie greche si consumano in qualche traversa delle nostre cittadine dove si pagano le tasse”. Soprattutto se qualcuno sa raccontarle bene come Allan Gurganus. La storia del suo ultimo libro pubblicato in Italia, NON ABBIATE PAURA, prende il via in un auditorium scolastico di provincia, dove lo stesso Gurganus sta per assistere, insieme alla madre del ragazzo, a uno spettacolo dove recita il suo figlioccio adolescente. “Sto quasi per chiederle perché gli adulti hanno sempre un’aria sciatta alle recite degli adolescenti, quando l’arrivo di una coppia strepitosa mi smentisce immediatamente. Salve! La mia esausta capacità narrativa avverte un fremito, se non proprio uno stimolo. Con un sorriso chiedono se le poltrone accanto a noi sono libere. “Prego, tutte vostre”. Sono entrambi biondi, alti e atletici, con le sopracciglia scure; stesse giacche di montone, da sci. Il vento ha arrossato la carnagione di lui, acceso di rosa quella di lei. La bufera sembra studiata per esaltare il loro incarnato. Giuro che dovrebbero stare sul palco, non qui tra i nonni con gli zaini di Greenpeace e i sandali da cui sbucano orrendi calzettoni peruviani”. Così lo scrittore in crisi di ispirazione si dedica alla storia di quella coppia quasi angelicata, bella, luminosa, elegante, che emana felicità. E lo fa ascoltando prima il racconto dell’amica Jenna e poi documentandosi a fondo. “Io, rispettoso, ho capito che la coppia non poteva essere disturbata con certe domande. Toccava a me fare il lavoro. Mi serviva. E adesso me ne assumo colpa, responsabilità e vanto. Ho preso in mano la vera storia documentata di quei due. Naturalmente ho cercato di infondere vera vita in quelle anime di provincia – separate e poi finalmente riunite... Giuro su Dio che almeno l’81% di quel che segue è vero”. Quello che segue ci porta negli anni Settanta nel North Carolina quando una quattordicenne, stesa sulla spiaggia del grande lago locale, assiste alla morte violenta del padre, decapitato, involontariamente, dal motoscafo guidato dal suo migliore amico, uno dei due dottori della cittadina dove si svolgono i fatti. La drammatica morte del brillante funzionario di banca innesca nella cittadina una serie di eventi sempre più catastrofici, che sembrava impossibile anche solo ipotizzare. La grande capacità narrativa di Gurganus consiste proprio nel mettere in scena l’orrore nelle situazioni più quotidiane e idilliache possibili. Nel raccontare gli aspetti più nascosti dei sentimenti umani, le pulsione più inconfessabili, le esternazioni meno prevedibili. Rendendole per il lettore assolutamente plausibili. “Così tante strade per la gioia, per lo più deviazioni” scrive alla fine del libro, ed è una sintesi perfetta non solo di NON ABBIATE PAURA, ma anche degli altri libri dello scrittore americano, a partire dal magnifico PICCOLI EROI.

Alfred, COME PRIMA, Bao (traduzione di Michele Foschini)
Nonostante le alte aspettative - il massimo premio ad Angouleme, alcune tavole in anticipazioni - l’idea del viaggio in Italia, sono rimasta subito incantata dal lavoro di Alfred. Il suo graphic, COME PRIMA rivela ad ogni lettura nuovi particolari, geniali punti di vista, scorci cromatici ed emotivi sempre ben orchestrati. Alla fine si ha la sensazione di avere letto un romanzo di 300 pagine. La storia prende il via in Francia dove si è rifugiato Fabio alle fine della seconda guerra mondiale. Qui su un ring lo rintraccia il fratello minore Giovanni per chiedergli di riportare in Italia le ceneri del padre morto. Così l’interno di una vecchia e arrugginita cinquecento diventa il teatro delle storie di vita della famiglia dei protagonisti ma anche del nostro paese. Con una delicatezza filologica e un’attenzione minuziosa ad ogni affermazione ed immagine. Con una misura spietata nel rappresentare uno spaccato drammatico della storia europea, ma soprattutto quello che ha significato per molte famiglie, divise sull’adesione o meno al fascismo. Un lavoro bello e intelligente, pieno di rimandi cinematografici, storici, letterari, ma soprattutto capace di restituire i sentimenti dei protagonisti.

Pietro Scarnera, DIARIO DI UN ADDIO, comma 22
Pia Valentinis, FERRIERA, Coconino press

PADRI. Leggo casualmente (ma forse no) nello stesso giorno DIARIO DI UN ADDIO di Pietro Scarnera e FERRIERA di Pia Valentinis. Il primo perché avevo apprezzato molto il recente UNA STELLA TRANQUILLA, sempre pubblicato da Comma 22 e il secondo perché apprezzo il lavoro di Pia Valentinis e il suo primo graphic mi ha subito incuriosito. I due libri non possono avere tratti più diversi ma sono sullo stesso livello nella capacità di rendere universale la proprio storia personale. Il padre di Scarnera viene colpito nel 2003 da un arresto cardiaco e cadrà in coma irreversibile. Il graphic racconta i cinque anni di oblio e ci porta da un ospedale all’altro, da una speranza all’altra, da un’illusione all’altra. Il padre di Pietro via via perde la sua identità e il bianco delle lenzuola è pari al nulla della sua vita. La vera storia appartiene a quelli che invece devono proseguire la loro esistenza quotidiana con il pensiero costante dell’uomo, padre, marito, amico che giace immobile nel letto di un centro specializzato: "Ora penso che questi cinque anni sono stati come una battaglia. Combattevo per difendere la memoria che avrei avuto di mio padre, non volevo ricordarlo in quel letto, così vulnerabile e indifeso... volevo ricordarlo com’era". Il padre che racconta Pia Valentinis non giace in un letto d’ospedale, ma è ugualmente distante e assente: "C’è stato un periodo in cui mi sono vergognata di lui. Era un operaio, una persona semplice e fin troppo diretta con tutti, anche con i miei amici. Noi due non parlavamo mai veramente. Quasi mai. Il suo umore era imprevedibile e peggiorava quando beveva. Specie alla fine". Ma basta ripercorrere la sua vita, la morte del padre, il collegio, la scelta di emigrare, l’Australia, il ritorno, la fabbrica, le morti sul lavoro per scoprire un uomo complesso, sfaccettato, dai principi fermi e dallo sguardo artistico. Un uomo che ama l’arte istintivamente e conosce a fondo la natura, anche quella umana. E Pia Valentinis riesce a restituirlo in questo modo a se stessa, ma soprattutto ai lettori.

Laila Baraldi, CADENZE D’INGANNO, Rossopietra
Questo di Laila Baraldi è un libro che mi è girato tanto intorno. Ne ho sentito parlare e discutere, l’ho letto quando si intitolava ancora LA CASA VECCHIA, ne ho scorso dei pezzi, ne ho anche scritto e ragionato con l’autrice. Eppure, adesso che lo leggo libro fatto e finito non smette di colpirmi, di aprirmi orizzonti in realtà vicini, ma che non ho mai esplorato così a fondo. E mi dimentico assolutamente che questa è la storia di Laila, che conosco da tanto tempo, ma che nel libro diventa un personaggio letterario, che niente ha a che fare con la brava bibliotecaria e la fidata amica. Anche qui subito nelle prime parole un padre, tre case, un piccolo paese, la voglia di attraversare confini. CADENZE D’INGANNO è un libro di viaggi, fughe, traslochi, spostamenti, sogni di altrove. La protagonista è sempre in movimento con la mente e con i piedi. Le tre case dell’inizio, tutte vicine ma ognuna in una provincia diversa sembrano segnare il destino della voce narrante, che non si sente mai a posto in nessun luogo. Che viaggia e scappa per ritornare poi a casa: “Io e mio padre: quando lui mi parlava di quei luoghi, degli anni di prigionia, del campo di concentramento, non ero pronta; quando l’ho cercato io, lui non c’era più. Oggi non posso condividere nulla”. Grazie alla sua capacità narrativa in realtà Laila Baraldi sembra colmare questo gap di dialogo ed esperienze.

Rosa Liksom, SCOMPARTIMENTO N. 6, Iperborea (traduzione di Delfina Sessa)
Ho cominciato a stare male per la protagonista alle prime pagine del libro. Da quando ha posato la sua modesta valigia sul leggendario treno della Transiberiana per arrivare da Mosca a Ulan Bator, in Mongolia. Quando ormai la giovane e timida studentessa finlandese pensa di essere l’unica a occupare lo scompartimento n. 6, sale un uomo rude, volgare, che risponde al nome di Vadim e che apre la conversazione con la sua classifica delle donne: “La georgiana ha le gambe da giraffa e sa vendersi così bene che ti dimentichi di averla comprata. L’armena, a furia di essere calpestata dalla storia, è diventata una lesbica remissiva e una discreta compagna che non picchia i bambini. La tatara ama solo i tatari, la cecena è un buon miscuglio tra una macchina per fare figli e un trafficante di droga, la daghestana è piccola, magra, brutta e puzza di canfora, e l’ucraina, così insulsamente piena d’arie, non fa che tramare eterni complotti nazionalisti nel suo atroce dialetto. Non c’è russo che non diventi sordo, in sua compagnia. E poi le baltiche. Fatte di merda. Nessun mistero. Solo pragmatiche. Camminano dritte col muso lungo, senza neanche uno sguardo attorno”. Armato di un coltello a serramanico e di un inesauribile bisogno di alcool, Vadim sembra racchiudere in sé il peggio del genere maschile. In realtà, passato il trauma iniziale, la convivenza con il rozzo operaio russo sarà un viaggio all’interno del viaggio e permetterà alla ragazza di capire a fondo il paesaggio non solo geografico, ma anche sociale, che sta attraversando. Un libro che mi ha sorpreso per la maturità stilistica ed emotiva della scrittrice.

JOHN Niven, MASCHIO BIANCO ETERO, Einaudi (traduzione di Marco Rossari)
Vado a Carpi alla presentazione dell’installazione di Meri Gorni, di cui vi parlerò presto e mi scrive un messaggio il bibliotecario Michael con queste definitive parole: “se non ti piace non ho mai capito niente di narrativa” e mi gira la recensione. Ecco il suo blog: http://confessionilibrarie.blogspot.it, che vi consiglio vivamente. Allora entro nella bella libreria Fenice e subito compro MASCHIO BIANCO ETERO. Il libraio rimane un po’ perplesso. Poi scopro che di Niven avevo letto A VOLTE RITORNO e non mi era dispiaciuto. Questo però è più nelle mie corde, letteratura, cinema, cibo, sesso, alcool non necessariamente in quest’ordine. La recensione colta l’ha già scritta Michael. Io mi limito a dirvi che mi sono goduta la leggerezza non banale e il tono irriverente e malinconico insieme. Kennedy Marr è bello, ricco e di successo. Con il suo affascinante accento irlandese ha conquistato centinaia di donne e con il suo talento ha scritto romanzi e sceneggiature che gli permettono di vivere nel lusso. Fino a quando è costretto a lasciare Los Angeles per l’Europa e ritrovare così l’ex moglie, la figlia sedicenne, la madre e il fratello. Un passato che pensava di essersi lasciato alle spalle. Non c’è niente da fare, tutto non si può avere e Kennedy nonostante i vantaggi non riesce a rassegnarsi alla superficialità che respira nel mondo intellettuale in cui lavora. Perché lui ha un vero talento per scrivere e anche per leggere. E i riferimenti ad autori, libri sono sempre precisi e spesso esilaranti. Mi ci voleva!

Willy Vlautin, LA BALLATA DI CHARLEY THOMPSON, Mondadori (traduzione di Fabio Genovesi)
Mesi fa Fabio Genovesi mi ha raccontato che stava traducendo un libro molto bello con un protagonista adolescente indimenticabile. Così ho subito letto LA BALLATA DI CHARLEY THOMPSON. Intanto non capisco perché abbiamo cambiato il titolo che non ha niente a che fare con la storia. Io avrei lasciato il nome del cavallo o comunque un riferimento più diretto all’ippica, anche se lo fa già la copertina. Vabbè. Il Charley Thompson del titolo ha quindici anni, un padre inaffidabile e specialista nel mettersi nei guai, che costringe il figlio a cambiare continuamente casa e città. Charley vorrebbe giocare a football e sogna di diventare un giocatore professionista, ma non riuscendo a frequentare con regolarità nessuna scuola, è quasi impossibile. Allora corre per rimanere in forma e anche per scappare veloce dai supermercati dai quali ruba del cibo quando il padre lo lascia senza soldi. Durante una delle sue corse si imbatte in un maneggio, dove riesce ad avere un lavoro, pesante e ingrato, che gli fa incontrare Lean on Pete, un cavallo che gli somiglia. Abbandonato, maltrattato, selvaggio e malinconico. Perché Charley è quasi un personaggio da fiaba, e nonostante la vita che è costretto a fare, non esprime aggressività e rabbia, solo tristezza e la voglia di provare a venirne fuori e realizzare i suoi modesti sogni, come quello di ritrovare l’amata zia. Che forse si può realizzare con una fuga insieme al suo migliore amico. Alla fine della lettura non ero completamente convinta. Il romanzo è scorrevole, forse fin troppo essenziale nella scrittura, ma mi è sembrato a volte sottotono, triste e polveroso come il protagonista. Seguire Charley nei chilometri che è costretto a fare a piedi e di corsa, sfianca anche il lettore. Però da quando l’ho finito non riesco a non pensare a Charley. Ha ragione Fabio, c’è in questo personaggio una complessità che una prima lettura forse non restituisce appieno. Il romanzo ricorda Huckleberry Finn come leggo nel risvolto di copertina, ma anche Tom Sawyer, il giovane protagonista di CANADA di Richard Ford e il clima e lo stile rimandano sicuramente a Steinbeck. LA BALLATA DI CHARLEY THOMPSON è un romanzo di paesaggi, luoghi grandi e inospitali, occasioni mancate, dove Charley non può fare altro che vivere alla giornata e insieme non rinunciare ai suoi sogni.

Giorgio Fontana, MORTE DI UN UOMO FELICE, Sellerio
Mi alzo pigramente il 25 aprile e mi ricordo che giorno speciale era quando da bambina abitavo vicino al Famedio e tutta la famiglia vestita a festa partecipava alle celebrazioni per la giornata della liberazione. E adesso? Cosa mi resta di quel 25 aprile? Quest’anno in realtà ho ritrovato quelle sensazioni perdute e anche il senso della celebrazione, leggendo il libro di Giorgio Fontana. L’avevo già iniziato e avevo però deciso che si meritava una lettura dedicata, ore intere senza interruzioni, per iniziarlo e finirlo. Così è stato. Prima di procedere ammetto subito che lo stimo molto, come scrittore, persona e lettore e anche perché interista (!), ma che questo non influenza minimamente il parere sul libro.
Cominci a leggere e dopo poche pagine sei a casa e se lo leggerete come me in poche ore, alla fine, alzando gli occhi dalle pagine, vi meraviglierete di non vedere davanti a voi il palazzo di giustizia di Milano, piuttosto che la Bertarelli di Saronno e il bar vicino a via Casoretto. Era stato così per Roberto Doni, protagonista di PER LEGGE SUPERIORE e qui sono forse ancora più nitide, vivide e precise le descrizioni dei personaggi. A partire da Giacomo Colnaghi, anche lui come Doni magistrato della Procura di Milano, ma negli anni ’80, nel vivo della lotta al terrorismo. La vera protagonista dei due romanzi è la giustizia e le riflessioni che Fontana fa attraverso i suoi personaggi non sono mai banali o artefatte. Ecco forse quello che mi ha colpito di più in MORTE DI UN UOMO FELICE è la ricerca di un difficile equilibrio, il desiderio di trovare sempre un punto d’incontro. Non solo nelle indagini che Colnaghi coordina, ma anche nella sua famiglia, nel matrimonio un po’ scontato con Mirella, nei rapporti di amicizia e con i colleghi. Giacomo Colnaghi cerca sempre una mediazione, una parola che apre, un punto di vista diverso, uno spiraglio di dialogo possibile. Che non è però mai un compromesso che ammette azioni non giustificabili. “Eccezioni sempre, errori mai” dice più volte Colnaghi e questa frase è il fulcro del racconto e un nodo forte per il lettore. Perché ammetto che in alcuni scontri che il magistrato sostiene, con la rigida collega friuliana, con un giovane terrorista, ho sentito molto mia la posizione intransigente, il non mollare niente, l’andare avanti nonostante tutto. E pensavo questo dovesse fare la vera giustizia. Non so se ho cambiato completamente idea, ma certo Giacomo Colnaghi è un personaggio complesso, non lascia indifferenti, fa pensare e riesco a comprendere sua moglie quando gli rimprovera di essere contento. Giacomo è un uomo felice, come dice l’azzeccato titolo, nella misura in cui affronta i suoi fantasmi, riesce a leggersi dentro, ammette le sue paure e poi sorride davanti a una serata limpida, alle parole di un compagno di bevuta, al ricordo che lo lega all’amico libraio. Il libro poi è così incisivo e convincente perché la scrittura di Fontana è diretta e ricercata insieme, precisa e calda e la struttura è ben orchestrata nell’alternarsi della storia di Giacomo e quella del padre Ernesto, senza il quale è cresciuto, ma anche tra l’impegno lavorativo del giovane magistrato e il suo privato, tra una Milano sempre ben descritta e le storie che regala la provincia. MORTE DI UN UOMO FELICE è uno spaccato di storia del nostro paese, restituita con grande capacità narrativa e analitica, è un romanzo toccante sul rapporto padre-figlio, una storia sull’eterna lotta tra il bene e il male, ma anche sulla profonda umanità della giustizia. Cosa aspettate? Siete ancora lì che leggete me invece che il libro di Giorgio Fontana?

Jaun Pablo Villalobos, SE VIVESSIMO IN UN PAESE NORMALE, gran via (traduzione di Stefania Marinoni)
Il titolo da solo è già un programma e non può che tristemente rimandare anche al nostro paese. E non ci consola certo scoprire che Villalobos naturalmente racconta del suo, cioè il Messico. Ma l’amarezza passa grazie alla lettura di questo romanzo sorprendente dove povertà, corruzione, ingiustizia vengono vinte, almeno sulla carta, dall’ironia del giovane protagonista e dal tono insieme malinconico e grottesco dello scrittore messicano. Non si può infatti non amare subito il tredicenne Oreste (“La cosa peggiore non è essere poveri: è non avere idea delle cose che si possono fare con i soldi”), figlio di mezzo di una numerosa famiglia che elenca un primogenito di nome Aristotele e due falsi gemelli battezzati Castore e Polluce. La famiglia vive in una catapecchia abusiva, ambita dagli speculatori edilizi, ma si illude di appartenere alla classe media. Al di là delle vicende che vedono protagonisti Oreste e i suoi familiari quello che colpisce del romanzo è la sensazione che trasmette: l’ineluttabilità del male e insieme l’impossibile speranza di una vita migliore. Villaobos è davvero bravo a creare insieme illusioni che sembrano vere e dure realtà che appaiono fantastiche. Ma forse è l’unico modo per sopravvivere.

Ann B. Ross, MISS JULIA DICE LA SUA, Astoria (traduzione di Valentina Ricci)
Quando occorre una lettura disintossicante, leggera ma non sciocca, che faccia sorridere, senza annoiare, niente di meglio che rivolgersi al catalogo Astoria. E’ scientifico, qualsiasi titolo peschiate, non sbaglierete mai. Così per riprendermi un attimo dalla corruzione messicana mi sono dedicata alla sessantenne Miss Julia, rimasta improvvisamente vedova, grazie all’unica azione che il rigido e calcolatore mister Wesley Lloyd Springer non ha saputo prevedere. Dopo quarant’anni di matrimonio in cui Julia si è sempre attenuta alle indicazione del coniuge, la donna si trova a godere di una incredibile libertà. E anche di un considerevole patrimonio. Nonché di una serie di scoperte che ne sconvolgeranno la monotona esistenza. Ma Miss Julia ha molte risorse ed è il momento di metterle in campo!

John Berger, IL TACCUINO DI BENTO, Neri Pozza (traduzione di Maria Nadotti)
“Quando una storia ci colpisce e ci commuove, genera qualcosa che diventa, o può diventare, una parte essenziale di noi, e questa parte, piccola o ampia che sia, è, per così dire, la sua discendenza o prole. Quel che sto cercando di definire è più idiosincratico e personale di una semplice eredità culturale; è come se il flusso sanguigno del racconto letto si congiungesse al flusso sanguigno della nostra storia di vita. Contribuisce a farci diventare quel che diventiamo e continueremo a diventare”. Mi sembra impossibile scrivere di John Berger, perché la sua grandezza può essere restituita solo leggendolo. Anche in questo libro indefinibile dove ci parla attraverso le parole e i magnifici disegni. Il brano lo trovate a pagina 90 e appartiene a un passo diaristico che racconta di una biblioteca, di lettori e coincidenze di lettura.

Elisa Ruotolo, OVUNQUE, PROTEGGICI, Nottetempo
Aspettavo il romanzo di Elisa Ruotolo dopo aver amato i racconti lunghi di HO RUBATO LA PIOGGIA. Sono convinta che abbia un grande talento, una voce insieme antica e molto contemporanea. Non mi ha assolutamente deluso, nonostante le alte aspettative e l’attesa. Solo non sono riuscita a divorarlo come pensavo. Perché è un libro che ti tiene legato, ma insieme ti induce a goderti ogni parola, ogni passaggio, ogni metafora. Incredibilmente riesci a leggere la storia e insieme gustarti la scrittura senza che ci sia uno scollamento e senza perderti. Perché è grazie al linguaggio denso, insieme immediato e barocco di Elisa Ruotolo che ti senti immerso nelle vicende della famiglia Girosa e della loro casa. E anche se il racconto prende il via ai nostri giorni, si ha sempre la sensazione di abitare un non tempo, una sorta di luogo felliniano dove tutto ciò che accade è vissuto dai protagonisti ai limiti estremi del sentire. Tutto è amplificato. Nascite, amori, incontri, partenze, ritorni, fortune e sfortune sono gli elementi di una trama articolata che Elisa Ruotolo orchestra con grande maestria. E’ un libro da leggere lentamente, che pervade il lettore di un senso di affettuosa ammirazione verso l’autrice. E che ti regala quella vertigine che ti assale quando hai scoperto un tesoro.

Maria Cecilia Barbetta, SARTORIA LOS MILAGROS, Keller (traduzione di Fabio Cremonesi)
Come facevo a non leggere subito questo libro? Io che ho dormito per anni nel salottino di prova della sartoria di mio padre? Che avevo le mazzette come migliori amiche e i rocchetti di filo come passatempo preferito? E che sfogliavo riviste di moda ancora prima di imparare a leggere? Oltretutto SARTORIA LOS MILAGROS è un libro da guardare quanto da leggere. Perché il racconto è inframmezzato dalle immagini dei campioni di tessuto, ma anche da liste, cartelli, soluzioni grafiche per restituire una conversazione telefonica piuttosto che un dialogo segreto. Tutto insieme per comporre una storia d’amore e tradimento, un’incredibile coincidenza che fa incontrare le nostre eroine, Mariana, la sarta e Analia, la sposa. Alla fine sembra di avere letto una telenovela scritta da Jennifer Egan.

Chiara Arsego e Aymeric Vincenot, UNA GIORNATA PARTICOLARE, Sironi ragazzi (traduzione di Luisa Tortone)
Capiterà prima o poi anche a me quello che accade all’anziana protagonista di questo albo. Priscilla infatti si alza, inforca gli occhiali e specchiandosi si trova due occhiaie come un panda. Poi fa il bagno con quel tricheco di suo marito e usa un canguro come borsa della spesa. E via di seguito.
Alla fine poi c’è una spiegazione. Sironi ha da poco iniziato a pubblicare libri per bambini, e questo è una bella scoperta.
Un albo divertente e originale. Rido ancora a pensarci...


Annie Ernaux, IL POSTO, L’orma (traduzione di Lorenzo Flabbi)
Sono sicura di aver letto qualcosa di suo, ma è un ricordo molto lontano. Ora gli amici de L’orma annunciano la traduzione per la prima volta in Italia di quello che è considerato forse il capolavoro di Annie Ernaux, IL POSTO, scritto 30 anni fa. E’ un libro breve, ha una copertina che mi piace e che a fine lettura troverò emblematica, e quindi comincio a leggerlo con molte aspettative. Solo non sapevo cosa aspettarmi e ci ho trovato molto di più. Tanto che quando ho chiuso le pagine, nel primo pomeriggio di un giorno che era stato destinato alla lettura, non ho più aperto niente. E’ un libro veloce da leggere IL POSTO, ma lunghissimo da metabolizzare. Ti rimane intorno, dentro, attira i tuoi pensieri, amplifica sempre più le sensazioni che la scrittura essenziale, ma densissima della Ernaux sprigiona con implacabile costanza, senza mollarti mai. IL POSTO in realtà sono tanti posti: quello fisso da insegnante che la protagonista ottiene all’inizio del libro e il posto in cui i suoi genitori hanno sempre cercato di stare, al loro posto. Il posto come luogo, in particolare il bar-alimentari in cui Annie cresce e il posto come ricerca del proprio posto nel mondo. La morte del padre spinge Annie a volerlo raccontare, ma non con un romanzo: “volevo dire, scrivere riguardo a mio padre, alla sua vita, e a questa distanza che si è creata durante l’adolescenza tra lui e me. Una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome. Come dell’amore separato”. Lei e suo padre. Una parte di vita insieme, che alla fine li ha visti lontani, ma che la scrittura riesce ad avvicinare, colmando soprattutto la distanza tra un padre proletario e una figlia che ha fatto uno scatto sociale: “ho finito di riportare alla luce l’eredità che, quando sono entrata nel mondo borghese e colto, avevo dovuto posare sulla soglia”.

Isabelle Arsenault - Fanny Britt, JANE, LA VOLPE & IO, Mondadori (traduzione di Michele Foschini)
Un graphic novel, un albo illustrato, una storia per immagini? Poco importa, perché quello che interessa davvero è il connubio quasi magico tra le immagini di Isabelle Arsenault e il testo di Fanny Britt. Che racconta di Helene, adolescente presa di mira dalle bullette della scuola che la deridono per il suo aspetto fisico, il peso, le cose che indossa. Helene abita un mondo grigio e triste che si colora solo quando legge JANE EYRE, il suo libro preferito. Anche Jane si sente diversa ed emarginata. Man mano che procede con la lettura Helene si trova in sintonia con Jane e ne fa il suo alter ego letterario. Come succede a tutti i lettori. Ma poi le pagine incontrano la vita e per la triste adolescente il grigio scompare e il presente si illumina dei colori dell’amicizia.

Scolastique Mukasonga, NOSTRA SIGNORA DEL NILO, 66THAND2ND (traduzione di Stefania Ricciardi)
Un liceo esclusivo, un gruppo variegato di adolescenti, un luogo di culto dedicato alla Madonna, gli abiti eleganti, i dispetti, le lunghe ore di studio, i corteggiatori, le aspettative dei genitori, l’invadenza delle suore, l’isolamento dal resto del paese. Potremmo essere ovunque ma in realtà il collegio "Nostra Signora del Nilo" si trova a Nyaminombe, in Ruanda. Vi dice qualcosa? Immagino che, come me, molti di voi penseranno al genocidio del 1994. In realtà il romanzo di Scolastique Mukasonga precede la guerra civile ma ne racconta comunque gli antefatti. Siamo nei primi anni Settanta del secolo scorso, e il liceo forma le rampolle del potere politico, economico e militare del paese. Noi conosciamo Gloriosa, Frida, Goretti, Godelive, Immaculée, le ragazze hutu, il popolo maggioritario, destinate a diventare un modello per tutte le donne del paese. E poi Veronica e Virginia, due delle giovani tutsi ammesse in virtù della quota etnica, un misero dieci percento. Mukasonga ci racconta un intero anno scolastico, rappresentando da una parte i prevedibili meccanismi che regolano una comunità di giovane donne, dall’altra le cartilagini più profonde di un paese spesso noto solo per il terribile genocidio, trascurato e ormai dimenticato. NOSTRA SIGNORA DEL NILO è un romanzo denso, dove la scrittura apparentemente semplice mette in luce il tono malinconicamente ironico della scrittrice, il suo doloroso presagio nel rappresentare delle giovani vite, che devono portare il pesante fardello delle loro origini e insieme un’ipoteca inestinguibile sul loro futuro.

Donatella Di Pietrantonio, BELLA MIA, Elliot
“L’Aquila, bella mia..” canta una donna delle C.A.S.E, le abitazioni provvisorie del dopo terremoto, dove sono stati sistemati Caterina, sua madre e Marco. Ma la presenza più forte è l’assenza di Olivia, mamma dell’adolescente, figlia e sorella delle due donne, rimasta uccisa dalla scossa del 6 aprile 2009. Era lei che teneva insieme la famiglia, lei su cui tutti facevano affidamento, lei che prendeva le decisioni importanti come fare scendere prima il figlio e la sorella dopo la forte scossa della notte. Era lei che difendeva Caterina, la gemella più fragile, “la brutta copia” come la insultavano i compagni di scuola, l’artista un po’ pazza e zero concreta. E ora sarà lei a doversi occupare di questo ragazzo grumoso, non solo per l’acne incipiente. Questo adolescente orfano della madre ma anche in qualche modo del padre, che la famiglia di Olivia incolpa per non averli tenuti a Roma. In salvo. Il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio è lirico, potente, empatico, politico e sociale insieme. Perché attraverso le vicende di una famiglia spezzata, racconta cosa è stato e cosa è il terremoto che ha distrutto L’Aquila. E impressiona come la scrittrice riesca a dare voce ai sentimenti indescrivibili di chi vive una tale tragedia. Tanto che il disorientamento, la mancanza di riferimenti (dove sono ora le piazze, i negozi, l’obitorio, le scuole...) viene trasmesso attraverso la lingua che si fa sincopata, ossimorica, inaspettata, disordinata come le case semicrollate della città. Perché il linguaggio non può cambiare la realtà, ma raccontarla sì. Donatella Di Pietrantonio ci regala un romanzo pieno di voci, storie, incontri, scontri, mattoni, musiche, cocci, baci, ferite, sconfitte e rinascite. E allegata la voglia di rileggere subito le sue parole, perché non basta una sola volta per apprezzare la capacità di raccontare il rapporto tra una zia e un adolescente ferito, la forza di una donna che trova sollievo nei gesti rituali di sempre, come la cucina e la maglia, ma anche nell’aprirsi al dolore altrui, di un padre inadeguato che deve, come può, essere genitore, e soprattutto di una gioventù che ha visto crollare insieme alle case, il suo futuro. O forse no?

Sepp Mall, AI MARGINI DELLA FERITA, Keller (traduzione di Sonia Sulzer)
Questo è un romanzo da leggere lentamente. Per entrare veramente nei due personaggi principali: un ragazzino che ama il calcio e che perde il padre e un giovane uomo segnato fin dall’infanzia dalla balbuzie che lo lascia spesso senza parole. Non si conoscono e non si incontreranno mai, ma hanno in comune la loro origine tedesca nel Sud Tirolo degli anni Sessanta. Il romanzo mette in scena i due popoli divisi, gli attentati, le ritorsioni, le azioni di polizia, il tentativo di creare un’integrazione quasi impossibile. Soprattutto a livello politico. Da una parte quindi le famiglie tedesche, dall’altra quelle italiane, spesso immigrate dal Sud. Al di là della testimonianza storica, AI MARGINI DELLA FERITA ci permette di conoscere un grande scrittore, denso, dallo stile chirurgico e dallo sguardo preciso e mai banale. Con il romanzo di Sepp Mall, Keller editore inaugura un nuovo progetto chiamato “Confini”, che fino al 2018 porterà alla pubblicazione, nelle due collane “Vie” e “Passi”, di autori della letteratura europea – e non solo - che hanno trattato durante la loro produzione letteraria il tema della Prima guerra mondiale.

Alberto Madrigal, UN LAVORO VERO, Bao Publishing
Dopo essermi affannata a cercare il nome del traduttore del graphic di Alberto Madrigal, mi viene il dubbio che forse non c’è, perché il disegnatore spagnolo l’ha scritto in italiano. Così è, come mi conferma l’editore Caterina Marietti, che ringrazio per la precisazione ma soprattutto per UN LAVORO VERO, che proprio Bao Publishing ha curato e promosso. Terzo titolo della collana sulle città viste dall’alto, grazie ad Alberto Madrigal ci troviamo a Berlino, dove arriva il protagonista dopo aver lasciato un lavoro fisso in Spagna. Perché Berlino? Ha trovato un altro lavoro? Parla tedesco? Segue un amore? Ha degli amici? No, no, no e no. “E’ allora che ti rendi conto che hai lasciato un lavoro fisso per andartene in un altro paese. Senza programmi. Senza conoscere la lingua. E solo”. La storia per immagini di Madrigal racconta di un sogno da inseguire, disegnare fumetti, che passa attraverso una città che accoglie tanti giovani pieni di speranze. Dove è facile incontrarsi, ascoltare musica gratis, leggere e lavorare nei locali all’aperto e persino trovare un lavoro vero. Anche se forse non è quello che vuoi.

Ermanno Rea, IL SORRISO DI DON GIOVANNI, Feltrinelli
“A cosa servono i romanzi se non a spogliarti del tuo piccolo ego per farti assumere il peso di ciò che non ti appartiene ma che, a furia di leggere, si fa carne della tua carne? I buoni libri, diceva mia nonna Serafina, la madre di mia madre, i buoni libri moltiplicano la tua vita; ti fanno vivere come tuoi dolori ed emozioni che altrimenti non avresti mai conosciuto, forse neppure immaginato. E non è vero che, passato il santo, passata la festa: i buoni libri restano dentro di te, non li cancella neppure il tempo lungo, si depositano non so in quale anfratto della tua mente o del tuo cuore, e da laggiù continuano silenziosamente a tessere le loro trame. A condizionarti. A costituirsi parte di te”. Il romanzo di Ermanno Rea, IL SORRISO DI DON GIOVANNI è la dimostrazione di quello che sosteneva nonna Serafina, che tanta parte ha nella vita di Adele, chiamata dalla lettura sin da piccola. La sua vita è segnata dai libri e attraverso i libri viene raccontata, “narrazione autobiografica, dedicata esclusivamente alla mia attività di lettrice di romanzi”. Romanzi che ne indirizzano le scelte, e ai quali non si può mentire: “Fu in questa temperie umana e intellettuale che compresi sino in fondo la relazione indissolubile che esiste tra un lettore accanito e la sua integrità etica, la sua vita privata. Puoi mentire infatti al mondo intero, puoi mentire persino a te stessa, ma come fai a mentire alla letteratura, al libro che stai leggendo e che ti inchioda, una riga dietro l’altra, alle tue responsabilità?”. IL SORRISO DI DON GIOVANNI è anche, - e come può essere diversamente visto il valore del suo autore? – uno spaccato di storia italiana, un ritratto a tinte forti di Napoli, romanzo di formazione di una giovane donna e cittadina e una travagliata storia d’amore.

Daniel Handler, PERCHÉ CI SIAMO LASCIATI, Salani (traduzione a cura degli allievi della Scuola di specializzazione per traduttori editoriali Tuttoeuropa)
Sarebbe lungo l’elenco dei motivi per cui non ho letto e non avevo nessuna intenzione di leggere il libro di Handler. La copertina rossa e i disegni mi respingevano così come il fatto che fosse uscito l’anno scorso proprio per San Valentino. Poi è stato scelto per questo progetto (http://www.maredilibri.it/news.html) e segnalato da molti miei colleghi e così l’ho ripreso in considerazione e non ho potuto che dare loro ragione. E avrebbe dovuto anche confortarmi il fatto che Handler non è altro che Lemony Snicket, l’autore di UNA SERIE DI SFORTUNATI EVENTI. Il libro è il diario di una relazione intensa, ma breve, fatto attraverso gli oggetti conservati da Min, appassionata di cinema e considerata nel suo liceo una alternativa. Inaspettatamente, sconvolgendo i suoi amici, la ragazza si innamora, ricambiata, di Ed, capitano della squadra di basket. Sembra un amore impossibile e invece cominciamo pian piano a crederci. Una riflessione sull’amore intelligente e profonda non solo per gli adolescenti. E devo confessare che, ripensandoci, ce l’ho anch’io una scatolina di oggetti legati a un amore adolescenziale.

Kevin Brooks, L’ESTATE DEL CONIGLIO NERO, Piemme (traduzione di P. A. Livorati)
Un altro libro cosiddetto per ragazzi che mi ha coinvolto molto. Grazie alla bravura dello scrittore che ha saputo mettere in campo molti temi, ma ben orchestrati e senza caricare troppo, emotivamente, il romanzo. Tra tante figure interessanti spicca quella del protagonista Pete, sedicenne “sdraiato” come direbbe Michele Serra, ma che, come la maggior parte degli adolescenti è in realtà pieno di risorse e coraggio. E purtroppo incappa in una di quelle decisioni apparentemente banali che cambiano il destino di molti. A partire da quello di Raymond, ragazzo molto intelligente ma in qualche modo chiuso in un suo mondo, che Pete non riesce a proteggere. Così un sabato sera al luna park, luogo già sfruttato per la sua ambivalenza, si trasforma in un viaggio di non ritorno, in uno stacco netto tra l’infanzia e l’età adulta, dove non si può sfuggire alle proprie responsabilità. E Pete, figlio di un poliziotto che sente il suo lavoo come una missione, lo sa bene.

Yeng Pway Ngon, L’ATELIER, Metropoli d’Asia (traduzione di Barbara Leonesi)
D’accordo i memoir, l’autofiction d’autore, il romanzo sperimentale, il saggio che si legge come fosse narrativa. Ma ogni tanto ho voglia di immergermi in un romanzo sterminato, pieno di personaggi, storie, particolari che all’inizio ti disorientano, poi ti inglobano e alla fine ti lasciano esausta ma soddisfatta. Ho bisogno di leggere un grande regista. Yeng Pway Ngon lo è. Come Vicki Baum, Trollope, Wilkie Collins, grandi burattinai capaci di far convivere in un solo libro decine di personaggi senza perderli e farceli perdere. Così, leggendo L’ATELIER ho riprovato quella lenta felicità di stare tagliando il traguardo. Non tanto per le 500 pagine, ma per la soddisfazione quasi fisica di vedere alla fine che il puzzle si incastra perfettamente. Che sono stati rivelati tutti i legami tra i personaggi, che sappiamo collocare ognuno di loro nel mosaico creato dallo scrittore. Qui poi si aggiunge una protagonista non reale ma molto reale e l’arte. Leggendo si vedono i colori, si odora l’acqua ragia, si passa attraverso tantissimi quadri evocati dal pittore Yan Pei e dai suoi allievi dell’atelier. E non mancano neppure i romanzi perché “I grandi artisti non sono tali solo per la loro abilità tecnica e il talento innato, ma soprattutto per la capacità di sentire e di pensare. I sentimenti e i pensieri di un pittore traggono origine dalle sue esperienze, dal suo vissuto e anche dalle sue letture; leggere è fondamentale non solo per gli scrittori, ma anche per i pittori”.

Margarita Khemlin, LA TERZA GUERRA MONDIALE E ALTRI RACCONTI, Giuntina (traduzione di Paola Buscaglione Candela)
Già l’immagine di copertina anticipa molto del libro: vi è ritratto un uomo piuttosto anziano, e l’età media delle storie è effettivamente abbastanza alta; spiccano poi le importanti medaglie e le ciabatte di plastica, la poltrona leopardata e il copricapo da aviatore. Contrasti che virano al riso ma nello stesso tempo sembrano dire “non c’è da scherzare”. I racconti di Margarita Khemlin viaggiano sempre su più binari di emozioni: ironia e affetto, malinconia e rabbia, tenerezza e rassegnazione. Uniscono la tradizione dell’umorismo ebraico alla spesso ostica ambientazione sovietica. Sono, infatti, ebrei ucraini i protagonisti delle storie e vivono cercando di salvaguardare la loro essenza ebraica nei cambiamenti politici e sociali dell’ex impero sovietico. E’ un libro pieno di voci, alcune reali, altre immaginarie ed evocate, altre ancora temute o inascoltate. Ritratti nelle loro vicissitudini quotidiane, i personaggi sembrano spesso disarmati di fronte a quello che accade loro, ma in realtà riescono sempre a vedere il lato ironico di ogni situazione. Salvandosi così la vita. Ottima lettura da treno.

Marie-Aude Murail, MISS CHARITY, Giunti extra (traduzione di Federica Angelini)
Riprendo in mano MISS CHARITY per un progetto e mi accorgo che non ne avevo scritto niente. Sono imperdonabile o come direbbe la mamma di miss Charity assolutamente sconveniente. Mi ero stupidamente chiesta come se la sarebbe cavata la meravigliosa scrittrice francese di OH, BOY (se non l’avete ancora fatto, obbligatorio leggerlo!!!) con un personaggio vissuto nell’Ottocento. Erano domande da farsi? La risposta è scontata, se la cava da grande scrittrice quale è regalandoci un romanzo perfetto, intelligente, ironico, vero come la vita. E anche se forse non tutti riconosceranno in Miss Charity la figura di Beatrix Potter, non importa perché la storia è quella di una ragazza che riesce a sfruttare i suoi talenti. Anche nella chiusa, in particolare per le donne, società inglese dell’Ottocento. E il paragone con Jane Austen non è assolutamente fuori luogo e possiamo aggiungerci anche l’Oscar Wilde, che compare come personaggio nel romanzo. Nonostante abbia letto tutto quello che di suo è stato tradotto in italiano, la Murail è riuscita ancora a sorprendermi anche per l’accurata ricostruzione storica di luoghi, situazioni e personaggi. E per la capacità di raccontare anche gli aspetti più sconvolgenti della vita di una ragazza, e qui ce ne sono di sbalorditivi, senza eccedere nel pietismo o nella ricerca dell’eclatante.

Abdelkader Djemai, IL NASO CONTRO IL VETRO, biblioFabbrica (traduzione di Enrica Rizzini)
Ci sono dei percorsi di lettura quanto mai involontari ma estremamente chiari, quasi sfacciati nella loro sequenza logica. E quindi ecco un altro romanzo, brevissimo, che racconta di un padre e di un figlio. Il padre è quello che un giorno, per la prima volta, prende un attrezzato e lussuoso pullman per raggiungere la grande città che si può riconoscere come Parigi. Per la prima volta lascia la città di provincia in cui vive per cercare di capire cosa sia accaduto al figlio maggiore che non risponde alle sue lettere, che per lui, analfabeta, scrive la figlia minore. Ha quattro figli il protagonista e, a parte il primogenito, sono tutti studiosi e avviati a brillanti carriere. Che per lui sono la consolazione per essere stato costretto ad abbandonare il suo villaggio d’origine in Algeria, a causa della guerra. E mentre raggiunge la città ripercorre un altro viaggio, quello che con la madre l’ha portato in Francia.
E’ un libro minuscolo, dove la recensione rischia davvero di essere più lunga del testo, senza comunque rendergli giustizia. Lo leggerò anche agli adolescenti ad alta voce.

Luca Giordano, QUI NON CRESCONO I FIORI, ISBN
Della maggior parte dei libri non mi ricordo dove e neanche quando li ho letti. E mi ero divertita quando Salvatore Scibona nel suo colorito italiano mi interrogava su dove mi trovavo quando avevo letto questo o quel libro. E voleva anche sapere se leggo seduta su una sedia, a scrivania o sul divano. O magari in piedi. Ecco, se mi avesse per caso interrogato sul libro di Luca Giordano avrei potuto rispondere, perché la sua lettura mi ha salvato da una triste serata solitaria a Pisa in occasione di Pisabook. Dopo una giornata in fiera, una buona cenetta toscana, mi aspettavano una breve passeggiata e l’albergo. E lì ho cominciato e verso mattina finito QUI NON CRESCONO I FIORI. Intanto mi sentivo in colpa perché nonostante ISBN sia uno dei miei editori di riferimento, non l’avevo più di tanto considerato. Per fortuna poi Valentina me ne ha parlato allo stand e me lo sono subito comprata. Anche qui padri e figli e il paragone con LA LUCE DI CLOUDY BAY è stato immediato. Soprattutto per il clima che si respira nella storia ma anche per l’aria salmastra e il rumore del mare. Siamo su un’isola che è facilmente identificabile con Lampedusa. Due fratelli, orfani di madre, vivono con il padre, meccanico che sfoga la mancanza di lavoro e la sofferenza nell’alcool. Due piani temporali: uno sull’oggi che per Salvatore vuol dire difendersi dal fratello maggiore e cercare un po’ di affetto in un cane randagio e per Damiano il sogno di partecipare al Grande Fratello per fuggire dall’isola. L’altro racconta la storia d’amore dei loro genitori e la misteriosa scomparsa della madre. E’ un romanzo che odora: di mare, sangue, vomito, angoscia, motori, desolante mancanza di speranza. Dove i comprimari sono ben inseriti nella storia che via via prende sempre più il lettore sino a ingabbiare anche lui sull’isola. Una nota di merito anche all’editore, perché si sente il lavoro di editing, e soprattutto la cura con cui è stato pubblicato il libro.

Friedrich Torberg, LO STUDENTE GERBER, Zandonai (traduzione di Angelo Lumelli)
Questo è un libro che mi chiamava. Ogni tanto saltava fuori ed ero chissà perché convinta che mi sarebbe piaciuto. Sono quelle sensazioni che se disilluse, segnano per sempre libro e autore, ma che se invece sono confermate ti regalano grande soddisfazione. Così è stato e parto subito alla grande, ma poi vi spiego. LO STUDENTE GERBER è il romanzo più vicino a STONER che ho letto. Non è solo per l’ambientazione scolastica, ma per la capacità di raccontare un’esistenza comune, rendendola al lettore unica e indispensabile. Rispetto al capolavoro di Williams ci sono delle parti un po’ deboli che potevano essere tolte e ogni tanto dei passaggi un po’ ripetitivi e non necessari, ma vi assicuro che troverete molte analogie. E’ vero che devo considerare la mia passione per la Mitteleuropa e per i romanzi sostanzialmente malinconici, ma sono pronta a difendere strenuamente il paragone. Perché Kurt Gerber ha davvero molto di Stoner, a partire dalla decisione di non cambiare classe alla notizia che proprio nell’anno della maturità il nuovo coordinatore di classe sarebbe stato “Dio Kupfer”, il temutissimo insegnante di matematica che lo detesta apertamente. Invece Kurt decide di sfidarlo e il sadico professore è ben felice di accettare la sfida. Torberg riesce a raccontare tutti i più o meno perversi meccanismi sociali di una classe scolastica, i rapporti di potere insegnanti-allievi, la convivenza degli studenti e le potenziali tragedie che si nascondono anche dietro gesti e situazioni apparentemente innocue. E ancora il primo innamoramento, la scoperta del sesso, il difficile equilibrio tra l’incerta conoscenza di sé e l’immagine che di noi si formano gli altri. Non aveva torto Franz Werfel quando disse di Torberg che “tra gli scrittori entrati in campo nel periodo fra le due guerre, è probabilmente il solo che ha qualcosa da dire e sa come dirla”.

Adriana Lisboa, BLU CORVINO, La nuova frontiera, (traduzione di Sara Favilla)
“Sei tu il mio? Perché sul certificato di nascita tu sei mio padre, ma non lo sei veramente, e allora cosa sei? ... Non lo so, quello che vuoi che io sia, rispose”. Vanja e Fernando: figlia e padre sulla carta, ma non nella realtà. Ma quando a dodici anni Vanja perde la madre e decide di lasciare il Brasile per cercare il padre biologico, Fernando, ex marito che ha accettato di riconoscerla come sua, la ospita nella sua casa a Denver e la accoglie nella sua vita. Il magnifico romanzo della scrittrice brasiliana è la storia di una ricerca, ma ci parla anche di immigrazione, lotta per la libertà, fughe, esistenze in viaggio e di cosa significa davvero la paternità. E’ un romanzo insieme intenso e scorrevole che vi farà ammirare le grandi capacità narrative di Adriana Lisboa, ma anche il suo sguardo profondo e sapiente: “provai una rabbia abissale, genuina, per la bibliotecaria della biblioteca comunale di Denver, che mi aveva suggerito tutti quei libri di poesia come se io avessi una qualche aspirazione intellettuale. Come se qualcuno ne avesse bisogno. Di tutti quei versi difficili scritti da uomini e donne che non avevano altro da fare”.

La mia amica Arianna Fornari avrebbe saputo cosa rispondere a Vanja ed era un po’ come la bibliotecaria di Denver, competente, empatica, innamorata del suo lavoro. Arianna è morta il 6 dicembre e volevo salutarla anche da queste pagine proprio con le parole dell’ultimo libro di cui abbiamo parlato insieme e che anche lei aveva particolarmente amato:
"Mi chiesi se lo spazio che una persona occupa nel mondo sopravvive alla persona stessa. Se il palco rimane lì, allestito ancora per un po’, la scenografia pronta, la battuta ripetuta varie volte, in attesa che la persona torni ancora una volta a recitare. E solo a poco a poco le connessioni si disfano, i fili si spezzano, le luci si spengono, la persona muore lentamente per il mondo dopo essere morta per se stessa. Se è vero che esistono due tipi di morte, una personale e individuale, l’altra pubblica e collettiva, due morti che avvengono con ritmi diversi."

Ciao Arianna!

Neil Gaiman, L’OCEANO IN FONDO AL SENTIERO, Mondadori, (traduzione di Carlo Prosperi)
Se mi avessero detto che mi sarei trovata di fronte una piccola ferita che partorisce un mostro, un verme che si trasforma in una bellissima donna, due mondi paralleli gestiti da regole ferree dove non muoverti da un piccolo spiazzo può salvarti la vita, avrei detto: no, qui non entro! Certo dovrei saperlo a cosa vado incontro quando leggo Neil Gaiman, ma riesce sempre a sorprendermi tutte le volte. Perché questo romanzo pareva un tradizionale racconto alla Jane Austen, dove un uomo tornato nel villaggio inglese dove è nato per un funerale, ripensa ai luoghi della sua infanzia. E all’amicizia con Lettie che diceva che lo stagno dietro la fattoria era in realtà un oceano. Alla passione per i libri e per i gatti, anche quelli sfortunati. A personaggi strani ed inquietanti e alla volta che… Forse il titolo doveva mettermi sull’avviso che non avrei viaggiato su un calesse lento e dondolante ma sulle montagne russe. Grazie Neil!

Jurica Pavicic, IL COLLEZIONISTA DI SERPENTI, Besa (traduzione di Estera Miocic)
Le vie dei libri sono sempre infinite e questo mi è stato segnalato dalla traduttrice stessa, operatrice culturale di grande bravura e sensibilità. Che si sarà stancata di aspettare notizie sulla mia lettura. In realtà se non rispondo magari immediatamente a una sollecitazione di lettura, è un buon segno. Vuol dire che mi tengo il libro per leggerlo in momenti di calma, quando ho meno incontri e riesco a ritagliarmi delle giornate intere per leggere. Ci sono libri che meritano una lettura lenta e magari anche una rilettura. Ero sicura che IL COLLEZIONISTA DI SERPENTI fosse uno di questi. E non sono rimasta delusa. Anche se sono racconti e quindi frammentabili in momenti di lettura diversi, meritano invece di essere letti quasi come un romanzo perché sono un affresco realistico fino alla crudeltà ma anche sentimentale e sentito della Dalmazia. Dove spesso anche le cose più piccole sembrano sempre pronte a scatenare una tragedia, dove gli avvenimenti più semplici concorrono a complicare la vita di persone già provate da orrori più grandi. Considerato uno dei migliori scrittori europei Jurica Pavicic dimostra in queste storie le sue capacità narrative, ma anche una sensibilità attenta e curiosa nel descrivere personaggi comuni e unici insieme.

Davide Calì, MIO PADRE, IL GRANDE PIRATA, Orecchio acerbo
Non sapete cosa regalare a grandi e piccini? Questo è il libro perfetto. E ancora meglio sarebbe leggerlo tutti insieme. E’ una lettura ad alta voce senza età che coinvolgerà lettori di ogni età (rima involontaria). Perché Davide Calì scrive un albo commuovente ma non mieloso, equilibrato, intelligente, empatico con un buon ritmo e un lessico ricco e appropriato. Per raccontare che i sogni si possono un po’ adattare alla realtà e che le bugie non sono sempre tali. E che le storie servono a volte a raccontare se stessi e i proprio desideri.



Glen David Gold, SUNNYSIDE, liberAria, (traduzione di Daniela Liucci)
Ecco un libro per cui dovete programmare un po’ di tempo. Non solo per la mole, ma per la struttura a incastro che richiede una lettura attenta. Poi però sarete ripagati dall’immersione in una storia ricca ed elaborata e vi troverete fianco a fianco con Charlie Chaplin per buona parte del romanzo. SUNNYSIDE infatti si apre su una fredda giornata d'inverno del 1916: una come molte altre, se non fosse che in questa il famoso attore Charlot viene avvistato in più di ottocento posti simultaneamente. La successiva e straordinaria delusione collettiva, dà il via a tre storie apparentemente lontane: quella di Leland Wheeler, il figlio dell'ultima (e peggiore) star del Wild West, che scoprirà un amore inaspettato sui campi di battaglia francesi; quella di Hugo Black, arruolato per combattere sotto il comando del generale Edmund Ironside nella spedizione senza speranza contro i bolscevichi; infine quella dello stesso Chaplin.

Gabriele Romagnoli, L’ARTISTA, 66thand2nd
Rileggo a distanza di nove anni dalla prima uscita, in occasione della riedizione di 66th2nd, L’ARTISTA di Gabriele Romagnoli. E ho anche ritrovato in rete la recensione che avevo scritto allora. Devo dire che al di là dell’ingenuità e del pensiero che adesso non la scriverei più così, sono sempre d’accordo con me stessa. L’ARTISTA rimane un romanzo riuscito, uno spaccato di storia italiana e personale, con un legame padre-figlio che è anche un profondo ritratto generazionale. Da allora però il mio sguardo ha cambiato prospettiva e mentre nove anni fa io ero il figlio, adesso mi sono sentita più l’artista. Con una patina di rassegnata malinconia che forse prima nascondevo meglio.


Bjorn Larsson, L’ULTIMA AVVENTURA DEL PIRATA LONG JOHN SILVER, Iperborea (traduzione di Katia De Marco)
Riconosco e ammetto senza vergogna la mia debolezza: amo il pirata Long John Silver, quel senso di giustizia tutto suo, ma così necessario, la crudeltà mai fine a se stessa ma così catartica. Soprattutto grazie a Larsson. Ho letto infatti per tre volte LA VERA STORIA DEL PIRATA LONG JOHN SILVER, l’ultima seduta su uno scoglio di un’isola deserta della Croazia, che ricordo ancora come uno dei momenti più belli della mia vita (mi accontento di poco, lo so...). Se Barbecue fosse passato di lì con la sua nave, sarei salita subito a bordo. Tutto questo per dire che ero molto diffidente di fronte a questo breve racconto che non mi decidevo a leggere. Che bisogno c’era di un’appendice alla magnifica storia che Larsson aveva già scritto? E così il libro navigava per casa, senza che mi decidessi mai a leggerlo. Per costringermi a farlo, l’ho infilato in borsa mentre andavo a Pisabook. Il sole, una promessa di mare e il dondolio del treno sono stati comunque un’ottima ambientazione per scoprire dove si è rifugiato Long John Silver e cosa sta facendo. Ma certo io non ve lo dico!

Magda Szabo, DITELO A SOFIA, Salani (traduzione di Antonio Sciacovelli)
Pensavo di avere ormai preso tutto dalla Szabo e che soprattutto lei avesse dato tutto con quel capolavoro assoluto che è LA PORTA. Quindi sono rimasta un po’ perplessa davanti a questa nuova traduzione. Ma è bastato iniziarlo per capire che la magia de LA PORTA si stava per replicare. Per chi ha letto il capolavoro della scrittrice ungherese e so che sono molti, visto che ho obbligato tutti quelli che conosco a farlo e anche molti gruppi di lettura, in DITELO A SOFIA c’è al centro della storia sempre una dicotomia, intanto tra adulti e bambini, poi tra chi sa essere ancora bambino e chi proprio no, e soprattutto tra la teoria e la pratica, un po’ come ne LA PORTA tra il lavoro fisico e quello intellettuale. Con il consueto stile ironico e raffinato e uno sguardo insieme complice e spietato sul mondo Magda Szabo racconta di Sofia, rimasta orfana dell’amatissimo padre e costretta a fare i conti con la visione distorta che la madre ha di lei. Judit Papp infatti vede in Sofia l’incarnazione del suo fallimento professionale; ambiziosa pedagogista, autrice di saggi sull’educazione dei bambini, ha una figlia apparentemente apatica, chiusa, con voti scolastici scadenti, pochi amici e una goffaggine imbarazzante. In realtà Sofia è una ragazzina acuta, di buon cuore, brillante e sognatrice, come hanno capito subito la sua insegnante, che non ha avuto figli, ma sa instaurare un rapporto empatico con i suoi allievi, e il burbero custode della scuola. Fa tristezza e tenerezza insieme l’incomprensione che divide madre e figlia e che impedisce a Jodit di godere appieno del dono della maternità. Tanto che attribuisce Marta, oltre che insegnante di Sofia, sua coetanea e collega di studio, le colpe degli insuccessi della figlia. Senza nascondere una immotivata gelosia. DITELO A SOFIA è un romanzo commuovente, divertente, ironico che racconta le diverse declinazioni della maternità.

Elizabeth Strout, I RAGAZZI BURGESS, Fazi (traduzione di Silvia Castoldi)
I fratelli Burgess mi hanno riconciliato con Elizabeth Strout, pluripremiata scrittrice americana, incoronata anche dal Pulitzer, che io trovavo noiosissima. Ci avevo provato con Olive Kitteridge e con Amy ed Isabelle e quando proprio pensavo di metterci una pietra sopra, arriva questo nuovo romanzo con la copertina dell’amato Hopper. Chiariamo subito, non lo metterei tra i miei libri preferiti e non la consiglio a chi ama romanzi dal ritmo incalzante e continui colpi di scena. Diciamo che adesso capisco l’indubbio valore letterario e perché abbia conquistato tanti lettori. E l’immobilità dei quadri di Hopper la rappresentano benissimo. Però questa volta l’apparente tono monocorde con cui racconta gli eventi più sconvolgenti e insieme i minimi gesti quotidiani dei suoi protagonisti, mi ha convinto. E vi ho anche trovato un velo di spietato umorismo che, probabilmente per colpa mia, non avevo scorto negli altri libri. Perché la vicenda che riunisce i tre fratelli Burgess è davvero paradossale: il figlio adolescente di Susan infatti viene arrestato per aver gettato una testa di maiale in una moschea. E così Jim e Bob sono costretti a tornare nel Maine dove sono cresciuti e dove hanno condiviso un’infanzia problematica. E non potrete non innamorarvi di Bob.

Michael Dahlie, TRASCURABILI CONTRATTEMPI DI UN GIOVANE SCRITTORE IN CERCA DI GLORIA, Nutrimenti (traduzione di Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai)
Avevo bisogno di un romanzo diciamo così poco impegnativo e dopo un’affannosa ricerca, ho scoperto che, grazie a Luigi, ce l’avevo! Non fatevi però ingannare dal titolo ironico, perché il romanzo di Dahlie è solo apparentemente leggero. Le avventure a New York di Henry, rimasto orfano a venticinque anni con un’immensa fortuna che non lo consola minimamente dalla perdita degli amati genitori, possono ricordare le storie di Wodehouse, ma rievocano anche l’ironia e l’umorismo dei libri di Jonathan Ames e insieme la sottile malinconia dei romanzi di Steve Martin. Forse OGGETTI DI BELLEZZA dell’attore e scrittore americano è una sorta di contraltare nel mondo dell’arte di quello che TRASCURABILE CONTRATTEMPI... è per il mondo letterario in cui si muove o vorrebbe muoversi Henry. La sua aspirazione infatti cozza contro le riviste d’avanguardia, i copywriter, le mode del momento, e i suoi racconti non sembrano destinati ad arrivare alla pubblicazione. Poi ci sono le vicende sentimentali di Henry, con l’innamoramento per la dolce e decisa Abby e le amicizie, poche ma affidabili. E la vita a New York, con i suoi locali dove Henry sembra sempre sentirsi fuori posto e i pasticci dove, nonostante la sua accortezza, riesce comunque a infilarsi. TRASCURABILI CONTRATTEMPI... mantiene quello che promette anche se, cosa che a me non dispiace per niente, spesso la commedia vira verso una sorridente malinconia.

Tupelo Hassman, BAMBINA MIA, 66thand2nd (traduzione di Federica Aceto)
Però... ho pensato quando ho finito BAMBINA MIA. Perché prima di leggere avevo scorso la biografia di Tupelo Hassman e avevo visto che questo è il suo libro d’esordio. Certo se questo è solo l’inizio. Il romanzo ha quasi un passo classico, una discesa all’inferno quotidiano che ricorda più Celine che scrittori contemporanei. E’ la storia dell’inevitabile, dei destini già tracciati. Perché per “Rory Dawn Hendrix, figlia debole di mente di una figlia debole di mente, lei stessa il prodotto di una schiatta debole di mente” non ci sono molte speranze di uscire dalla Calle, un campo caravan nella profonda periferia di Reno, in Nevada. La scrittrice però non eccede in riflessioni e giudizi e anzi lascia la parola alla mera quotidianità della nostra antieroina. Che si occupa della madre, bellissima e alcolizzata e della nonna, instabile giocatrice d’azzardo. E ha come riferimento educativo il manuale delle girl scout che una compassionevole bibliotecaria le ha regalato. Lì Rory prende la sua filosofia di vita, dal galateo spiccio alle grandi questioni esistenziali. Eppure via via sorgono dei piccoli boccioli di speranza, come la passione della madre per i romanzi di Kerouac o l’incredibile bravura di Rory nelle gare di ortografia. Ma tutto sembra poi perdersi nell’inevitabile polvere che circonda i caravan. Case provvisorio per vite provvisorie.

Melania Mazzucco, SEI COME SEI, Einaudi
“Come hai capito che eri innamorato di lui? gli chiede Eva. [...] Non potevo stargli lontano – dice, sorridendo. Volevo toccarlo, baciarlo, abbracciarlo, in qualunque momento e dovevo quasi legarli le mani, perché sai, non ci potevamo abbracciare per strada, noi due ... Dopo qualche anno che stavamo insieme, le differenze fra noi si sono attenuate, e abbiamo cominciato ad assomigliarci. Siamo diventati come strumenti musicali accordati sulla stessa tonalità. Io restavo la chitarra, e lui il pianoforte, ma suonavamo la stessa musica, non so se riesco a spiegartelo. Ci piacevano gli stessi film, detestavamo le stesse persone, ci capivamo anche solo guardandoci. La vita dell'uno orbitava intorno a quella dell'altro e ne traeva forza, e luce. Suppongo che l'amore sia questo”. L’amore è sicuramente questo, ma anche molto altro e il nuovo romanzo di Melania Mazzucco ne sembra una sorta di preziosa collezione. Certo, tra tutti, c’è l’amore di una figlia per i suoi genitori, Christian e Giose, che decidono di non rinunciare al loro desiderio di paternità. Così arriva Eva e mentre Christian si dedica alla carriera universitaria, sarà Giose a crescere nel quotidiano la bambina. Ma l’improvvisa morte di Christian, che risulta il padre biologico di Eva, distrugge l’intera famiglia. A Giose, infatti, viene negato l’affidamento della bambina che è costretta a vivere con gli zii, lontana dal padre. Finché la sua rabbia esplode e a undici anni Eva fugge per cercarlo, per capire se si è davvero dimenticato di lei. Riesce ad affrontare un lungo viaggio attraverso l’Italia per raggiungere Giose, che si sta leccando le ferite, nella vecchia casa dei suoi genitori, in un paesino sperduto e coperto dalla neve sugli Appennini. SEI COME SEI è anche un romanzo generazionale, uno spaccato sull’Italia che viviamo e a cui i quarantenni di oggi sembrano non essere stati preparati. Magistralmente è raccontata anche l’età di Eva, in quel limbo anagrafico in cui non si è più bambini, ma neanche adolescenti, con le sensazioni che schizzano a mille in pochi secondi e le ferite dell’infanzia che non smettono di bruciare. Eva è intelligente, matura, aperta, anche grazie all’amore che Giose e Christian non le hanno mai fatto mancare, insieme a uno sguardo puro e fiducioso sul mondo. Ma è il mondo quotidiano in cui vive che non è alla sua altezza, che non sa capire l’assurdità di dividere un padre e una figlia e che non garantisce i diritti delle coppie di fatto. Sembra che per Eva sia inevitabile soccombere alla rigidità della legge e di chi la applica, all’ottusità degli adulti, alla derisioni dei compagni. E soprattutto alla sfiducia verso la società e verso suo padre. E’ questo il delitto più grande, far perdere a una bambina la fiducia verso chi l’ha fortemente voluta, amata, cresciuta. SEI COME SEI dimostra come la letteratura non ha perso il suo valore civile.

Teju Cole, CITTÀ APERTA, Einaudi (traduzione di Gioia Guerzoni)
Libro che mi girava intorno da un po’, ma che non mi decidevo a leggere. Poi, come sempre, la componente umana è decisiva nella lettura e così quando un amico me l’ha caldeggiato l’ho subito recuperato dal fondo della pila. L’ho letto e da allora mi arrabbio con me stessa per non averlo fatto prima. Sarebbe cambiato qualcosa? Per me forse no, ma magari ve lo avrei segnalato prima, come mi rimproverano alcuni lettori. Stavolta hanno ragione perché avrei dovuto immediatamente accorgermi di trovarmi di fronte a un romanzo originale e seducente, letterario e irresistibile. Colpisce da subito la capacità narrativa di Cole, che sembra prendere per mano il lettore, e senza strattonarlo troppo, ma anche senza lasciarlo andare, lo porta in giro per le vie, i grattacieli, i negozi della Grande Mela. Il camminare senza meta ricorda i romanzi di Murakami, ma qui oltre che verso se stesso, il giovane protagonista rivolge i suoi pensieri a quello che vede e alle persone che incontra. Lo sguardo di Julius, padre nigeriano e madre tedesca, specializzando in psichiatria, è insieme estraneo, come se visitasse uno zoo, e nello stesso tempo emotivamente partecipe. Tutto il romanzo racconta di appartenenza e estraneità, migrazioni e ritorni, di subitanei riconoscimenti e insanabili diversità, di origini e tradimenti, di conquiste e speranze deluse. Tanto che è necessario rileggerlo per coglierne la ricchezza e avventurarsi di nuovo nelle vie di New York, ma anche nei meandri della mente umana, nel collegio in Nigeria dove Julius ha trascorso l’adolescenza, nella Bruxelles piovosa e piena di sorprese, non solo per il protagonista ma anche per il lettore. Cole infatti non cerca furbescamente di accattivarsi il lettore e quindi non mancano ipotesi disattese, vedi la ricerca della nonna o il rapporto con Moji, che però fanno parte delle regole del gioco tra chi scrive e chi legge. E quando pensiamo di avere capito, di essere alla pari con il narratore, scopriamo invece che abbiamo ancora molte suole di scarpa da consumare. CITTÀ APERTA è un romanzo di paesaggi, dove il protagonista sembra un osservatore instancabile di luoghi, ma alla fine è un turista di anime, compresa la sua. Ottima poi la traduzione di Gioia Guerzoni, che riesce a rendere la raffinatezza dello stile di Cole e la vivacità della sua scrittura. Allora? Cosa aspettate?

Bernard Quiriny, LA BIBLIOTECA DI GOULD, L’orma (traduzione di L. Di Lella e G. Girimonti Greco)
Preparatevi, perché una volta iniziato questo libro non lo lascerete più. Nel senso che anche quando l’avrete finito, vorrete sempre averlo sottomano e anche se siete generosi con i vostri libri, questo non lo presterete mai a nessuno. Perché ha delle pagine così ironiche, divertenti, dissacranti, tenere e intelligenti sui libri e sui loro lettori, che non si smetterebbe mai di leggerlo e rileggerlo. Tanto che vi farà rimpiangere di non trovare la coda alle poste o in banca, dove ve lo siete portati. La Biblioteca di Pierre Gould infatti è estremamente viva e senza dubbio unica: vi troverete le città di Calvino, ma anche le costruzione fantastiche di Borges insieme ai giochi linguistici di Queneau. Ma soprattutto vi troverete libri incredibili, lettori strani oltre ogni immaginazione, scrittori ancora più incredibili. LA BIBLIOTECA DI GOULD è una collezione senza pari ed entrarvi è come avventurarsi in un lunapark dei libri, in un acquario pieno di pesci che lasceranno voi a bocca aperta. Le trovate di Quiriny, trentenne scrittore belga, maestro della short story, non sono mai artificiose, ma raggiungono sempre un buon equilibrio tra la raffinatezza stilistica e le trovate letterarie. Alcune delle storie sono anche perfette da leggere ad alta voce, nei gruppi di lettura o se organizzate serate con altri lettori. Non vi dico altro...

Maria Rosaria Valentini, MIMOSE A DICEMBRE, Keller
Ho cominciato questo libro con una nota di scetticismo perché avevo paura che potesse cadere nell’eccessivo sentimentalismo, cosa che sopporto sempre meno. Sarà l’età...
Non so però perché avessi maturato questa sensazione, perché la bella copertina non suggerisce un romanzo mieloso.
Sicuramente la scrittura di Maria Rosaria Valentini è allusiva e poetica, ma in realtà non scade in uno sfoggio di bella scrittura o in un compiacimento sentimentale. Anzi, diciamo che riesce a raccontare la storia di Adriana, che lascia la Romania a vent’anni per fare la badante a Roma, con uno stile raffinato e preciso che nulla però ci risparmia della desolazione e della tristezza della giovane protagonista. Anche perché in Adriana convivono insieme una dolente disillusione e uno spirito infantile e sognante, caratteristiche che ne fanno un personaggio complesso che mette in crisi il lettore.

Luca Ferrieri, FRA L’ULTIMO LIBRO LETTO E IL PRIMO NUOVO DA APRIRE. LETTURE E PASSIONI CHE ABITIAMO, Olschki
Anche senza sapere chi è e cosa fa Luca Ferrieri, già all’inizio della lettura di FRA L’ULTIMO LIBRO LETTO E IL PRIMO NUOVO DA APRIRE si capisce di trovarsi di fronte a un bibliotecario. Solo infatti chi conosce a fondo i meccanismi della biblioteca, i principi della biblioteconomia, i segreti dell’archivistica e tutte le sfaccettature di un’opera a stampa, può aver concepito e per di più realizzato un’opera di tale genere. Questo per quanto riguarda la struttura del testo. Perché per il contenuto è Ferrieri stesso un’intera biblioteca. Vero è che il bibliotecario racchiude in sé una tale quantità di competenze, che riesce magicamente a sintetizzare in un unico professionista, che è difficile anche solo spiegare in cosa consiste il suo lavoro. E forse per questo viene molto spesso banalizzato, ma non credo di offendere la dignità professionale di nessuno, sottolineando che Ferrieri mette in campo anche le conoscenze e le capacità speculative di un filosofo piuttosto che di un critico letterario, di uno studioso di neuroscienze oltre che di un antropologo. Lui forse direbbe di un lettore. Dopo questa premessa, tentiamo di dare qualche indicazione sul libro, che si può leggere in molti modi. Mi sembra infatti che già l’impaginazione anticipi il contenuto, sottolineando la ricchezza e anche la difficile catalogazione dell’arte di leggere. Da una parte infatti si articola un discorso teorico su cosa significa leggere o meglio su cosa succede quando leggiamo. E quindi le passioni che entrano in gioco, i sentimenti, i meccanismi psicologici, le parole-chiave. Per farvene un’idea immergetevi anche solo nell’indice e magari sceglietevi un punto di partenza da lì. La parte teorica raccoglie davvero tutto quello che sulla lettura di valido è stato scritto. Anche non con quell’intento, ma adattando le parole di scrittori, poeti piuttosto che di filosofi o scienziati alla teoria della lettura. Nella parte a destra invece si declina un altro libro, fortemente legato al primo, ma che ne è in qualche modo il contraltare personale dell’autore. Cambia il tono, più colloquiale; sono citati più scrittori, gli autori più amati e frequentati e anche molte riflessioni più quotidiane e carnali su abitudini, vizi e manie di un lettore. Ci sono anche degli spunti polemici e dei passi molto poetici. In realtà poetico è uno degli aggettivi che userei più spesso per descrivere il lavoro di Ferrieri. FRA L’ULTIMO LIBRO LETTO E IL PRIMO NUOVO DA APRIRE si può leggere come il romanzo della lettura, ma anche tenere in consultazione come un codice. E’ insieme un’inesauribile fonte di consigli e spunti di lettura, ma anche una ricca fonte di riflessioni da condividere con gli altri lettori. Come questa: "... La lettura: un'arte silenziosa, schiva, misconosciuta, abituata a lavorare sotto traccia, che non aspira alla gloria e al successo, che dirige la sua passione nello scegliere, nell'interpretare, nel convivere, nel gioire di una prospettiva diversa. Machado De Assis diceva che sul frontespizio di un libro, accanto al nome dell'autore che l'ha scritto, dovrebbe andare il nome del lettore che l'ha letto, perché è altrettanto importante. Ma ciò forse strapperebbe il lettore dall'ombra che si è scelto, trascinando sulla piazza una lettura che dà il meglio di sé quando si frange sulla riva e sembra che non ne resti nulla, fino all'ondata successiva".

Sally Gardner, IL PIANETA DI STANDISH, Feltrinelli (traduzione di Delfina Vezzoli)
All’inizio ero un po’ scettica su IL PIANETA DI STANDISH perché raccontare letterariamente l’ingiustizia, la resistenza al male, l’opposizione senza speranza ai potenti è sempre difficile, soprattutto in un libro per ragazzi. In realtà Sally Gardner non solo ha smentito le mie immotivate preoccupazioni, ma con IL PIANETA DI STANDISH apre tantissime porte sulla realtà e dentro di noi, regalandoci un libro senza età, rendendo così anche giustizia alla letteratura. Non ci sono sbavature nella storia di Standish, adolescente-bambino che non sa neppure leggere ma che capisce presto cosa sta accadendo nel suo mondo, in un ipotetito 2056. Lui infatti vive nelle Zona Sette, quella che la madrepatria riserva ai dissidenti e agli avversati del regime. E agli imperfetti come lui. Poi arriva Hector e Standish scopre l’amicizia e il desiderio di rimettere a posto le cose, o almeno cercare di combattere le ingiustizie. La sua sarà un’azione folle e necessaria insieme, ma lascio a voi scoprire di cosa si tratta, perché amerete il libro parola per parola. A voler essere proprio pignoli, l’unico aspetto che mi ha un po’ infastidito è che un adulto può in qualche modo riconoscere le aree geografiche a cui sono ispirate la madrepatria e il paese della libertà. Ma sono solo dettagli.

Elvira Seminara, LA PENULTIMA FINE DEL MODO, nottetempo
Esistono libri leggeri, intelligenti, ironici, fantasiosi e realistici insieme? Non molti, ma LA PENULTIMA FINE DEL MONDO sicuramente lo è. Leggero nel senso che si giostra bene tra dramma e commedia e anzi l’autrice ammicca con un misto di ironia e complicità al lettore. E’ una cosa che sanno fare in pochi, ma che mi piace sempre molto. Come si può infatti far sorridere, raccontando di un paese ai piedi dell’Etna dove uomini e donne di tutte le età, con diverse situazioni familiari, sociali ed economiche cominciano a suicidarsi? Per di più, assolutamente inaspettatamente, e con il sorriso sulle labbra? Elvira Seminara sa usare l’ironia sulla realtà senza spingere troppo sul pedale del sarcasmo ed evitando facili e scontate considerazioni. Grazie anche alla raffinatezza delle trovate narrative e a un personaggio che via via prende sempre più il centro della scena. Perché forse solo uno scrittore può raccontare le cose più incredibili e soprattutto pensare di essere creduto.

Peter May, L’ISOLA DEI CACCIATORI DI UCCELLI, Einaudi (traduzione di Anna Mioni)
Orfani di Mankell, lettori di Nesbo e Rankin, estimatori di Simenon, amanti delle atmosfere non scontate, non fatevi scappare L’ISOLA DEI CACCIATORI DI UCCELLI di Peter May. Perché è molto più di un giallo e piacerà sicuramente anche a chi solitamente non ama il genere. Di pari passo infatti con l’indagine per la morte piuttosto scenografica di un uomo violento e odiato, seguiamo le vicende del viceispettore della polizia di Edimburgo Fin MacLeod, che non vuole più essere un poliziotto e sta prendendo una laurea in informatica per poter cambiare lavoro. Ma è il paesaggio il vero protagonista della storia, non solo per la natura violenta che sembra rispecchiare la durezza degli abitanti dell’isola di Lewis, non lontana dalle coste scozzesi, ma anche per l’isola del titolo, dove una volta all’anno una spedizione di dodici uomini compie una sanguinaria mattanza, uccidendo duemila piccoli di gula, uccelli dalla carne tenera e succulenta. Il romanzo di May è anche una profonda riflessione sul passato (“Sulle spalle di Fin pesava la sensazione che tutti loro avessero sprecato le loro vite, avessero sprecato le loro occasioni per stupidità o negligenza, e questo lo gettò in uno sconforto profondo) e sul bilancio che siamo costretti a fare sulla nostra esistenza: "La vita ti supera in un lampo, come un autobus in una notte piovosa a Ness. Bisogna essere certi che ti abbia visto e che si fermi per farti salire, altrimenti parte senza di te, e tu non puoi fare altro che tornare a casa, abbattuto, sotto la pioggia e il vento". L’ISOLA DEI CACCIATORI DI UCCELLI è anche un libro sulla paternità e sulle responsabilità dei padri e non è un caso che si apra con la morte del figlio di otto anni di Fin e si concluda con la promessa di un incontro tra un padre e un figlio.

Dana Reinhardt, IL GIORNO IN CUI IMPARAI A VOLARE, Mondadori (traduzione di Valentina Marconi)
Dopo la lettura del giallo di May, passo a un libro per ragazzi, il cui titolo mi trasmetteva un avviso di banalità, ma che invece mi assicuravano di grande qualità. Avevano ragione. La cosa curiosa è che ho trovato un altro Finn, questa volta è un musicista di strada che in qualche modo aiuta i due protagonisti. Ma partiamo con ordine: all’inizio conosciamo la tredicenne Drew, orfana del padre, molto legata alla mamma che gestisce un negozio di formaggi. Ed è lì che Drew passerà l’estate, non solo per aiutare, ma anche per stare vicino a Nick, il bel surfista, maestro della pasta fresca. Sembra un’estate già pianificata, ma via via tutto cambia, a partire dal diario del padre che Drew scopre nell’armadio della madre e che diverrà una sorta di guida morale per la tredicenne. Che conosce Emmett, misterioso ragazzo che vorrebbe essere suo amico, ma non sa come si fa. Come si può non sapere cos’è l’amicizia? Drew scoprirà con Emmett un mondo diverso dal suo, fatto di fuga e sofferenza, ma anche di voglia di sognare e di cambiare il mondo. Per... imparare a volare.

Alejandro Zambra, MODI DI TORNARE A CASA, Mondadori (traduzione di Bruno Arpaia)
Sono stata molto incerta se segnalare o meno questo libro. A metà lettura non avrei avuto dubbi, ma purtroppo non ho trovato la seconda parte all’altezza della prima. Ho avuto la sensazione che Zambra avesse un po’ perso la bussola della storia, ma forse era la sensazione che voleva dare. Anche perché il romanzo comincia proprio con il piccolo protagonista che si perde, ma poi riesce ad arrivare a casa prima dei genitori. E questa immagine è probabilmente anche il senso del libro: “Il romanzo è il romanzo dei genitori, pensai allora, penso adesso. Siamo cresciuti pensando questo, che il romanzo fosse dei genitori. Maledicendoli, e rifugiandoci anche, sollevati in quella penombra. Mentre gli adulti uccidevano o morivano, noi disegnavamo in un angolo. Mentre il paese cadeva a pezzi, noi imparavamo a parlare, a camminare, a piegare i tovaglioli a forma di barche, di aerei. Mentre il romanzo accadeva, noi giocavamo a nasconderci, a sparire”. Il protagonista torna a casa, in Cile, nel 2010 e un forte terremoto lo riporta a quello devastante del 1985, quando a nove anni si ritrova improvvisamente a vivere nelle tende allestite per strada. Qui incontra Claudia, una misteriosa ragazzina che lo metterà di fronte a molti interrogativi, e in particolare quello che riguarda Pinochet e la posizione di suo padre negli anni del regime. MODI DI TORNARE A CASA è il romanzo dei genitori e dell’eredità che lasciano ai figli e di cosa decidono di fare i figli di quell’eredità: ignorarla, rifiutarla, contestarla, usarla per diventare migliori.

Leif G.W. Persson, L’ULTIMA INDAGINE, Marsilio (traduzione di Giorgio Puleo)
Per fortuna che ci sono gli amici! Devo ammettere che Leif G.W. Persson non è tra i miei giallisti preferiti e quindi non avevo nessuna intenzione di leggere L’ULTIMA INDAGINE. Ma dopo le insistenze molto decise di Marilia, ho deciso almeno di cominciarlo. E in poche ore l’ho finito. I difetti che ho trovato negli altri gialli dello scrittore svedese sembrano improvvisamente scomparsi. L’ULTIMA INDAGINE infatti è agile, incalzante, non scontato e la forma del diario gli dà un ritmo a cui non si riesce a resistere. Tutto comincia il lunedì 5 luglio 2010: Lars Martin Johansson, sessantasette anni, da tre in pensione da capo della polizia, si ferma al chiosco che vende le migliori salsicce di Svezia e prima di poterle addentare viene colpito da un ictus. Soccorso tempestivamente, si ritrova in ospedale con la mano destra fuori uso. Questo però non gli impedirà di occuparsi di un delitto rimasto irrisolto per 25 anni e appena caduto in prescrizione. Perché le vie della giustizia possono essere tante e la piccola Yasmina, violentata e uccisa a soli nove anni, merita di non essere dimenticata. L’indagine, l’ultima per il “capo” Johansson, si intreccia con la vita personale dell’uomo, posto di fronte, dalla malattia, a un dilemma esistenziale doloroso sui confini che definiscono una vita degna di essere vissuta.

Paolo Piccirillo, LA TERRA DEL SACERDOTE, Neri Pozza
Ecco una di quelle recensioni che ho tardato tantissimo a scrivere. Perché il libro meriterebbe una decantazione ulteriore e anche più riletture. Diciamo intanto che non sono state deluse le alte aspettative che avevo. Di Piccirillo avevo amato ZOO COL SEMAFORO e mi ero convinta del suo indubbio talento. Che nessuno potrà negare anche solo leggendo le prime pagine di LA TERRA DEL SACERDOTE. Al di là infatti della storia, che non sto certo a riassumervi, quello di cui vi accorgerete subito è che Paolo Piccirillo ha una sua voce e sa creare un’atmosfera. Dalla quale sarete inesorabilmente avvolti e da cui non vi libererete facilmente. La vicenda si sposta dalla misera campagna molisana, da un mondo arcaico e medioevale, alla Germania della speranza e del lavoro, senza che il lettore riesca a togliersi di dosso un forte sentimento di desolazione. Lo scrittore non giudica i suoi personaggi, però fornisce al lettore tutti gli elementi per poterli conoscere e considerare come anche nel peggiore spunti un barlume di umanità e nel migliore fuoriesca una zona buia. LA TERRA DEL SACERDOTE è insieme immaginifico ed estremamente realistico, crudo fino all’aberrazione, potente e mai banale. Un libro assolutamente da leggere.

Rolf Lappert, PAMPA BLUES, Feltrinelli (traduzione di Alessandro Peroni)
Approfitto di agosto per tentare di mettermi in pari (un’illusione...) con le letture accantonate nei mesi precedenti. In particolare quelle considerate per ragazzi, ma che sono spesso migliori dei cosiddetti libri per adulti. Prendete PAMPA BLUES. Ho trovato raramente la descrizione di un rapporto tra un adolescente e un anziano, per lo più malato di Alzheimer, descritta con più realismo e una verosimiglianza quasi commuovente. Perché Ben, sedici anni, è intrappolato a Wongroden a causa del nonno, che la madre gli ha bellamente affidato con la promessa, non mantenuta, di tornare presto. Il paesino è praticamente deserto, a parte un pub, la pompa di benzina e un negozio di alimentari. Ben può almeno dedicarsi ai motori, la sua passione e al pulmino che sta allestendo per andare in Africa, sulle tracce del padre morto in un incidente aereo. Abbandonate a se stesse le serre che doveva coltivare per avere una borsa di studio, si occupa dell’anziano nonno, completamente dipendente dal nipote e immemore di se stesso. Lappert ci racconta in particolare tutti gli aspetti pratici della convivenza e delle cure che Ben deve avere per Karl, per il quale prova sentimenti contrastanti. Soprattutto quando sembra essere diventato l’ostacolo insormontabile tra lui e la ragazza di cui si innamora. Un romanzo vero, intenso, amaro e divertente come la vita.

Favel Parrett, LA LUCE DI CLOUDY BAY, Gran via (traduzione di Carla Togni e Giovanni Giri)
“Mare che era sempre là. Sempre dappertutto. Il suono e l’odore e le onde fredde facevano sentire Harry diverso. E non dipendeva solo dal fatto che fosse il più piccolo. Adesso sapeva che le sensazioni che l’oceano gli ispirava non l’avrebbero mai abbandonato. Sarebbero rimaste per sempre dentro di lui”. La storia di Harry e dei suoi fratelli vi incatenerà alle pagine e non vi lascerà andare sino alla fine. E anzi, vi rimarrà dentro a lungo. L’esordio della giovane Favel Parrett impressiona per la capacità di entrare nei personaggi e metterli in relazione con la natura che li circonda. Con l’oceano che Miles ama cavalcare con la tavola, ma che odia quando deve andare sul peschereccio del padre. Con la foresta che Harry attraversa per incontrare di nascosto l’amico eremita George. E il paesaggio grandioso e violento della Tasmania viene rievocato nei suoi aspetti più spaventosi dalla figura del padre dei tre fratelli e dal suo squallido compare Jeff. LA LUCE DI CLOUDY BAY è un romanzo di lotta: lotta per sopravvivere, lotta per resistere e non piangere, lotta per rimanere ma anche per andarsene. Dove i tre giovani fratelli non sembrano poter contare che su se stessi e sul loro forte legame. Perché gli adulti, e in particolare quelli loro più vicini, sembrano impegnati a distruggerli più che farli crescere.

Denis Johnson, TRAIN DREAMS, Mondadori (traduzione di Silvia Pareschi)
Ci sono libri che sono luoghi. Appena ho cominciato TRAIN DREAMS ero già negli sterminati boschi americani, insieme ai boscaioli intenti al trasporto legnami per costruire la ferrovia. E mi sono ricordate che ci ero anche già stata grazie a ULTIMA NOTTE A TWISTED RIVER di John Irving. E Johnson è all’altezza di Irving e ci regala una storia apparentemente dura ma tenera dentro, come il suo protagonista. Robert Grainier infatti appare come un uomo implacabile e deciso che partecipa alla rapida industrializzazione del suo paese. A qualsiasi costo. Ma in realtà nasconde un animo quasi poetico che si esprime nei rapporti con la moglie e la figlia e nell’amore per la natura. Nel breve romanzo lo scrittore americano ne ripercorre l’intera esistenza, senza farci desiderare pagine in più, ma regalandoci la possibilità di entrare nella vita di Robert, di sentirlo uno di noi.

Maite Carranza, PAROLE AVVELENATE, Atmosphere (traduzione di Simone Cattaneo)
Ecco un esempio di come si possa raccontare qualsiasi storia, basta saperlo fare. Maite Carranza riesce a entrare nel mondo della quindicenne Barbara Molina e soprattutto della sua famiglia. Una famiglia apparentemente normale: un padre lavoratore e forte, una madre affettuosa, anche se un po’ fragile, due fratelli, una zia e uno zio senza figli e quindi molto legati alla nipote, che trascorre con loro anche le vacanze estive. Fino a quando Barbara scompare e dopo una drammatica telefonata interrotta, non si trova più nessuna traccia di lei, viva o morta. A un giorno dalla pensione il viceispettore che si era incaricato delle indagini, decide, dopo quattro anni, di riaprirle. Il romanzo è questo: l’ultima giornata di lavoro di Salvador Lozano alla ricerca della fine che ha fatto Barbara. Rimarrete senza fiato.

Denis Lachaud, IMPARO IL TEDESCO, 66th and 2nd (traduzione di Sergio Claudio Perroni)
Nicol Ljubic, MARE CALMO, Keller (traduzione di Franco Filici)

“Ho in me i suoi cromosomi, mi ha trasmesso i suoi occhi di un blu slavato, i suoi zigomi alti, arrotondati, i suoi capelli biondi come la paglia... Ho in me le fosse, i carnai, il filo spinato, i treni, le camere a gas, i forni crematori, Auschwitz... A tutto ciò che non è me stesso, che non dipende dal mio pensiero, dalle mie scelte, dalle mie azioni, non sfuggirò mai, come non si sfugge a una profezia”. “Ma la colpa non è mica ereditaria! Tu puoi essere una persona squisita, anche se tuo padre ha ucciso qualcuno. Forse a maggior ragione, perché in un caso del genere faresti di tutto per essere diverso”. Quello che sembra un dialogo serrato, l’ho estrapolato in realtà da due libri diversi, ma che hanno molti punti in comune e, anzi, più li rileggo più ne trovo. Sottolineo rileggere perché mi hanno fatto entrambi lo stesso effetto e li ho letti in poche ore. Provocano infatti una prima lettura emotiva, dove non puoi smettere di sentire e pensare con i protagonisti. Ma i temi importanti che raccontano sono supportati da un indubbio talento letterario e da una struttura narrativa raffinata ed efficace. Ma andiamo per ordine: IMPARO IL TEDESCO è la storia di Ernst, nato negli anni Sessanta a Parigi da genitori tedeschi che non parlano mai la lingua madre. Allora Ernst decide di imparare il tedesco e di andare in Germania alla ricerca di risposte sulla sua famiglia. In MARE CALMO nella storia d’amore dei ventenni Robert e Ana si intromette il passato della ragazza e di un intero popolo. Sono quindi due romanzi che danno voce alle generazioni i cui genitori o nonni hanno vissuto direttamente la guerra, non senza conseguenze drammatiche. Dove il confine tra vittime e carnefici spesso non è così netto (“In quanto serba, tutti mi vedono come potenziale carnefice, senza sapere niente della mia vita e dimenticando che ci sono vittime anche tra i carnefici e che le vittime diventano carnefici nel momento in cui ne hanno l’opportunità”). Dove i giovani da una parte sentono l’esigenza di conoscere per poter costruire il proprio futuro, dall’altra preferirebbero togliersi dalle spalle una pesante eredità. Dove i personaggi per questo cambiano paese e lingua e dove neppure i tribunali riescono a trovare la verità assoluta. Dove si racconta l’amore, l’amicizia, il senso di appartenenza, la nostalgia per il proprio paese. Due libri che dovrebbero essere in un’ideale antologia per raccontare l’Europa. Perché se da una parte ne mettono in discussione la superficiale idea unitaria, dall’altra almeno confortano sul futuro della letteratura. Se questi sono gli scrittori europei, allora possiamo stare tranquilli che ci sarà sempre qualcuno in grado di raccontarci.

Giacomo La Franca, PIETRE CADUTE, Eclissi
Grazie alla libreria "Il domani" di Milano, dove vi consiglio di fare un salto per la bravura delle libraie, ho scoperto questo romanzo e il suo editore. E’ stata una piacevole sorpresa. PIETRE CADUTE ha da subito un ritmo rock. Paolo ha un destino segnato, ma non può lamentarsi: è bello, ricco, destinato a ereditare lo studio del padre. Ha una fidanzata di cui è molto innamorato e una famiglia unita. Allora perché buttare via tutto? Cosa gli impedisce di adeguarsi a una realtà che molti gli invidiano? Quello che mi ha favorevolmente colpito del romanzo è il tono ammiccante nel raccontare, il ritmo coinvolgente e ironico, soprattutto nella prima parte. Per chi è stato ragazzo negli anni Ottanta sarà un piacevole bagno nel passato. Per tutti un romanzo piacevole, ironico, a tratti forse inverosimile, ma sempre delicato e capace di rendere la complessità di un’esistenza non certo banale.

Lazlo Krasznahorkai, MELANCOLIA DELLA RESISTENZA, Zandonai (traduzione di Dora Mészaros e Bruno Ventavoli)
Ci sono libri, pochi, che appena comincio a leggerli, sento che sono dei grandi libri. Incontestabilmente. Magari capisco poco, la storia né mi interessa, né mi riguarda particolarmente, ma dentro di me si accende una luce e comincio a provare anche una certa soggezione. Allora raddrizzo la schiena, guardo se sono ben in ordine e pettinata, metto gli occhiali migliori, impugno una matita e continuo a leggere. Poi non leggo sicuramente di getto, perché questi sono libri che hanno bisogno di sedimentare, però ci penso continuamente con una sensazione insieme di conforto ma anche di preoccupazione. Sarò un lettore all’altezza? Altro effetto collaterale è che, se l’autore, come in questo caso, è vivente, comincio a tormentare il comitato di Festivaletteratura e quindi potrete ascoltare Lazlo Krasznahorkai a Mantova a settembre. E avete tutto il tempo di leggere MELANCOLIA DELLA RESISTENZA. Non vi sembra che già il titolo lo renda in questo momento un libro necessario? Dopo questo lungo preambolo non mi resta che parlarvene, ma è difficile raccontare la varia umanità protagonista del romanzo. E forse la metafora del circo è la più scontata ma anche la più efficace. Al centro della vicenda infatti troviamo questa carovana che esibisce il corpo di una gigantesca balena e che arriva un giorno in un’anonima ma tranquilla cittadina ungherese. Il vero circo si scatena in paese. A partire dal Movimento per la pulizia e l’ordine, sino a un vecchio e talentuoso musicista assediato da una ex-moglie vendicativa e alla crudele indifferenza di una madre verso il figlio. Per non parlare del capo della polizia e di tutti gli altri personaggi che, bene o male, devono fare i conti con la balena e lo sconquasso che provoca nella grigia cittadina di provincia. Ma chiaramente la storia è un sapiente pretesto per raccontare l’animo umano e per cercare di ritrarre l’imprevedibile ricchezza dei nostri comportamenti. Dotato di un’ironia insieme compassionevole e grottesca lo scrittore ungherese compone un’opera unica, ricca e complessa, talmente densa e poderosa da necessitare una lettura altrettanto densa e concentrata. Per non parlare della scrittura, avara di punteggiatura e per questo a sei marce, con accelerazioni improvvise alternate a poetiche digressioni, rocambolesche e affannate corse tra le vie dell’anonima cittadina e lente e interminabili riflessioni dei protagonisti. Un libro che ricorda LA STRADA di Fellini, i romanzi di Sebald, i personaggi del TAMBURO DI LATTA di Gunther Grass, la favola del pifferaio magico. MELANCOLIA DELLA RESISTENZA riesce ad essere insieme un romanzo polifonico e un flusso di coscienza alla Joyce, e, come lo ha definito Susan Sontag, “un’anatomia della desolazione nella sua forma più spaventosa e un commuovente manuale per resistere a quella desolazione”.

Ota Pavel, LA MORTE DEI CAPRIOLI BELLI, Keller (traduzione di Barbara Zane)
Ormai non ci si stupisce più, ma certo bisogna sempre fare i complimenti a Roberto Keller e alla sua squadra per i magnifici libri che continuano a pubblicare, senza sbagliare un colpo. Il libro di Otal Pavel in particolare è assolutamente senza controindicazioni e va bene per tutti i lettori. Perfetto da portarsi in giro in caso di code, attese o viaggi, di uguale soddisfazione sotto l’ombrellone o in riva al lago. Somministrazione consigliata in ogni luogo e situazione. E non è poco. Perché LA MORTE DEI CAPRIOLI BELLI, uno dei capolavori della letteratura europea contemporanea, ci immerge nelle storie ora divertenti ora più amare della famiglia Popper, che incrociano le vicende dell'Europa di prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Pavel riesce a restituire le storie quotidiane della famiglia ceca toccando tutti i registri narrativi, dal comico al drammatico, dall’ironico al riflessivo. Sembra di leggere Mark Twain coniugato con Italo Calvino. E così anche noi ci troviamo sulle sponde del laghetto di Buštěhrad, “sdraiati con lo sguardo che punta al cielo e il cuore colmo di stupore”.

Paolo Nori, LA BANDA DEL FORMAGGIO, Marcos y marcos
I libri sono sempre legati alle occasioni di lettura e questo si porta dietro tante coincidenze e anche delle situazioni un po’ ridicole. Intanto avevo una certa aspettativa sul nuovo romanzo di Paolo Nori. L’ho letto in bozze perché ci tenevo, se mi avesse convinto, a recensirlo nell’ultima pagina di libri che avrei scritto per GQ. Così mi sono stampata le bozze e me le sono portata in un viaggio in treno Milano-Rimini e, senza saperlo, mi sono spesso ritrovata a ripercorrere passo passo i luoghi della storia. Il libro poi finisce proprio a Rimini. Man mano che leggevo stracciavo le pagine per inserirle in quei ridicoli cestini metallici. Giravo per il treno infilandole qua e là. Mi sentivo molto agente segreto, gli altri viaggiatori credo abbiano pensato altro. I libri di Nori hanno sempre la sua voce, fisica, intendo. A volte questo è un limite perché segui il ritmo e meno le parole. LA BANDA DEL FORMAGGIO ha una voce sua, forse più intima e malinconica degli altri libri, ma anche più profonda. E’ sempre lui, ma anche altro. Chi lo legge da sempre come me non rimarrà deluso, chi comincia da qui, vorrà subito leggerlo ancora.

Percival Everett, SOSPETTO, Nutrimenti (traduzione di Paolo Cognetti e Federica Bonfanti)
Non so se capita anche a voi, ma a volte maturo delle passioni incondizionate per un autore, di cui leggo tutto con un incrollabile e mai deluso senso di aspettativa. Una sorta di colpo di fulmine prolungato. Mi è successo con Percival Everett. Lo leggo e mi sento a casa. Ed è strano perché potrei sopravvivere al massimo due ore nei deserti e nei luoghi dimenticati da Dio, dove sono ambientate molte delle sue storie. Che non solo non hanno traccia di sentimentalismo, ma sono spesso devastanti. Eppure non riesco a smettere di leggerlo e trovo che il suo modo di scrivere sia unico e quasi rivoluzionario. Anche in questo ultimo SOSPETTO scardina i generi e anche le aspettative dei lettori con un personaggio che non potrete non amare da subito. Il sostituto sceriffo Ogden Walker è infatti nella sperduta cittadina del New Mexico, teatro delle tre storie incrociate, uno dei pochi con la pelle nera. Sarà lui che dovrà indagare su una serie di omicidi, ma la sabbia del deserto sembra coprire tutto, passioni, desideri, aspirazioni, violenza, morte e anche la giustizia. Paragonato tra gli altri anche a Simenon per l'implacabile desolazione che traspare dalle sue pagine, Percival Everett riesce a portare con facilità il lettore nelle lande senza speranza delle sue storie. Senza lasciarlo andare via.

Antonio Moresco, LA LUCINA, Mondadori
“Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”: comincia così il nuovo romanzo di Antonio Moresco e subito ci si sente avvolti nel silenzio che respira il protagonista, che ha scelto di vivere lontano da tutto, tra i boschi, in un vecchia casa dalle pietre consumate. In questo clima insieme malinconico e magico appare un giorno una lucina, che ogni notte, sempre alla stessa ora, si accende sulla montagna, proprio di fronte alla casa di pietra. La lucina è un mistero, anche quando l’eremita ne scopre l’origine. Ma ogni lettore può adattare al misterioso motore della lucina il simbolo che più gli appartiene. Può così essere l’infanzia perduta, il rimpianto mai sopito, un desiderio mai realizzato, un’occasione per cambiare vita. LA LUCINA è un romanzo insieme onirico e carnale, allusivo e reale, e riesce a creare una sospensione della credulità davvero sorprendente. Un libro intenso e poetico, che ricorda la prosa di Erri de Luca e le ambientazioni di Mario Rigoni Stern.

Tijana M. Djerkovic, INCLINI ALL’AMORE, Playground
“Ogni tanto quando rimaneva sola in casa, si toglieva di dosso tutte le fasciature che negli anni aveva imparato a stringere intorno al suo essere e infilava violentemente la mano dentro la ferita nera dei suoi ricordi. Il suo pianto scivolava dalla finestra di casa verso est, scendeva lungo i pendii del colle romano, sbucava verso le montagne innevate dell’Abruzzo, che come una lama seghettata penetrava il suo orizzonte – ah, neve, quanto le mancava la neve di Belgrado! – e correva oltre, verso l’Adriatico, lasciando la costa dove, per un malinteso geografico, il sole sorgeva al contrario e tramontava sul lato sbagliato, per accarezzare la sponda montenegrina con i suoi profumi ancestrali di erbe mediterranee, di cipressi alti intinti come pennelli dentro il giallo del sole, dove salda resisteva la sua radice vera, e poi senza sosta correva velocemente con il pensiero verso la sua città lontana”.
Tijana M. Djerkovic è nata a Belgrado e vive in Italia dal 1987; traduttrice e scrittrice ha scelto di affidare la storia di Arianna, erede di una famiglia di maschi spesso costretti ad abbandonare la loro terra, alla sua seconda lingua madre. Forse per porre una distanza almeno linguistica alle vicende della sua famiglia, ma anche perché il suo talento maneggia perfettamente l’italiano e le sue tante sfumature. Scoprirete un libro intenso e doloroso, polifonico e ricco di colori con al centro il tema della nostalgia: “Di solito le partenze sono meditate. I ritorni no. Sono creature dormienti che i migranti portano dentro di sé. Durano molto tempo i ritorni, anche tutta una vita; possono persino non consumarsi mai”.

Clara Uson, LA FIGLIA, Sellerio (traduzione di Silvia Sichel)
Annunciato come uno dei romanzi più interessanti dell’anno, LA FIGLIA non delude le aspettative. Anzi. Sono davvero molti i motivi per cui ho amato questo libro: la commistione ideale di storia e romanzo; la scrittura sicura e raffinata; la capacità di raccontare la quotidianità per ritrarre l’universale; la sottigliezza psicologica nel parlare di padri e figlie; il coraggio di non risparmiarci nulla della malvagità umana. Sembra di leggere un classico, una sorta di epopea del male e dell’incapacità di opporsi ad esso. Perché Ana, che si uccide a 23 anni dopo aver scoperto la verità sull’amatissimo, padre, il generale serbo Mladic, detto il boia di Srebrenica, è la coscienza del mondo davanti agli orrori della guerra. Che non è così lontana come possiamo pensare o sperare: “Hermann Göring, il fondatore della Gestapo lasciò detto: “E’ naturale che la gente non voglia la guerra... E’ compito dei leader del paese orientarli, indirizzarli verso la guerra. E’ facilissimo: basta dirgli che stanno per essere attaccati, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e perché mettono in pericolo il paese. Funziona così in qualsiasi paese, che sia una democrazia, una monarchia, una dittatura”. Bisogna spaventarli, inculcargli la paura, bisogna imbottirli di paura come si fa con le oche finché non gli scoppia il fegato per fare il paté, bisogna fare in modo che quella paura fermenti e si trasformi in odio, un odio assoluto, irrazionale, sguaiato...”.

Michele Halberstadt, LA PETITE, L’orma (traduzione di Elena Cappellini)
“Ho dodici anni e questa sera sarò morta... Non ho detto niente a nessuno. Non sono né abbattuta, né su di giri. Mi sento serena, come quando si fa esattamente ciò che si ha voglia di fare. E io ho voglia di scomparire”. La dodicenne protagonista della storia si sente limitatamente la piccola della famiglia. Con la conseguenza di venire sempre esclusa dalle scelte, ma anche dalle notizie ritenute non adatte alla sua età, come quella della morte improvvisa dell’amato nonno. Michele Halberstadt riesce ad attualizzare il personaggio dell’incompreso, sfrondandolo dall’eccessivo mielismo e rendendoci il ritratto vero e pulsante di una ragazzina straordinaria come tante. Nell’intero libro non c’è una nota stonata e la delicatezza procede di pari passo con il racconto duro e spietato della decisione di togliersi la vita: “Dal momento che non mi reputavano degna di piangere con loro, da me non avrebbero avuto più niente. Né risate, né lacrime. Diventai trasparente. Presente, ma distaccata. Garbata, ma riservata. Educata, ma indifferente. Non lasciavo trapelare più i miei stati d’animo... Non volevo destare interrogativi. Allora decisi di essere gentile. Troppo gentile.”.

Gabriele Romagnoli, DOMANDA DI GRAZIA, Mondadori
Ecco uno di quei libri che non recensirei mai. Nel senso che non ne scriverei proprio. Potrei parlarne per ore, ma per fortuna la maggior parte di voi è salva da questa evenienza. Mentre altri invece ne sentono parlare da un po’. Come mi faceva (giustamente) osservare un lettore del sito le recensioni più scarne e sregolate sono quelle che, paradossalmente, dedico ai libri che mi sono piaciuti di più. E’ vero. Quando un libro mi tocca particolarmente, mi trovo in imbarazzo, quasi a disagio. Superato questo, subentra il problema che non riesco a rendere il valore della lettura con le mie parole, soprattutto scritte. E mi innervosisco. Scrivo, riscrivo, cancello, rileggo, e i giorni passano. E magari ripercorro il libro anche tre o quattro volte, ed è l’unica cosa positiva.
Del resto, per raccontare e commentare il nuovo libro di Gabriele Romagnoli ci vuole più tempo che per leggerlo. “Scrivere la sua storia, senza sconti, in un libro che avviasse la domanda di grazia... Ho deciso di farlo dopo lunga esitazione. Ho rinviato spesso, nella consapevolezza che scrivendo provocherò ulteriore sofferenza a molte persone tra cui, da ultimo, mi includo”. E’ già tutto qui: una storia vera, che, raccontata da uno scrittore, diventa tante storie. Non una mera cronaca, ma un ottimo esempio di quel giornalismo letterario di cui Romagnoli è uno dei pochi maestri, non solo in Italia. La storia è quella dell’amico d’infanzia Andrea Rossi, commercialista, padre di sei figli, condannato per l’omicidio della settantenne Vitalina Balani. Dalla vicenda, come da un complesso caleidoscopio, si diramano tantissime considerazioni che proverò a riassumervi. DOMANDA DI GRAZIA infatti è anche un’analisi lucida e disincantata sulla giustizia e sul nostro paese, una sentita e mai retorica riflessione autobiografica, il racconto condivisibile di una generazione e anche di una città, Bologna, che è stata il campo di gioco e crescita di tanti ragazzi. E ancora un viaggio insieme nel passato e dentro di noi per scoprire come eravamo, da dove veniamo e quello che siamo diventati. Perché non si può capire Andrea Rossi “senza nulla sapere della sua famiglia, della sua infanzia, dei suoi anni di liceo”. Tutto questo grazie a uno stile apparentemente immediato, ma che non rinuncia mai a un lessico ricco e preciso.
DOMANDA DI GRAZIA è un libro dove troverete tante domande e tante possibili risposte. Un libro dove ogni cosa diventa portatrice di storia e dove gli abiti, gli oggetti, i cibi aprono delle intere scene.
Un libro dove le parole non scritte pesano e hanno valore come quelle scritte.

Natalia Ginzburg, TUTTI I NOSTRI IERI, Einaudi
Nello scegliere il libro di Natalia Ginzburg per il ciclo dedicato alle letture degli anni ’50 alla biblioteca Baratta ho pensato a TUTTI I NOSTRI IERI semplicemente perché non ero sicura di averlo letto. Mentre LESSICO FAMIGLIARE ce l’avevo perfettamente presente, questo proprio mi sfuggiva. Così mi sono fatta proprio una bella lettura che mi ha anche sorpreso per l’estrema e quasi profetica attualità del romanzo. Una famiglia medio borghese, quattro figli, due maschi e due femmine, rimasti orfani della madre e poi del padre. La figura magnifica di Maria, dama di compagnia della ricca nonna che sperpera in abiti e viaggi tutti i suoi beni e che poi diventa il vero genitore dei ragazzi. Che prenderanno la loro strada, ma che non potranno prescindere dalla famiglia da cui vengono, dai vicini di casa con i quali intrecciano i loro destini. Una lettura suntuosa, che mi ha fatto venire voglia di rileggere anche gli altri romanzi della Ginzburg. Altro grande merito dei gruppi di lettura.

Antonio Manzini, LA PISTA NERA, Sellerio
Bisogna dare merito a Sellerio di non sbagliare un colpo e di essere una garanzia per i lettori. Come nella proposta di questo nuovo giallista, sull’onda dei selleriani Malvaldi e Recami, con un’ambientazione e un commissario, pardon vicequestore, sicuramente originali. Perché spostare Rocco Schiavone dalla questura di Roma a quella di Aosta crea già tutto il clima, assai freddo, del romanzo. Il totale straniamento del romanissimo Rocco, dalle scarpe alla lingua, dal modo di pensare a quello di vivere, tra le montagne innevate rende già godibile la vicenda. Che vede poi naturalmente un omicidio e una relativa indagine che sottolinea ancora di più il diverso e spesso discutibile modus operandi del vicequestore. Ma più che nella storia, Manzini si apprezza per la vivacità linguistica, il lessico mai scontato, il ritmo incalzante del racconto, la sottile ironia nel raccontare Rocco e il suo mondo. E come accade sempre più nei gialli, l’intento è soprattutto quello di raccontare l’Italia dal basso, dalla non sempre banale e scontata quotidianità.

Kari Hotakainer, UN PEZZO D’UOMO, Iperborea (traduzione di Nicola Rainò)
“Tanto per cominciare... devo dire che non mi piacciono i libri di storie inventate e ancor meno quelli che li scrivono. Mi ha sempre dato ai nervi che la gente li prenda sul serio, ci si immedesimi e dia pure retta ai loro autori. Parlo dei romanzi e tutto quel genere che si trova nel reparto dove c’è l’etichetta “narrativa” o “narrativa straniera”. Mi ha dato ancora più ai nervi quando io e Paavo abbiamo scoperto che c’è addirittura della gente che va a cercare quelle panzanate fino all’estero, e poi tipi che hanno studiato si prestano a tradurre nella nostra lingua roba che non è altro che evidentissime balle”. Nonostante la decisa avversione per romanzi e scrittori, Salme, ex merciaia, madre di tre figli, decide di vendere la storia della sua vita a uno scrittore in crisi d’ispirazione. Ma riusciamo davvero a raccontare obiettivamente il nostro passato? E siamo sicuri di sapere tutto della nostra famiglia? Amaramente umoristico, il romanzo dello scrittore finlandese scoperchia drammi e ipocrisie della società del suo paese. E ci regala una lettura di alta qualità dove dramma e commedia si mischiano con grande abilità. Come nella vita vera.

Andres Neuman, PARLARE DA SOLI, Ponte alle grazie (traduzione di Silvia Sichel)
“Mi domando se, forse senza rendercene conto, andiamo in cerca di libri che abbiamo bisogno di leggere. O se i libri stessi, che sono esseri intelligenti, riconoscono i propri lettori e si fanno notare. In fondo, ciascun libro è l’I Ching. Prendi, lo apri ed eccolo qui, eccoti qui”. Possiamo anche aggiungere all’affermazione di Elena, la protagonista del nuovo romanzo di Andres Neuman, che nell’incontro tra un libro e un lettore gioca un ruolo importante anche la componente sociale. Chi ti parla e ti consiglia il libro. Di Neuman mi aveva sorpreso e convinto il suo primo libro IL VIAGGIATORE DEL SECOLO, un romanzo storico e di formazione, molto denso e quasi barocco. Con una scrittura elegante e sicura. Poi UNA VOLTA L’ARGENTINA non mi aveva entusiasmato e adesso PARLARE DA SOLI non mi attirava. Grazie però ai lettori del blog dei gruppi di lettura l’ho scelto per un viaggio in treno e ho quasi rimpianto la puntualità del caldissimo vagone di trenord. Il libro è a tre voci: un giovane uomo con una condanna a breve termine a causa di una malattia incurabile, la moglie e il loro figlio Lito di 10 anni, che ha una voce autentica e verosimile. Mario è disperatamente rassegnato al suo destino e Elena è il personaggio più forte ma anche più difficile. Intanto è una lettrice e ha un rapporto carnale con i libri che solo i lettori possono capire. La sua passione è ben rappresentata dai tanti riferimenti alle pagine scritte ma anche dal sesso estremo presente nel romanzo. Neuman sembra dirci che si può in qualche modo sopravvivere al dolore grazie al sesso e alla lettura. E c’è un continuo richiamo tra i sentimenti forti del racconto, il dolore, la rabbia, l’impotenza, ma anche l’amore, la comprensione, l’amicizia e i libri che Elena legge durante il viaggio che Mario fa con Lito, per dirgli addio. PARLARE DA SOLI vi troverà e non vi lascerà uguali a prima.

Georges Simenon, IL DESTINO DEI MALOU, Adelphi (traduzione di Federica Di Lella, Maria Laura Vanorio)
Non so se capita anche a voi, ma mentre sto leggendo mi si aprono a volte delle immagini che non sempre riesco a capire da dove vengano. Quasi sempre da altri libri. Sono giorni che ho davanti agli occhi un goffo adolescente che lavora in una tipografia. Poi vedo che è uscito un nuovo romanzo di Simenon e allora finalmente mi ricordo di Alain Malou. Si potrebbe fare una psicopatologia del genere umano grazie ai romanzi dello scrittore francese. Quando lo leggo mi sento sempre a casa, ma con una sensazione di malinconica inquietudine. Chi lo legge e lo ama come me lo capirà bene. IL DESTINO DEI MALOU è il percorso di un figlio per conoscere il padre, che si suicida mentre Alain torna da scuola. A diciotto anni si trova così non solo senza padre, ma anche senza un soldo. Con la ferma volontà di non lasciare Parigi e di non avere più niente a che fare con le avide e false madre e sorella. Si troverà un impiego in una tipografia, una modesta stanza in affitto e soprattutto cercherà di capire chi era suo padre. Non è una scoperta da poco e ci dice tanto anche del momento economico e sociale che stiamo vivendo.

Afrika Tatamkhulu, PARADISO AMARO, Playground (traduzione di Monica Pavani)
“Sono steso sull’unica chiazza del campo ricoperta da una specie di erba... Non sono solo. Corpi di ogni colore, dal legno scuro al bianco verme, sono disseminati in ogni angolo, come se l’esplosione di una bomba li avesse scaraventati qua e là”. Lo scrittore sudafricano ci conduce negli inferi dei campi di concentramento prima italiani e poi tedeschi in cui è stato rinchiuso per tre anni fra il 1942 e il 1945. Colpisce come Tatamkhulu racconti la quotidianità del campo con una tale vividezza che se anche possiamo immaginare le condizioni di vita, grazie al racconto ci sembra di viverle sulla nostra pelle. E così anche noi cerchiamo in tutti i modi di arrangiarci, di sopportare l'assenza del privato, di non lasciarci sopraffare dalla disperazione e dalla sofferenza. E di ironizzare sulla pochezza dei soldati italiani, una sorta di arrogante armata brancaleone, sull’organizzazione teutonica e anche sull’assurdità della guerra. Poi ci sono i legami che solo in queste situazioni estreme si possono creare, le amicizie, la condivisione assoluta anche dei sentimenti e il tentativo di dimenticare dove ci si trova con la musica e il teatro.

Zerocalcare, UN POLPO ALLA GOLA, bao
Ammetto che ho affrontato con un po’ di diffidenza il graphic di Zerocalcare perché anche se apprezzavo i suoi fumetti pensavo non avesse una tenuta costante su una storia più lunga. Mi sbagliavo. Anzi, UN POLPO ALLA GOLA è anche meglio dei fumetti estemporanei per cui è diventato famoso. Mi hanno convinto il racconto, i personaggi, i luoghi, le situazione che fanno del graphic un vero romanzo di formazione. Ben costruito, vero, intrigante e mai banale. Con il povero Zero a barcamenarsi tra la ricerca di un gruppo a cui appartenere, se no non esisti, le bugie necessarie per sopravvivere a casa e a scuola e quel polpo alla gola...

GIALLO AFRICANO
Florent Couao-Zotti, NON STA AL PORCO DIRE CHE L’OVILE È SPORCO, 66thand2nd, (traduzione di Claudia Ortenzi)
Moussa Konaté, L’IMPRONTA DELLA VOLPE, Del Vecchio (traduzione di Ondina Granato)

“Oggi il noir serve anche per parlare dei problemi e delle contraddizioni della contemporaneità, di un mondo che si barcamena tra ricchezze colossali, desideri smodati di guadagno facile e profonde miserie dei più, della distruzione del pianeta e di traffici loschi che alimentano guerre e acuiscono tensioni sociali, di società in profonda trasformazione che oscillano tra un sistema valoriale tradizionale e una mancanza anomala di punti di riferimento sia laici che religiosi”. Così su "Scritti africani" si commenta la fortuna dei gialli presso gli scrittori africani, che vivano o no nel continente. E gli editori italiani se ne stanno accorgendo traducendo alcune tra le opere più significative del noir di ambientazione africana, spesso proposte da scrittori di fama internazionale e grande caratura, non solo letteraria. Come Florent Couao Zotti, nato in Benin, che racconta la realtà dell'Africa nera e dà un'immagine delle ex colonie francesi dopo l'indipendenza in cui sottolinea la miseria materiale e morale in cui vivono molti popoli colonizzati. E oltre al ritratto duro e spietato della società in cui si muove il commissario Santos, è anche nella scrittura irriverente, quasi grottesca, nei giochi di parole e negli azzardi grammaticali che sta il valore di NON STA AL PORCO DIRE CHE L’OVILE È SPORCO, vincitore, per la prima volta per un polar, del premio Ahmadou Kourouma nel 2010.
Più stilisticamente tradizionale è l’approccio dello scrittore maliano Moussa Konaté, fondatore della casa editrice Editions Le Figuier e direttore dell'Association Etonnants voyageurs Afrique (Associazione Viaggiatori Straordinari Africa) e responsabile insieme a Michel Le Bris del Festival Etonnants voyageurs, una fiera internazionale del libro. Con L’IMPRONTA DELLA VOLPE Konaté ci porta nel cuore del Mali, nella regione della falesia di Bandiagara, dove vivono i Dogon. Al di là dei tre omicidi su cui sono chiamati ad indagare il commissario Habib e l'ispettore Sosso, il romanzo è un affresco incredibile e riuscito della vita dei Dogon: il paesaggio, le imponenti falesie, i colori, i suoni, gli abiti, le maschere, i riti, i villaggi costruiti con in fango, le credenze e i tanti misteri. Perché ben presto i due investigatori, ma anche noi lettori, ci rendiamo conto che non possiamo applicare i sistemi di indagine razionali e scientifici per sbrogliare la difficile situazione, ma che occorre con grande rispetto calarsi nella realtà del popolo Dogon.
Due romanzi che onorano il genere giallo con grande maestria e che offrono uno spaccato veritiero sulla società dei paesi narrati.

Nicoletta Salomon, NON CHIEDERMI NIENTE, Aisara
“I miei migliori amici sono i libri. Abbiamo anche un giorno all’anno di festeggiamenti, io e i libri. E’ il giorno delle 'borsate di libri di fine anno'. Non sono libri di scuola, quelli arrivano a settembre: le borsate di libri arrivano qualche giorno prima di San Silvestro. Io e la mamma andiamo alla libreria Ragno e ci infiliamo tra gli scaffali. Il padrone lascia fare perché poi arriva l’assegno. La banca lo eroga ai dipendenti per i figli, con l’augurio che da grandi siano uomini e donne colti.”
“E non scelgano dunque di lavorare in banca” dice papà.”
E’ un bel personaggio la dodicenne Britta del romanzo di Nicoletta Salomon NON CHIEDERMI NIENTE. Che all’inizio mi aveva un po’ deluso per un linguaggio apparentemente piatto ma che poi invece si stende e si adatta perfettamente alla protagonista. Lettrice, pitturatrice, come direbbe lei, ma anche acuta osservatrice e filosofa. Intorno la vita di provincia, il primo amore, la scuola, gli amici o meglio la mancanza di un’amica del cuore, una mamma con un tasso di ansia e di controllo illimitato e un padre magnifico ma non sempre presente. Devo confessare che tra la dodicenne Britta e la dodicenne che ero c’è stata un’immediata identificazione generazionale, ma il romanzo parla ugualmente bene ai ragazzi di oggi.
Davvero un buon libro, sincero, curato, consigliato a lettori dai 12 ai 102 anni.

Katherine Boo, BELLE PER SEMPRE, Piemme (traduzione di Cristina Pradella)
Prima di parlare del libro del premio Pulitzer per il giornalismo Katherine Boo, un po’ di considerazioni di contorno. Il titolo può essere fuorviante e l’immagine di copertina con lo sfondo sfumato non aiuta. Può essere anche apprezzabile proporre un libro di tale valore a un prezzo di lancio vantaggioso. Il problema è che tutte e tre le cose insieme gli hanno dato l’aspetto di un romanzo sentimentale di intrattenimento. Intendiamoci nessun pregiudizio sulle letture rosa, l’importante sarebbe dare a un libro un’immagine che gli corrisponda. Beh, qui purtroppo non succede. E anche la frase del New York Times non dissipa il dubbio. Infatti in tante librerie l’ho trovato nel reparto “rosa a poco prezzo”. Con l’indubbio risultato che chi lo compra fa davvero un affare perché BELLE PER SEMPRE è uno dei titoli più interessanti usciti nel 2012. Interessante per chi ama la narrativa ma anche per chi predilige la saggistica. Perché il libro della maestra del reportage Katherine Boo sa unire l’indagine giornalistica alla grande letteratura.
Siamo a Mumbai, nello slum vicino all’aeroporto internazionale. Non può esistere contrasto più grande tra i ricchi alberghi della città indiana e l’immensa discarica dove sopravvivono in casupole con il tetto di lamiera e il pavimento ricoperto di immondizia migliaia di famiglie. Tra cui quella di Abdul, sedici anni o forse diciannove che è costretto a fuggire dalla puzzolente ma rassicurante distesa di rifiuti. Da vera narratrice, la giornalista americana ci porta a vivere insieme agli ultimi del mondo, raccontando con grande poesia e un atto di accusa preciso verso le disparità sociali ed economiche il mondo in cui viviamo. Imperdibile.

Margaret Laurence, I RABDOMANTI, Nutrimenti (traduzione di Chiara Vatteroni)
Per sottolineare ancora una volta l’imprescindibile valore sociale della lettura, se non fosse stato per la libraia Francesca non avrei mai letto questo libro. Non mi attirava, o forse al contrario mi attirava troppo e quindi cercavo di evitarlo. Ma alla fine mi ha trovata e incastrata. E dopo il capolavoro di Barnes, IL SENSO DELLA FINE, potrebbe essere il miglior libro che ho letto quest’anno. La storia di Morag Gunn non ha in sé niente di incredibilmente eccezionale se non che la passione per la lettura e la scrittura nasce molto presto, quando si è bambine e si ama ascoltare e raccontare storie. E così Morag, nonostante un’infanzia non certo facile, ha però dentro di sé la forte convinzione di voler lavorare con le parole. Non vi sto a raccontare la trama del libro perché il valore sta nella scrittura lucida, nell’analisi chiara e precisa di cosa significa essere uno scrittore, nel rapporto tra le storie e la vita vera e anche nell’ineluttabilità del proprio destino. Morag infatti desidera fuggire il proprio passato ma poi si rende conto che è inutile fuggire perché tanto è dentro di lei. E più cerchi di cancellarlo più ritorna a farti sentire in colpa. Quindi Guarda avanti nel passato e indietro nel futuro, fino al silenzio.
Anche il titolo è molto significativo: i rabdomanti sono i lettori o gli scrittori? Forse tutti e due.

Suzette Mayr, MONOCEROS, Miraviglia (traduzione di Fabio Gamberini)
“Non l’abbiamo mai considerato / Se non quando se ne era già andato / Non ha detto quale fosse il suo dolore / Il suo volto ora sono mille aurore. / Patrick, a te pensiamo / A questo gran ragazzo un bacio mandiamo. / Senza di te la scuola è triste, / pensa a noi, quando bacerai un angelo triste”. Questo l’elogio funebre che compone Faraday per la morte di Patrick, morto suicida a 17 anni. Suzette Mayr, plurimpremiata scrittrice canadese, racconta la storia di Patrick e soprattutto delle conseguenze della sua morte, con un coro di voci alternate. Si passano il testimone così sulla scena i punti di vista di Faraday, ragazza sensibile che si rimprovera di non aver visto i segnali di disagio di Patrick; di Petra, dura e inplacabile nel suo odio e additata come la causa scatenante del gesto estremo; di Ginger, che lo amava ma non poteva dirlo; di Jesus ribelle e rabbioso. E poi gli adulti: Max il preside che conduce una doppia vita con Walter, il consulente scolastico; la madre di Patrick, impietrita dal dolore e incredula di fronte a un gesto inspiegabile; la dark queen Suzette, il personaggio più umano del romanzo e Maureen, insegnante insoddisfatta del suo lavoro e delusa dal matrimonio. C’è un responsabile del suicido di Patrick? Chi è? Chi poteva fare qualcosa e invece ha preferito tacere? Che conseguenze possono avere delle nostre decisioni apparentemente casuali sulle vite degli altri e soprattutto degli adolescenti? Ma al di là del tema che pone tantissime domande e mette a nudo la difficoltà degli adulti di comprendere i ragazzi, bisogna anche sottolineare le scelte linguistiche raffinate della scrittrice canadese, che danno davvero una voce unica e reale ai protagonisti. Sentiamo i loro pensieri, viviamo il loro dolore. Li capiamo a fondo e però forse anche noi non avremmo previsto le intenzioni di Patrick.

Fabio Stassi, L’ULTIMO BALLO DI CHARLOT, Sellerio
Il libro di Fabio Stassi mi attirava e mi faceva anche un po’ paura. Charlie Chaplin è stato un mito della mia adolescenza, un idolo insuperato che ancora mi fa piangere e ridere insieme. Ci vuole un bravo scrittore per raccontarlo. Beh, sia che siate come me appassionati fan di Charlot sia che non lo conosciate a fondo, questo libro non vi deluderà. Fabio Stassi, infatti, armato di sensibilità e di una scrittura adeguata, riesce a fare del grande attore un personaggio letterario credibile, trasmettendo il valore della sua personalità e del suo talento. Nel libro si alternano due piano narrativi. Il primo vi porta ogni volta alla vigilia di Natale nella casa in Svizzera dove la Morte va a trovare Charlie Chaplin. Il grande attore e regista ha passato gli ottant’anni ma ha un figlio ancora piccolo e vorrebbe vederlo crescere accanto a sé e allora Chaplin propone un patto alla Vecchia Signora: se riuscirà a farla ridere si sarà guadagnato un anno di vita. Inizia così un singolare balletto con la Morte, ma a salvarlo non sarà la sua abilità da attore, ma al contrario i buffi tentativi di fare i suoi numeri, nonostante gli impedimenti dell’età. E Così ogni Natale la Vecchia tornerà a reclamarlo e bisognerà trovare il modo di suscitarle almeno una risata. Di anno in anno poi la vita di Chaplin è raccontata attraverso una lettera al giovane figlio Christopher. Così l’anziano Chaplin ripercorre l’America delle prime pellicole, degli odi razziali, dei numerosi circhi itineranti, delle nuove e polverose linee ferroviarie. Ma soprattutto il suo è il racconto dei tanti incontri, dai personaggi più straordinari alla gente comune, che gli appassionati non faticheranno a riconoscere poi nei protagonisti dei film del grande artista. Fabio Stassi riesce grazie alla scrittura a restituire la lucida malinconia e la poesia di Chaplin e a riprodurre sulle pagine la voce unica dell’artista inglese.
Perché come diceva Chaplin tutto svanisce ma non i desideri che abbiamo avuto.

Diana Abu-Jaber, FUGA DAL PARADISO, Nutrimenti (traduzione di Chiara Vatteroni)
Come sempre accade con i libri migliori non è la storia in sé che vi rimarrà dentro ma come vi viene raccontata. Perché anche se la vicenda centrale del meraviglioso libro di Diana Abu-Jaber è la fuga di casa della tredicenne Felice, è soprattutto nella grande capacità di raccontare una famiglia scossa da una vicenda incomprensibile il valore del romanzo. I Muir infatti sono una tranquilla famiglia borghese con due genitori che sembrano aver messo a frutto i loro talenti. Avis fa la pasticciera in casa e i suoi dolci sono parimenti richiesti e costosissimi. Brian, ha trovato in una società immobiliare il modo di mettere a frutto i suoi studi giuridici. Stanley, il figlio, ha ereditato le capacità imprenditoriali materne, fondando un supermercato di prodotti biologici. Poi c’è o meglio non c’è Felice, la figlia più piccola, scappata di casa da cinque anni, apparentemente senza nessun motivo. Tutti i membri della famiglia si dibattono tra rabbia e sensi di colpa, delusione e speranza in un ritorno. Perché Felice è rimasta a Miami e ha imparato a vivere per strada, in un esilio dalla famiglia tanto deciso quanto inspiegabile. Perché Felice è fuggita dal paradiso di zucchero, comprensione, burro, amore della sua famiglia? Il lettore percorre insieme ai familiari il difficile percorso per tentare di capire come un’adolescente intelligente, bellissima, piena di talenti decide di negarsi tutto e vivere da senzatetto. La spiegazione la troverete alla fine della storia, ma intanto avrete fatto il pieno di personaggi indimenticabili, di frasi taglienti e dense sui rapporti familiari e non solo.

Kate Colquhoun, IL CAPPELLO DI MR BRIGGS. OVVERO IL MISTERO DELLA CARROZZA 69, Einaudi (traduzione di Ada Arduini)
Un libro difficile da catalogare ma per questo intrigante e originale, perfetto da leggere dentro lo scompartimento di un treno. “Questo omicidio, commesso in un luogo pubblico benché chiuso a chiave, infrangeva tutte le regole conosciute. Suscitava l’orribile terrore che, oltre la pagina di un romanzo, anche l’esistenza ordinaria di ognuno potesse piombare in un inferno in cui regnava il caos”. La sera del 9 luglio 1864, Thomas Briggs, benestante bancario della City, prende il solito treno per tornare a casa. Pochi minuti e alcune stazioni dopo, due pendolari trovano lo scompartimento vuoto e i sedili sporchi di sangue. Più in là due signore si lamentano col capotreno di essersi macchiate i vestiti per alcune gocce di una sostanza rossa entrata dal finestrino. Immediatamente le autorità ferroviarie capiscono che un orribile delitto si è appena consumato all'interno della carrozza 69. Kate Colquhoun parte da questa vicenda per scrivere un libro che non è un vero romanzo, ma ha il ritmo e la tensione del giallo. Che è anche un’interessante testimonianza sulla Londra vittoriana e su un mezzo di trasporto che occupa un posto speciale nell’immaginario letterario.

Paolo Cognetti, SOFIA SI VESTE SEMPRE DI NERO, Minimum Fax
Un ufficio stampa mi chiede se io mi occupo solo di narrativa straniera. Sono rimasta un po’ sorpresa, poi effettivamente guardando le mie segnalazioni penso che la domanda può avere un senso, anche se non credo che quella straniera sia una categoria specifica della narrativa. Perché vi assicuro che non ho nessun pregiudizio e mi avvicino senza problemi a un libro, spesso senza neanche guardare la nazionalità dell’autore. Solo che chiaramente la narrativa straniera offre per forza di cose molta più scelta e quindi è più facile trovare un buon romanzo. Che stavolta ho trovato grazie a uno scrittore italiano. Ma siccome sono abbastanza scettica anche verso le recensioni, ho cominciato a leggere SOFIA SI VESTE SEMPRE DI NERO, con grande cautela. Poi alla fine mi sono anche sentita in colpa perché mi rendevo conto di leggere un po’ guardinga, timorosa che l’entusiasmo per la lettura alla fine potesse essere tradito. Invece Cognetti non tradisce. E la storia di Sofia è sorprendente e verosimile insieme. La Sofia del titolo infatti ci viene raccontata attraverso le storie di chi l’ha incrociata, solo incidentalmente come l’infermiera che l’ha tenuta in braccio appena nata o persone ben più presenti nella sua vita come il padre, vittima della crisi dell’Alfa Romeo. I dieci capitoli che compongono il libro non sono racconti e neanche episodi separati della storia ma sono il romanzo di Sofia, grazie a una costruzione controllata e spregiudicata insieme che ricorda la tragedia greca. E anche se nella vicenda di Sofia entrerà poi prepotentemente il cinema, è il teatro il luogo ideale della sua storia. In ogni scena anche se Sofia non appare gli attori sono lì per parlarci comunque di lei. E alla fine il romanzo mi ha ricordato la Janette Winterson di PERCHÉ ESSERE FELICE SE PUOI ESSERE NORMALE?. Sofia ha la stessa tensione verso la felicità e le stesse catene, più o meno amorevoli che la legano all’infelicità dei suoi genitori. Un’eredità di cui cerca di liberarsi in tutti i modi. E alla fine forse ci riesce.

John Green, COLPA DELLE STELLE, Rizzoli (traduzione di Giorgia Grilli)
Mando una mail al gruppo di lettura degli adolescenti del Baratta dopo aver divorato il meraviglioso ultimo romanzo di John Green, ancora tutta esaltata per l’avvincente e profonda lettura e mi risponde tranquillamente Deborah: "immagino che sia un bel libro, del resto lui è l’autore di CERCANDO ALASKA". E’ vero, perché meravigliarsi che un bravo scrittore lo sia in tutti i suoi libri? E’ così confortante avere ogni tanto delle certezze. E il talento di Green nel saper raccontare i ragazzi lo è, senza dubbio. Un romanzo dove troverete la vita, i libri, le speranze perché anche se l’esistenza umana, come dicono i protagonisti, non è un ufficio esaudimento desideri, questo libro per il lettore lo è. "Il mio libro preferito era 'Un'imperiale afflizione', ma non mi andava di dirlo in giro. A volte leggi un libro e ti riempie di uno strano zelo evangelico che ti convince che il mondo frantumato che ti circonda non potrà mai ricomporsi a meno che, o fino a quando, tutti gli esseri umani non avranno letto quel libro. E poi ci sono libri come 'Un'imperiale afflizione', di cui non puoi parlare con l'altra gente, libri così speciali e rari e tuoi che sbandierare il tuo amore per loro sembrerebbe un tradimento". Come direbbe Deborah, non vi dico altro e leggetelo.

George Pelecanos, LA STRADA DI CASA, Piemme (traduzione di F. Di Pietro e S. Tettamanti)
Mi sembrava di avere bisogno di una pausa da letture impegnative e mi arriva il nuovo romanzo di George Pelecanos. Giallo. Perfetto. In realtà allo scrittore americano il genere sta un po’ stretto, ma poi me lo ricordo nei telefilm di Castle (scusate la debolezza...) mentre gioca a carte con il protagonista e lo trovo sempre intrigante e simpatico come i suoi libri. Quindi comincio subito a leggere e a due terzi mi chiedo: e il giallo dov’è? Certo non nel comportamento di Chris che sembra voler rinnegare l’ottima famiglia da cui proviene per perdersi in comportamenti assurdi e difficili da spiegare che lo portano, unico bianco, nel carcere minorile della contea. E neanche nel padre Thomas, ex poliziotto, ora a capo di un impresa artigiana di successo. Fino all’omicidio che avviene quasi alla fine del romanzo, il giallo è nella tensione tra i due, nelle aspettative deluse, nei rimpianti, nel non capirsi o forse nel capire troppo bene i sentimenti dell’altro. Perché Thomas non riesce ad amare incondizionatamente Chris come invece fa la madre e Chris non riesce ad accettare un amore condizionato. Poi certo il giallo arriva ma Pelecanos fa molto di più e racconta con precisione e sentimento il rapporto padre-figlio. E anche la media borghesia americana con l’illusione che ognuno possa trovare il suo posto nel mondo. Ma, come direbbero gli adolescenti malati di Green, la vita non è l’ufficio esaudimento desideri.

Gabriela Adameşteanu, UNA MATTINATA PERSA, Atmosphere, (traduzione di Roberto Merlo e Cristiana Francone)
Hanno ragione quelli che mi scrivono per lamentarsi del fatto che aggiorno troppo poco spesso la pagina delle recensioni. E’ vero, ma tra GQ, che trovate in PRESS, e la pagina settimanale della Gazzetta di Mantova esaurisco le mie poche energie di scrittura. Quando poi leggo recensioni come quella di Marilia Piccone mi chiedo: “Cosa scrivo a fare io? Cosa posso aggiungere?”. Quindi ecco la frase perfetta per descrivere la lettura deL libro della grande scrittrice rumena: “UNA MATTINATA PERSA della scrittrice rumena Gabriela Adameşteanu è un capolavoro. È un libro ‘europeo’, e con questo voglio dire che ci riguarda tutti - è uno di quei rari e grandi libri che riescono ad intrecciare le storie dei singoli con la Storia del loro paese e, nello stesso tempo, ci fanno sentire parte di quella Storia e di quelle storie anche se apparteniamo ad un altro luogo e ad un altro tempo”. E io aggiungo solo che Vica è uno dei personaggi indimenticabili che affollano spesso la mia mente e Gabriela Adameşteanu non solo ve la farà amare ma avrete la sensazione di assistere dal vivo al chiacchiericcio continuo di questa donna disillusa ma non vinta, dotata di un’intelligenza pratica a cui nulla sfugge e che non riusciamo a non adorare, con un affetto misto a stima e fraterna comprensione.

Ugo Cornia, IL PROFESSIONALE. AVVENTURE SCOLASTICHE, Feltrinelli
Ho letto da tempo il libro di Cornia, ma non riuscivo mai a recensirlo. Appena cominciavo a scrivere mi veniva da sorridere e avevo la tentazione di scrivere come l’autore, ma la capacità di trasporre sulle pagine il racconto orale, senza fargli perdere ritmo ed efficacia narrativa, è prerogativa dell’inimitabile Ugo Cornia. Che riesce a raccontare tutta la varia umanità che gira intorno alla scuola. E allora lascio a lui la parola: “... io quindi quel giorno dell’anno prima... avevo detto basta, basta basta basta, scuola del cazzo, adesso mi licenzio che io c’ho già passato troppo tempo a scuola, già come studente, e perché poi dovrei passarci dell’altro tempo anche come insegnante, tra l’altro per me se c’è una cosa che è vergognosa e vergognosa fino in fondo, che sento un po’ come un disturbo costante, è fare lo stesso mestiere che fanno, o meglio, nel mio caso, hanno fatto, visto che erano tutti e due già morti da un po’ i miei genitori, e comunque mia madre per tutta la vita aveva fatto l’insegnante, e di conseguenza per me fare l’insegnante è sempre stata una cosa che io dico anche malvolentieri...”.

Peter Bichsel, IL LETTORE, IL NARRARE, Comma 22 (traduzione di Anna Ruchat)
Se devo scegliere per forza un unico autore tra i tanti ospiti del Festivaletteratura di quest’anno sicuramente dico Peter Bichsel. Avevo deciso che era il solo incontro per il quale avrei spento il telefono e mi sarei seduta davanti in contemplazione. Per di più dovevo fare solo un breve saluto per passare poi la parola ad un Alberto Manguel emozionato come me. Sono riuscita a dire due parole a fatica tanto era soggiogata dalla figura dello scrittore svizzero. Un uomo anziano con lo sguardo di un bambino, con un incredibile carisma. Sono davvero poche le persone che mi hanno trasmesso un tale senso di intelligenza emotiva, di capacità di guardare e raccontare il mondo, partendo dalle piccole cose. Una vivacità intellettuale che si traduce in affermazioni brevi, ma dense e incisive, pervase da un’affettuosa ironia. L’incontro è stato molto sentito e partecipato con delle belle domande anche dal pubblico come vi racconta Paolo Nori, mio vicino di sedia. E per fortuna che Comma 22 con grande cura sta riproponendo i libri dello scrittore svizzero da QUANDO SAPEVAMO ASPETTARE a una lettura indispensabile per chiunque ami la lettura come IL LETTORE, IL NARRARE. Potete aspettare la ristampa degli altri, o altrimenti procurarvi intanto quelli disponibili nelle biblioteche. Ma non fate mancare alla vostra biblioteca la voce di Bichsel.

E.M. Delafield, DIARIO DI UNA LADY DI PROVINCIA, Neri Pozza (traduzione di Monica Pareschi)
LETTURE DI FERRAGOSTO 1 - Quando mi chiedono come è organizzata la mia biblioteca, mi viene da ridere. Tengo solo i libri che mi piacerebbe rileggere, ma prima di arrivare lì devono fare un percorso e passare indenni dalla prima selezione, dove si attiva il meccanismo di scarto. I “non li leggerò mai” escono subito di casa, i “li leggerò forse” rimangono un po’ in uno sorta di limbo per una nuova selezione, e invece i “li leggerò sicuramente” o i “li finirò con più calma perché meritano” mi guardano un po’ offesi da una scaffale altezza occhi, che mi fa venire i sensi di colpa. Questi ultimi sono ulteriormente divisi in “grandi imprese”, cioè i volumi con più di 500 pagine o che ritengo particolarmente impegnativi o che hanno bisogno di una lettura lenta, e “uno al giorno”, cioè quelli che penso di leggere nell’arco di 8-10 ore di seguito e infine i libri da viaggio e vacanza. Purtroppo è un po’ di tempo che non riesco ad attingere a questo scaffale per colpa del lavoro e di tutte le novità che escono. Ma la settimana di ferragosto è arrivato il momento giusto e non potevo iniziare meglio grazie a questo diario spassoso, ironico, divertente che mi ha proiettato nell’Inghilterra negli anni Trenta. Ho passato una giornata piacevole e mi sono resa conto che avevo proprio bisogno di un libro così, delicato e spiritoso, forse poco impegnativo, ma certo non banale per poi proseguire nelle altre letture. Godetevelo anche voi.

Edna Ferber, SO BIG. UNA STORIA AMERICANA, BUR (traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi)
LETTURE DI FERRAGOSTO 2 - Che bel ferragosto! Chiusa in casa seduta sulla sdraio davanti alla portafinestra del terrazzo con litri d’acqua fresca da bere e questo bellissimo SO BIG. La collana scrittori contemporanei della Bur è ormai una certezza. La postfazione poi di Melania Mazzucco ha sciolto anche i minimi dubbi che potevano esserci. E poi curiosamente dopo la lady di provincia un altro libro che ci riporta indietro di molti anni e che ha vinto meritamente il Pulitzer nel 1925. Ma per la storia del libro, e della poca fortuna dell’autrice in Italia vi rimando all’ottima postfazione dell’autrice di LIMBO. Quello che mi incantato di questo piccolo capolavoro è che sembra scritto ora anche se la storia prende il via addirittura alla fine dell’Ottocento. E’ di una modernità e di un’acutezza che stupisce continuamente. Perché la storia di Selina, cresciuta da un padre vedovo e giocatore d’azzardo, con un’educazione molto libera per l’epoca e sull’onda del motto “la vita è una grande avventura... Più tipi di persone conosci, più cose fai, più cose ti accadono e più ti arricchisci. Anche se non sono cose piacevoli”, lascia una così vasta gamma di sensazioni che sembra di aver letto un libro di mille pagine. Per non parlare del "So big" del titolo, ovvero il figlio di Selina, Dirck, e del loro ininterrotto dialogo di vita sul valore della bellezza e sui talenti che riceviamo. Un grande romanzo da leggere e rileggere sempre con grande soddisfazione.

Lars Gustafsson, LE BIANCHE BRACCIA DELLA SIGNORA SORGEDAHL, Iperborea (traduzione di Carmen Giorgetti Cima)
Ho sbagliato reparto per questo libro, che pensavo di leggere in una giornata. Perché anche se conta poco più di 200 pagine ha bisogno di una lettura lenta per assaporarlo ben bene e complimentarsi, leggendo, con l’autore. Alla fine vi sembrerà di aver letto un classico. La storia è insieme molto semplice e complessa e vi farà fare un salto nel tempo insieme al protagonista, ex professore di filosofia a Oxford, arrivato verso la fine della vita, che ritorna con la memoria alla sua adolescenza. Il grande scrittore svedese riesce a mantenere un perfetto equilibrio tra le riflessioni di un uomo non più giovane e molto colto e la ricostruzione molto vitale della sua giovinezza, e riesce sempre a far alternare perfettamente le due voci, senza mai banalizzarle. Tanto che mi piacerebbe far leggere il libro a un lettore adolescente perché si dovrebbe ritrovare nel racconto di un ragazzo cresciuto in Svezia negli anni 50, ma che prova tutte le eterne sensazioni che appartengono all’età di mezzo. Il romanzo ha un tono coinvolgente, confidenziale, caldo, ironicamente colto e raffinato. Si può sicuramente affiancare a IL SENSO DELLA FINE di Barnes che trovare in PRESS.

Aidan Chambers, MUOIO DALLA VOGLIA DI CONOSCERTI, Rizzoli (traduzione di Beatrice Masini)
Credo che Aidan Chambers sia uno dei pochi scrittori che vorrei come amico. E’ difficile spiegare come riesca magicamente a farmi dimenticare tutto quello che accade intorno e farmi ritornare un'adolescente con tutta la vita davanti e le emozioni a mille. La lettura dei suoi libri potrebbe essere consigliata come una sorta di macchina del tempo. Nel suo ultimo e attesissimo romanzo immagina l’incontro tra un anziano scrittore, che ha da poco perso l’amatissima compagna di vita e un diciassettenne dislessico alle prese con una ragazza amante della lettura e della scrittura. E siccome Fiorella vuole che Karl racconti per iscritto di sé e dei suoi sentimenti, il ragazzo decide di rivolgersi allo scrittore preferito della ragazza. Si incrociano così le vite di due personaggi apparentemente molto diversi ma che scopriranno attraverso confronti e vicende ora comiche ora drammatiche di avere molte cose in comune. Ne nasce così un romanzo intenso, intelligente, raffinato, dove nessun particolare è trascurato perché “La vita non è come un romanzo, ma un romanzo può essere come la vita. I migliori lo sono sempre”. E questo lo è.

Lola Shoneyn, PRUDENTI COME SERPENTI, 66th and 2nd (traduzione di Ilaria Tarasconi)
Ricevo una gentile richiesta di presentare un’autrice nigeriana a Torino. Siccome stimo molto l’editore accetto, mi vengono mandate le bozze del libro, dicendomi solo che è un romanzo d’esordio. Comincio a leggere e penso: alla faccia dell’esordio! Poi però scopro che Lola Shoneyn è una pluripremiata poetessa oltre che una delle personalità più interessanti della letteratura del suo paese. Con un curriculum professionale e di vita di tutto rispetto. E una grande personalità. Quello che invece mi ha un po’ stupito è che PRUDENTI COME SERPENTI sia spesso citato semplicemente come un romanzo sulla poligamia. Questo è assolutamente restrittivo. E’ vero che al centro della storia c’è la bella Bolanle, ventiduenne laureata che decide di diventare la quarta moglie di Baba Segi, ma in realtà il romanzo racconta molto di più. Sulle donne, la maternità, i rapporti familiari, la società nigeriana, i sogni di vita che ognuno ha. Per non parlare della struttura molto teatrale del libro, con rimandi ad incastro ben costruiti e una scrittura efficace ed elegante insieme.

Guus Kuijer, PER SEMPRE INSIEME, AMEN, Feltrinelli kids (traduzione di Valentina Freschi)
“Mia mamma dice che una volta poteva capitare di avere un padre normale. Uno che tornava a casa, guardava la televisione e beveva una birra. Padri del genere credo che non esistano più. Ad esempio puoi avere un padre che non è tuo padre. O un padre che è tuo padre ma vive da un’altra parte. O un padre che esiste, ma non sai dov’è... o un padre che sai dov’è ma da cui non puoi andare”: Polleke ha undici anni, scrive poesie ed è fidanzata con Mimun, un compagno di classe di origine marocchina. Ma soprattutto guarda al mondo con i suoi occhi sinceri e affettuosi, dimostrando come si può raccontare ai bambini qualsiasi storia, basta saperlo fare. Come il premio Lindgren 2012 Guus Kuijer che ci regala un piccolo capolavoro, pieno di storie, sentimenti, esperienze di vita complesse.

Melania Mazzucco, LIMBO, Einaudi
Melania Mazzucco fa aspettare i suoi lettori. Ma ne vale la pena, perché riesce insieme a non deludere le aspettative e a sorprendere con storie sempre diverse che non tradiscono però le qualità di scrittura, stile, introspezione che la rendono la migliore scrittrice italiana. E non è poco, soprattutto se guardate quanti pochi veri scrittori compaiono nelle classifiche dei libri più venduti. Ma parliamo di LIMBO. Vi risparmio troppi dettagli sulla trama perché vale la pena scoprire pian piano il legame che si instaura tra il misterioso Mattia e il sottoufficiale Manuela Paris, in convalescenza nella sua città natale, Ladispoli, dopo essere stata gravemente ferita in una missione di pace in Afghanistan. L’incontro tra i due è il pretesto narrativo per raccontarci Manuela e soprattutto l’Italia di oggi. Attraverso la vita di una ragazza come tante e insieme unica nella sua storia, Melania Mazzucco dipinge un ritratto lucido, equilibrato e profondo del clima che si respira nel nostro paese. Con una precisione quasi chirurgica degli oggetti, dei linguaggi, dei comportamenti, dei pensieri, dei desideri, delle delusioni, dei paesaggi di cui siamo circondati. E come sempre Melania Mazzucco non prende la via più semplice; lasciati da parte comodi espedienti narrativi e facili soluzioni stilistiche, non solo mostra una perfetta conoscenza delle situazioni e dei luoghi che racconta, da Ladispoli a Qul’a-i-Shakhrak, ma rende omaggio alla lingua italiana con una varietà di lessico, metafore, cambi di punti di vista che merita da sola una rilettura. La sensazione è quella di leggere un classico e insieme un libro modernissimo, dove la complessità dell’esistenza è narrata come solo un vero scrittore sa fare. Perché questo è Melania Mazzucco: un autentico talento letterario e una scrittrice che non si risparmia, sempre onesta con i lettori.

Olga Tokarczuk, GUIDA IL TUO CARRO SULLE OSSA DEI MORTI, Nottetempo (traduzione di Silvano De Fanti)
“In un certo senso le persone come lei, quelle che lavorano con la penna, a volte sono pericolose. Si subodora subito la falsità, si sospetta che quella persona non sia se stessa, ma un occhio che guarda incessantemente e che trasforma in frasi quello che vede; in questo modo taglia dalla realtà tutto ciò che vi è di più importante: l’inesprimibile”: non vi dimenticherete facilmente la protagonista del nuovo romanzo della più famosa scrittrice polacca contemporanea. In un’ambientazione un po’ gotica e un po’ fiabesca, spicca la figura di Janina, insegnante di inglese in pensione, dedita all’astrologia e agli animali. Ma soprattutto donna piena di ironia e risorse fisiche e intellettuali illimitate. Soprattutto quando cominciano ad accadere misteriosi omicidi e la natura sembra ribellarsi contro gli uomini. Un libro lieve, intelligente, a tratti spassoso, appassionante e delicato insieme.

Janette Winterson, PERCHÉ ESSERE FELICE SE PUOI ESSERE NORMALE?, Mondadori (traduzione di Chiara Spallino Rocca)
I grandi scrittori si riconoscono perché riescono a fare delle loro vite delle opere letterarie. Succede così con Janette Winterson e questo magnifico ritratto di adolescente, che si trova a scegliere tra la sua identità e la passione per la lettura e una madre oppressiva e malata. La vicenda personale è ripercorsa attraverso un’analisi a posteriori insieme sentita e razionale, senza banalità e falsi moralismi. E come per fortuna accade nella vita, Janette Winterson dimostra come a un’infanzia terribile si può sopravvivere fino a riscattarsi, anche grazie alla passione per le parole, lette e scritte.

John Edward Williams, STONER, Fazi (traduzione di Stefano Tummolini)
Dimenticatevi protagonisti dalle mille sfaccettature, vicende rocambolesche, storie a incastro, continui cambi di ambientazione, sfilate di personaggi sempre diversi. Non c’è niente di più facile che riassumere le vicende di STONER e niente di più difficile che spiegare come, con pochi e apparentemente anonimi ingredienti, questo è un romanzo difficile da dimenticare, che quasi ti obbliga a rileggerlo. E questa volta sia l’appassionata postfazione di Peter Cameron sia la fascetta a firma di Tom Hanks (“Questo è semplicemente un romanzo che parla di un ragazzo che va all’università e diventa un professore. Eppure è una delle cose più affascinanti che vi capiterà mai di leggere”) sono assolutamente affidabili. La storia di William Stoner, nato negli anni Dieci, figlio unico di due tenaci e silenziosi contadini, che riesce ad andare all’università dove viene folgorato dalla letteratura, è quasi anonima nella sua normalità, ma veramente straordinaria per la capacità di Williams di dare vita a un’esistenza con una serie di particolari che si imprimono nella sensibilità del lettore. Sarebbero troppi gli esempi da fare, dal rapporto di Stoner con il severo professore di letteratura, che però scoprirà il suo talento, al legame con la figlia, dall’amicizia indissolubile con Gordon, alla passione per Katherine. Quindi leggetelo e basta!

Ezio Raimondi, LE VOCI DEI LIBRI, il Mulino
“... la letteratura mentre parla di ciò che è grande ed è verità profonda che si trasmette attraverso i secoli, dà una voce anche a ciò che è comune. La letteratura, dunque, non come fuga, ma come modo per dare senso nuovo a ciò che è particolare, minuto, apparentemente insignificante e che invece si mescola alla nostra vita, attraversa la nostra pelle, tocca il ritmo del nostro esistere, ci apre gli occhi a una prospettiva che fino ad allora non avevamo concepito”: si può parlare del nuovo libro di Ezio Raimondi solo usando le sue parole che troverete sempre precise, illuminanti, piene di domande e anche di risposte. E in questo caso anche di un ritratto affettuoso e familiare del grande lettore e critico letterario. Un vero maestro.

Misha Berlinski, RICERCA SUL CAMPO, gran via (traduzione di Francesca Frulla)
Se questo libro fosse stato pubblicato, per dire, da Adelphi sarebbe un bestseller. Senza nulla togliere a gran via, anzi! Devo ammettere che io stessa lo avevo segnalato durante gli acquisti alle biblioteche perché mi fido del lavoro del piccolo editore, ma poi l’avevo dimenticato. Per fortuna Marilia (http://www.stradanove.net/v3/sezioni.php?sezione=21&id=3933) me l’ha ricordato e così me lo sono letta nel viaggio Mantova-La Spezia e ritorno. Beh, dopo un’ora sulla rigida panchina della stazione di Piadena, sono stata anche tentata di perdere la coincidenza per andare avanti a leggere. RICERCA SUL CAMPO di Misha Berlinski, candidato al National Book Award, caldeggiato da Stephen King, ma in Italia quasi completamente ignorato, è un libro imperdibile. E’ un romanzo straordinario, lieve, ironico, appassionante, che maschera dietro a una indagine giornalistica un racconto avvincente e ben costruito. Berlinski riesce a dare insieme quella sensazione di facilità di lettura e di profondità di situazione e personaggi. Sembra che sia seduto accanto a te a raccontare, ma dimostra una capacità di manovrare una vicenda piena di personaggi e cambi temporali da grande scrittore. Non perdetevelo!

Dan Lungu, SONO UNA VECCHIA COMUNISTA, Aisara (traduzione di Ileana M. Pop)
“... Se fosse per me io vorrei che il comunismo tornasse domani stesso!... Sono una vecchia comunista, ecco cosa sono!”: così risponde Emilia alla figlia Alice che ora vive in Canada ma che vuole assicurarsi che la madre per le elezioni in Romania non voti per gli ex comunisti. Dalla telefonata prende il via il serrato susseguirsi dei ricordi di Emilia, dalla odiata vita in campagna sino al lavoro in fabbrica, che le regala un certo benessere. Il comunismo le ha permesso di vivere in città, di avere sempre cibo, di ottenere una casa e la bombola del gas. Con la rivoluzione invece l’inflazione ha distrutto i suoi risparmi, le fabbriche hanno chiuso, non c’è più un ordine a cui attenersi. Ma c’è la libertà, la rimprovera Alice. Allora Emilia è stata felice o è solo una pazza illusa? “Come hai fatto ad essere felice quando gli altri non lo erano? In che modo hai contribuito alla felicità degli altri? Di quante persone felici dovresti circondarti per meritare il diritto alla felicità?”. Finalmente tradotto in italiano uno dei libri più letti in Europa, capace di raccontare con umorismo e ironia l’avvento e la caduta del comunismo. Ma anche un’appassionante e raffinata saga familiare piena di personaggi difficile da dimenticare.

Joan Didion, BLUE NIGHTS, il Saggiatore (traduzione di Delfina Vezzoli)
Dopo L’ANNO DEL PENSIERO MAGICO, ero un po’ restia a leggere il nuovo libro di Joan Didion. Era ancora talmente forte il ricordo e la suggestione per il precedente, che ero quasi sicura di andare incontro a una delusione. Invece i veri scrittori non deludono mai. E non fissatevi sulla vicenda personale narrata e sulla definizione di libri luttuosi affibbiata agli ultimi libri della scrittrice americana: sia L’ANNO DEL PENSIERO MAGICO che BLUE NIGHTS sono straordinarie opere di letteratura, dove potrete più e meno identificarvi nella vicenda, ma dove sicuramente soffrirete e gioirete al fianco del protagonisti. In questo caso una madre che ha perso una figlia, ma che la ritrova continuamente nei pensieri, nelle cose, nei muri delle case, nei gesti, nelle parole.

Chad Harbach, L’ARTE DI VIVERE IN DIFESA, Rizzoli (traduzione di Letizia Sacchini)
BOCCIATO. Lo so, fino ad ora in questo spazio comparivano solo i libri che avevo apprezzato. Ma ho deciso di fare un’eccezione e mi piacerebbe anche conoscere, se lo leggerete, il vostro parere. Il romanzo di Harbach, infatti, è considerato il miglior esordio della narrativa americana del 2011 ed è stato inserito tra i migliori 5 romanzi usciti l’anno scorso dal New York Times. Dato non trascurabile poi è stato anche campione d’incassi. Riconosco che non è facile con queste premesse non nutrire delle aspettative, accingendosi a leggere questa vicenda che ci porta in una piccola università del Midwest. Intanto vi dico cosa ho trovato di positivo: la figura di Guert il preside è riuscita e interessante ma Harbach la abbandona spesso a favore dei componenti della squadra di baseball del college. Una compagine assolutamente buonista e politicaly correct, con rappresentate tutte le diverse tipologie di giovani uomini dell’immaginario collettivo. Ed è qui che lo scrittore americano sfoggia il suo grigio conformismo, mettendo in gioco una serie quasi imbarazzante di banalità, luoghi comuni, punti di vista convenzionali e rassicuranti, distorte visioni dell’età adolescenziale. Non sostenute tra l’altro da una scrittura di valore. E’ un libro non riuscito, privo di ironia, dove l’autore sembra aver lavorato per non scontentare nessuno, per non affondare la penna e soprattutto per far passare l’idea che, già da adolescenti è meglio imparare ad accontentarsi del poco che si ha. Vivere in difesa per preservare il certo e non azzardarsi a sviluppare rischiosi sogni di realizzazione di sé o di riscatto, neanche se sostenuti da innegabili talenti. Forse è il romanzo della recessione, della letteratura però, più che dell’economia.

Brian Fies, MOM’S CANCER, Double Shot (traduzione di Stefano Visinoni)
Piano piano mi sto mettendo in pari con gli acquisti fatti al Lucca comics. MOM'S CANCER è un graphic novel che nasce e si sviluppa sul web. All’indomani della scoperta di un cancro ai polmoni, con metastasi al cervello, della madre, Brian Fies inizia a postare in forma anonima su internet le tavole su cui riversa l’esperienza che con i suoi cari si trova a dover affrontare. È il tam tam tra i lettori online a dare visibilità a quella che l’autore americano definisce nella prefazione all’edizione cartacea "una serie di corrispondenze dal fronte di una guerra in cui la mia famiglia era rimasta invischiata senza la minima preparazione", e nel 2005 il fumetto ottiene il riconoscimento di un Eisner Award nella categoria Miglior Fumetto Digitale. Non vi nascondo che è una lettura di grande impatto emotivo ma il valore della storia per immagini di Fies sta nell’essere riuscito a trasformare la sua esperienza personale in una storia per tutti. E a raccontare un dramma purtroppo molto diffuso con affettuosa ironia.

Paul Torday, PESCA AL SALMONE NELLO YEMEN, Elliot (traduzione di Annamaria Raffo)
Finalmente è stato ristampato quello che rimane il miglior libro di Paul Torday. Quindi non perdetevi questo lettura ironica, raffinata, disincantata che vi farà ridere e pensare nello stesso tempo. La storia gira intorno all’idea di un ricchissimo sceicco yemenita di introdurre il salmone tra le aride montagne dello Yemen. Il serio, scrupoloso e anche un po’ noioso ittiologo Alfred, consapevole dell'assurdità del progetto, all'inizio rifiuta, ma poi viene costretto ad accettare l'incarico addirittura dal Primo ministro inglese. Da qui partono una serie di situazioni assurde, ma purtroppo assolutamente verosimili, che coinvolgono il mondo della politica, dell’economia, della scienza, a scapito non solo dei poveri salmoni.

Iris Hanika, L’ESSENZIALE, Atmosphere (traduzione di Monica Pesetti)
“Arriva un momento in cui ogni cosa scivola via, la rabbia della gioventù e il dolore per le ingiustizie del mondo, anche la speranza che il mondo diventi migliore, o addirittura buono se soltanto ci impegniamo abbastanza e con tutto il cuore. Arriva un momento in cui il cuore è improvvisamente vuoto, e gli uomini, lasciati a se stessi, completamente soli. Non è un bel momento”: comincia così il romanzo vincitore del premio dell’Unione Europea per la letteratura 2010 e l’esordio rispecchia la storia che segue, quella di una crisi profonda. L’archivista Hans vive a Berlino e lavora presso l’Istituto per la gestione del passato, ed ha il compito di digitalizzare tutte le testimonianze scritte delle vittime dell’Olocausto. Hans non riesce a non sentirsi in colpa per i crimini nazisti. A questo si aggiunge una vita solitaria, rischiarata solo dalla profonda amicizia con Graziela, l’unica che sembra un poco capirlo: “... proprio lì, nella solitudine più grande, avvertì la mancanza di un altro essere umano come gli capitava di rado, e nulla gli sembrò così indispensabile come questo, avere un essere umano che parlasse con lui perché era proprio lui”. Il racconto è un susseguirsi articolato di episodi di vita quotidiana e pensieri sul passato, il futuro, il senso della vita con un tono ironico, acuto, come un dialogo confidenziale con il lettore.

Alberto Barrera Tyszk, LA MALATTIA, Einaudi (traduzione di Paola Tomasinelli)
Se ci badate la malattia sta diventando tema di ispirazione per la narrativa contemporanea. Ma pochi libri sanno davvero trasformare l’esperienza più o meno dolorosa in vera letteratura. Ci riesce lo scrittore venezuelano Barrera Tyszka, per la prima volta tradotto in italiano, in questo romanzo breve, ma molto intenso. Andrés, medico affermato, scopre che il padre che l’ha allevato dopo la morte della madre in un disastro aereo, ha un cancro terminale. La notizia, oltre al dolore, scopre le fragilità dell’uomo e la sua assoluta incapacità di gestire la situazione. Padre e figlio non riescono più a parlare e la malattia sembra mettere a nudo un’incomprensione antica e mai espressa. Parallelamente assistiamo al delirio di un malato immaginario che solo scrivendo e quasi importunando il suo medico riesce ad avere un po’ di sollievo. Un racconto vivido, realistico, spietato sugli sconvolgimenti non solo fisici che può causare la malattia.

Zadie Smith (a cura di), IL LIBRO DELL’ALTRA GENTE, Mondadori (traduzioni di Valeria Bastia, Elena Battista, Manuela Faimali, Marina Petrillo, Maria Valsecchi)
La curatrice è una garanzia perché Zadie Smith è uno dei miei critici letterari preferiti, ma anche i nomi che compongono questa antologia sono sicuramente promettenti. E poi c’è il vantaggio di poter “assaggiare” tanti scrittori per poi magari andare a leggere i loro romanzi. IL LIBRO DELL’ALTRA GENTE sono ventidue storie che affrontano la questione del "personaggio" da tutti gli angoli e da tutte le prospettive. Tanti gli scrittori arruolati per l’impresa da David Mitchell a Dave Eggers, dal maestro della graphic novel, Chris Ware fino a Jonathan Safran Foer, Nick Hornby, Colm Tóibin, A.M. Homes, Jonathan Lethem. Il mio racconto preferito? Quello della scrittrice haitiana Edwige Danticat.

Patricia MacLahlan, UNA PAROLA DOPO L’ALTRA, Rizzoli (traduzione di Stefania Di Mella)
Lo so che questo non è un blog, ma un semplice diario di lettura. Però leggere non è divisibile dal resto e quindi dovete subirvi la mia tristezza legata al libro della straordinaria autrice di BABY (andatevelo a leggere!). La tristezza non è colpa del libro, che mi è piaciuto e mi ha commosso molto, e che racconta degli incontri tra una scrittrice e una classe quarta elementare, ma nasce dal fatto che a febbraio smetterò di lavorare proprio con i bambini per dedicarmi invece solo, si fa per dire, agli adolescenti e agli adulti. Manterrò il mercoledì di letture alla biblioteca Baratta ma per il resto passo i miei giochi e i miei incontri con i piccoli lettori a Maria Sole della banda dei piccoli lettori. E’ una decisione sofferta, ma corretta perché i bambini si meritano tutta la competenza possibile che io, ora, non riesco a garantire loro. Però permettetemi di essere un po’ triste e di segnare questo simbolico addio con la lettura di UNA PAROLA DOPO L’ALTRA.

Ines de la Fressange e Sophie Gachet, LA PARIGINA. GUIDA ALLO CHIC, L’ippocampo (traduzione di Vera Verdiani)
Cosa c’entro io con Ines de la Fressange? Purtroppo niente. Cosa abbiamo in comune? Sempre niente, a parte forse la passione per i vestiti. Sulla moda ci sono molti libri, ma quasi sempre deludenti, se non imbarazzanti. Ero quindi molto scettica di fronte a questo elegante volume di suggerimenti per vestirsi come una parigina. A una come Ines sta bene anche un sacco! E invece già dall’inizio si intuisce il sano buon senso e la democratica intelligenza con cui la modella francese diverte le sue lettrici: “la Parigina non cade mai nella trappola delle tendenze: la sua ricetta segreta sta nel lasciarle maturare e nel servirsene con discernimento. Senza perdere il principale obbiettivo, cioè quello di divertirsi con la moda. Segue alcune regole, ma trasgredirle le piace e fa parte del suo stile”. Ines c’est moi!

Julie Otsuka, VENIVAMO TUTTE PER MARE, Bollati Boringhieri (traduzione di Silvia Pareschi)
DIFFIDENZA n. 1 - Ho resistito alla lettura di questo libro perché era troppo recensito. Se ne è parlato dappertutto e non capivo se era per l’originale storia delle migliaia di giovani donne giapponesi - le cosiddette "spose in fotografia" - che giunsero in America all'inizio del Novecento o perché davvero fosse un romanzo di valore. Beh, al di là dell’interessante ricostruzione storica della vicenda di queste ragazze, il romanzo di Julie Otsuka va letto per l’interessante impianto narrativo e la scelta di un noi narrante non facile da usare. Ci sono pagine molto liriche, altre drammatiche e spesso ti sembra di essere lì con loro a soffrire o (poche volte) a sorridere di piccole gioie impreviste. Paradossalmente il romanzo ti lascia con un po’ di fame, perché le parti di più ampio respiro narrativo sono splendide, ma molto poche e il procedere per elenchi sembra a volte quasi un alibi per non abbandonarsi al flusso narrativo. Insomma, poteva scrivere di più!

Edwidge Danticat, IL PROFUMO DELLA RUGIADA ALL’ALBA, Piemme (traduzione di Maria Clara Pasetti)
DIFFIDENZA n. 2 - Siccome non ne posso più di romanzi con titoli smelensi, allusivi a cibi, piante e fiori, avevo messo nella pila dei forse li leggerò, ma forse anche no, IL PROFUMO DELLA RUGIADA ALL’ALBA (!). Poi ho pensato a Daniela, che me l’aveva mandato, e a un’amica che mi caldeggiava l’autrice di origine haitiana. Meno male! Perché il romanzo della Danticat è uno dei migliori che ho letto ultimamente. Basta solo togliere la sovraccoperta e partire per un viaggio doloroso e vivo nel mondo degli esuli fuggiti da Haiti a causa della violenta dittatura di Duvelier. Tra di loro però non ci sono solo le vittime, ma anche un carnefice che, seppure pentito, si è reso responsabile di crimini orrendi.
E alla fine il romanzo è l’incontro di tante sofferenze, ma anche il ritratto vivido di un paese martoriato e bellissimo.

Giorgio Fontana, PER LEGGE SUPERIORE, Sellerio
“Ma la giustizia era come un erpice che dissodava la terra, lasciando qui e là inevitabili lacune: macchie d’erba matta, sassi troppo piccoli per essere asportati, luoghi dove il dubbio continuava a germinare”: Roberto Doni ha più di sessant'anni, fa il sostituto procuratore a Milano, è sobrio, formale, ineccepibile. Fino a quando non si trova davanti a un caso apparentemente già risolto nella sua assoluta banalità. Ma proprio per questo Doni entra in crisi.
Un bel romanzo sulla giustizia, su Milano, sull’incontro di mondi apparentemente inconciliabili, sulle piccole cose che possono incrinare un percorso di vita che sembra ormai granitico.
Un libro dallo stile pulito, raffinato, senza sbavature.

Cynthia Ozick, CORPI ESTRANEI, Bompiani (traduzione di Simona Vinci)
“Bea faceva parte di quella categoria d ridicole e ben riconoscibili insegnanti donne di mezza età che mettono da parte i risparmi per le vagheggiate vacanze estive nelle più romantiche capitali europee”. In realtà la protagonista del nuovo romanzo di Cynthia Ozick nasconde un matrimonio fallito, un fratello ricco e che la ignora da vent’anni e una sottile insoddisfazione che comincia a pungerla quando meno se lo aspetta. Così l’incontro con il nipote, che fugge da un padre opprimente e con il quale ravvisa una certa somiglianza di indole, sembra poterle regalare una nuova occasione di vita. Ma anche con le migliori intenzioni si può sbagliare, e quindi soffrire e creare sofferenza.
La conferma di una grande scrittrice.

Fabio Pierangeli e Lidia Sirianni (a cura di), CRONACHE DAL BIG-BANG. L’unica gioia al mondo è cominciare, Hacca
“... Alain Robbe-Grillet afferma che potremmo quasi scrivere tutta la storia della letteratura studiando soltanto gli incipit, perché la prima frase di un romanzo è una specie di contratto: un contratto di scrittura e lettura che pone lo statuto dell’autore in rapporto al mondo, e che permette al lettore di capire come leggere il libro”: noi lettori potremmo discutere degli anni interi sull’importanza o meno dell’inizio di un romanzo. Un mio amico, grande lettore, sostiene che gli incipit difficili servono al bravo scrittore per selezionare i proprio lettori. E’ un’idea che mi inquieta. Allora per cominciare il 2012 vi consiglio questo intelligente e stimolante saggio di Hacca, che vi regalerà dei bellissimi incipit, scelti e commentati da venti scrittori e soprattutto tante idee di lettura. Buon inizio!

Austin Wright, TONY & SUSAN, Adelphi (traduzione di Laura Noulian)
Non riesco a non essere attratta dai romanzi che giocano con la lettura: metaromanzi, protagonisti lettori o scrittori, storie incatenate che ti sfidano continuamente a non perdere le fila della storia. Quindi non potevo non gettarmi sulla riproposta di Adelphi di un classico molto celebrato e che non avevo mai letto. L’inizio non delude certo le aspettative e l’idea di raccontare un romanzo attraverso la lettura che ne fa l’ex moglie dell’autore è davvero notevole. Così Susan si trova incatenata alla storia di Tony, che si è visto rapire moglie e figlia durante un viaggio in autostrada, pensando costantemente all’uomo che ha sposato e poi lasciato, proprio a causa della sua ostinazione nel voler diventare scrittore. Austin Wright scrive una bella storia sulle sovrastrutture emotive che possono accompagnare la lettura, ma non riesce a mantenere ritmo e interesse sino alla fine. Però vale la pena leggerlo.

Raj Rao, AUTOBIOGRAFIA DI UN INDIANO IGNOTO, Metropoli d’Asia (traduttori vari)
I racconti dello scrittore indiano sono perfetti da portarsi in giro per riempire qualche noiosa attesa, ma hanno anche il vantaggio di poter essere letti tutti di seguito senza annoiare il lettore. Sono infatti estremamente versatili: quindici racconti polifonici, vivaci, imprevedibili che raccontano ansie, frustrazioni, manie dell’uomo contemporaneo, certo non solo indiano. Tra auto, macchine fotografiche, donne affascinanti e sfuggenti, uomini da invidiare, amare, sognare, uccidere, si muovono protagonisti che fanno insieme ridere e intenerire. Grazie a una scrittura varia, avvolgente, mai stonata. Anche solo il primo racconto, dove un venditore di auto, sosia di Salman Rushdie, decide di eliminare il famoso scrittore, vale la lettura del libro.

Jennifer Egan, IL TEMPO È UN BASTARDO, Minimum fax (trad. di Matteo Colombo)
Difficilmente penso all’autore quando leggo un libro: se lo evoco è per lo più per insultarlo. Una lettrice mi raccontava che una volta ha dovuto interrompere la lettura per alzarsi in piedi e applaudire lo scrittore. Mi è sembrata una scena buffa, io forse avrei applaudito il libro. Perché se quando leggo mi viene in mente l’autore, anche se molto bravo, è perché probabilmente si pavoneggia troppo delle sue doti narrative e questo mi irrita. Poi, come spesso succede, devo smentire me stessa e ammettere che sì, mi sarei alzata ad applaudire Jennifer Egan. Perché è riuscita a farmi stare in equilibrio su due piani apparentemente incompatibili: il pensiero costante della bravura dell’autrice e insieme tenermi comunque dentro alla storia. IL TEMPO È UN BASTARDO è un libro magistrale: polifonico come i classici sanno esserlo, un’epopea travestiva da telenovela, con i miti dei nostri tempi, musica, abiti, soldi, luoghi esclusivi, palazzi simboli del potere e però l’eterna lotta tra aspirazioni e realtà, tra talento e colpi di fortuna, dove ognuno trova il se stesso che è e quello che vorrebbe essere. Non vi racconto nulla della vicenda, non posso togliervi il piacere di scoprire i continui rimandi tra personaggi e storie, la ricchezza psicologia dei protagonisti, le azioni e le voci che vanno a comporre un romanzo unico come pochi che ho letto. Poi magari ci troviamo tutti insieme ad applaudire Jennifer Egan.

Ernest Van Der Kwast, MAMA TANDOORI, ISBN (trad. di Alessandra Liberati)
Era da tanto che non leggevo un libro così divertente e amaro insieme. L’autore, di madre indiana (e che madre!) e padre olandese, riesce a mettere insieme l’ossessione per il risparmio della madre con la disabilità del fratello maggiore; le ambizioni materne sui figli e la tacita sopportazione del padre; la moglie mussulmana del fratello e la storia della fuga della madre dall’India. Come già anticipa bene il titolo, è la mamma, con il suo carattere forte e fuori dal comune, il filo conduttore di tutte le vicende di questo spassoso e intelligente romanzo. Su un’unica cosa l’inarrestabile protagonista della storia aveva torto: se Ernest per accontentarla avesse deciso di non fare lo scrittore, sarebbe stato davvero un delitto imperdonabile.

Francesca Scotti, QUALCOSA DI SIMILE, Pequod
Quello che colpisce dei racconti di Francesca Scotti, già leggendo solo le prime pagine è la maturità stilistica, la pulizia precisa dello stile, la capacità di avvolgere il lettore in un'apparente quieta quotidianità, per poi via via aumentare il ritmo e dare la stoccata finale. Sottilmente annunciata, ma mai prevedibile e prevista. Incontriamo così una giovane donna ritornata da un periodo di cure, probabilmente psichiatriche, che vede spezzate le sue semplici aspirazioni per colpa di una torta, al centro di una scena ugualmente drammatica e umoristica; poi tocca all’incontro tra allieva e maestra di musica, in un commovente dialogo rotto dalla voce della bambina della giovane donna che tanto ha sofferto per l’abbandono subìto dalla sua insegnante; e ancora ragazze in vacanza da sole nella casa di una di loro, la non amica, quella meno amata. Scorrono i personaggi, scorrono i racconti con sempre un piccolo richiamo tra l’uno e l’altro come se l’autrice lanciasse un gioco che il lettore si diverte a seguire cercando gli indizi di parentela tra una storia e l’altra. Una lettura che conforta sul futuro della narrativa italiana.

Chris Cleave, PICCOLA APE, Bompiani (trad. di Alberto Cristofori)
“Questo è il momento. Anche per una ragazza come me giunge un giorno in cui può smettere di sopravvivere e incominciare a vivere”. Sempre sospeso tra il dramma e la commedia, in un alternarsi a volte frenetico dei due registri narrativi, il romanzo di Cleave impedisce al lettore già dalle prime righe di abbandonare la lettura. La storia è quella di Little Bee, un'adolescente nigeriana, che insieme ad altre tre immigrate esce dal centro di detenzione temporanea in cui ha vissuto per due anni. Non sapendo dove andare, senza documenti, telefona alle uniche persone che conosce in Gran Bretagna, Andrew e Sarah O'Rourke, che due anni prima in Africa le hanno salvato la vita. La vita di tutti subisce un contraccolpo, e Little Bee e Sarah si trovano al centro di uno scontro politico, economico e sociale molto più grande di loro. Chris Cleave è veramente bravo nel raccontare una storia estremamente realistica con un linguaggio vero, ironico, che strappa spesso il sorriso nonostante la drammaticità della vicenda.

Rose Tremain, LA CASA DELLA SETA, Tropea (trad. di M.B. Piccioli)
Dopo il bellissimo IN CERCA DI UNA VITA, attendevo con ansia il nuovo libro di Rose Tremain, che è riuscita a sorprendermi. Dal clima urbano del romanzo precedente ora infatti la scrittrice inglese ci immerge nella campagna silenziosa e isolata del sud della Francia. Qui si incrociano i destini degli abitanti di una vecchia casa colonica, il Mas Lunel, dove un tempo si allevavano bachi da seta, e quello dei fratelli Verey, intenzionati ad acquistare la casa. Sono due coppie di fratello e sorella accomunati da infanzie dolorose, anche se molto diverse. Aramon e Audrun condividono un segreto e una sofferenza che ha rovinato per sempre le loro esistenze, mentre gli inglesi Vittoria e Anthony, pur nel benessere economico, hanno dovuto fare i conti con una madre anaffettiva ed egoista. La vicenda di questo romanzo gotico rurale si gioca tutta intorno alla casa, dove non si smette mai di respirare il pesante fardello delle azioni dei genitori che ricadono sempre moltiplicate sui destini dei figli.

Nina Sankovitch, SE PER UN ANNO UNA LETTRICE. LA VITA. UN LIBRO ALLA VOLTA, BUR (trad. di Eleonora Cadelli)
“... avevo bisogno di leggere un libro al giorno. Avevo bisogno di sedermi, fermarmi e leggere. Avevo trascorso gli ultimi tre anni di corsa, riempiendo la mia vita e la vita dei membri della mia famiglia con attività, progetti e movimento, movimento costante e nonostante questo... non potevo scappare dalla sofferenza e dal dolore. Era giunto il momento di smettere di correre. Era giunto il momento di cominciare a leggere”: questo il progetto realizzato da Nina Sankovitch, che però non ci racconta pedissequamente il suo “un libro al giorno”, ma attraverso la lettura racconta la storia sua e della sua famiglia e il ruolo che hanno avuto i libri nelle loro vite. Anche se forse l’obiettivo che si è prefissata Nina può sembrare una forma di dipendenza come l’alcool e le droghe, in realtà il valore del libro sta nelle tante letture che hanno scandito la vita della protagonista, raccontate come solo un lettore sa fare.

Lydia Davis, CREATURE NEL GIARDINO, BUR (trad. di Adelaide Cioni)
“Conosciamo solo quattro persone noiose. Il resto dei nostri amici li troviamo molto interessanti. La maggior parte degli amici che troviamo interessanti però ci trovano noiosi: i più interessanti sono quelli che ci trovano più noiosi...”. Non chiedetemi che libro sia perché non l’ho capito. So solo che è riuscito a sorprendermi e spiazzarmi e anche per questo mi è piaciuto. Lydia Davis, vincitrice del National Book Award nel 2007, ci e si diverte a mettere insieme racconti, riflessioni, ironiche considerazioni in un libro difficilmente definibile che può anche sembrare un'unica grande storia sul mondo intero e soprattutto sui suoi abitanti.

Jon Kalman Stefansson, PARADISO E INFERNO, Iperborea (trad. di Silvia Cosimini)
“I mesi che passava lontano da casa erano interamente dedicati al lavoro, alla lotta per la sopravvivenza e per tenere lontana la miseria, ma il tempo libero era dedicato alla lettura. Eravamo incorreggibili. Pensavamo sempre ai libri, a imparare, eravamo tutti eccitati, completamente esaltati se sentivamo parlare di un nuovo libro interessante, immaginavamo come potesse essere, discutevamo del possibile argomento la sera, dopo che vi eravate addormentati”.
Unica controindicazione per questo poetico, intenso e originale romanzo è... il freddo. Se ne soffrite, procurate una calda coperta in cui avvolgervi per leggere di un paese ostaggio della natura più primitiva e impietosa. Anche se “chi abita in questa valle vede solo frammenti di cielo. Per orizzonte ha le montagne e i sogni”.

Varujan Vosganian, IL LIBRO DEI SUSSURRI, Keller (trad. di Anita Natascia Pernacchia)
Non posso dirlo con parole mie. Ho letto questo libro ormai da più di un mese, ma non riesco a scriverne niente perché mi sembra in qualche modo di profanarlo, di non rendere minimamente il suo valore. Quindi faccio così: vi rimando alla bellissima recensione dell’amica Marilia Piccone su stradanove e vi do l’inizio, così potete cominciare a leggere e non finire più. “Io sono, più di ogni altra cosa, quel che non sono riuscito a compiere. La più vera delle vite che indosso, come un fascio di serpenti annodato a un’estremità, è la vita non vissuta. Sono un uomo che su questa terra ha vissuto immensamente. E nella stessa misura non ha vissuto”.

Siddhartha Mukherjee, L’IMPERATORE DEL MALE. UNA BIOGRAFIA DEL CANCRO, Neri pozza (trad. di Roberto Serrai)
Non mi aveva assolutamente sfiorato l’idea di leggere il libro di Mukherjee. Non per sfiducia, ma semplicemente perché pensavo non mi interessasse minimamente un tomo di più di 800 pagine sul cancro. Non perché non sia stata toccata o sia insensibile al problema, ma perché pensavo che il libro non avesse nessun valore letterario o che comunque non potessi utilizzarlo per il mio lavoro con i lettori di narrativa. Quanto mi sbagliavo! Spinta dal fatto che il libro ha vinto il Pulitzer 2011, premio di cui mi fido abbastanza, ho deciso di assaggiarne almeno qualche pagina. Conclusione: in due giorni l’ho finito leggendolo in tutti i momenti liberi che avevo. L’imperatore del male è un opera letteraria e l’oncologo americano è un vero scrittore. “L’imperatore del male” è una grande saga sulla lotta alla malattia dove risaltano personaggi descritti con maestria e un senso del racconto e del ritmo notevoli. Non dico che vi dimenticherete del protagonista vero del libro, ma ricorderete soprattutto i pazienti, i medici, i biologi, i politici, gli scienziati coinvolti nella lotta alla terribile malattia, raccontati con partecipata leggerezza.

Josephine Angelini, STARCROSSED, Giunti (trad. di Marco Rossari)
L’impresa non era facile: mettere in scena la mitologia classica senza snaturarla; coinvolgere i lettori young adult senza fare mancare loro avventura, amore, mistero; creare una storia insieme mitologica e credibile; fare venire voglia magari di leggere o rileggere le tragedie greche, ma senza farle troppo rimpiangere. Un’impresa quasi titanica che Josephine Angelini, pur con qualche sbavatura, si porta a casa con leggerezza, con un romanzo con tanti livelli di lettura che conquisterà le lettrici di Twilight, ma anche lettori più scettici e alla ricerca di qualche novità. Perché la storia di Helen che sente sempre il fortissimo impulso di attaccare Lucas, un nuovo compagno di classe, ha origini molto profonde che via via si ha voglia di scoprire. E alla fine viene davvero voglia di capire chi sono le Erinni e le Parche e magari di scoprire che Eschilo può essere un buona fonte di letture per i giovani lettori.

Carol Shields, L’AMORE È UNA REPUBBLICA, Voland (trad. di Barbara Ronca)
“Fay ha notato che l’amore, nei romanzi rosa vecchio stile e nei film moderni, viene considerato una specie di suprema benedizione, accompagnata di solito da ottima salute, un lavoro soddisfacente, armadi pieni di vestiti e, soprattutto, una sostanziale assenza di altre persone… I dolori e gli espedienti degli innamorati dei film o dei libri appartengono solo a loro, un cerchio chiuso, una simmetria di corpi e desideri, un inverso circolare a accogliente retto da leggi proprie. Ma non c’è niente di vero in questo. Il mondo non si mette in un angolo. Invece preme sempre di più”. Si può ancora scrivere un romanzo d’amore intelligente, intrigante e pieno di colpi di scena verosimili e osservazioni condivisibili e mai banali sul matrimonio? Ci riesce la scrittrice canadese con i punti di vista di Fay, incostante sentimentalmente e dedita allo studio delle sirene, assolutamente allergica ai legami a lungo termine e Tom, al contrario, convinto assertore del matrimonio, tanto che a quarant’anni ne ha già collezionati tre. I due sono destinati ad incontrarsi ma non sarà come potreste facilmente immaginare...

Craig Silvey, JASPER JONES, Giano (trad. M. Rossari)
Tanto Charlie è affidabile, tranquillo, educato, il classico bravo ragazzo che rende orgogliosa la sua famiglia tanto Jasper Jones è considerato un tipo da non frequentare perché è un Ladro, un Bugiardo, un Delinquente, un Perdigiorno. È pigro e inaffidabile. È un selvaggio e un orfano, o almeno cosi pare. Cosa fanno allora insieme i due ragazzi? Il racconto di un’estate sconvolgente in un un romanzo intenso, ricco, paragonato alle opere di quel Mark Twain che Charlie ritiene un maestro di vita. Jasper Jones infatti è un romanzo di formazione autentico e avvincente che conquisterà i ragazzi e farà tornare all’adolescenza gli adulti.

Katherine Min, MONDO DI SECONDA MANO, 66thand2nd (trad. di Francesca Toticchi)
“Nasciamo in un mondo di seconda mano. Tutto ciò che per noi è nuovo lo è solo perché siamo appena nati. Ma è quello che non possiamo vedere, tutto quello che è avvenuto prima di noi – ciò che i nostri genitori hanno visto, sono diventati e hanno fatto – che ci avvolge come fasce smesse che qualcuno ci ha passato, anche se siamo ancora nudi”. Incomunicabilità, passaggio, notturno, intimità, tempi bui, accusa, indecisione: anche i titoli dei capitoli sono parole chiave del rapporto genitori-figli che permea tutto questo straordinario romanzo, con al centro la figura dell’adolescente Isa. Schiacciata tra le personalità potenti dei suoi genitori e un lutto che devasta l’intera famiglia, Isa affida all’amicizia, alla lettura e all’amore per Hero la disperata ricerca di una sua identità. Che non sia quella sognata dalla madre o quella degli insulti di “muso giallo” che riceve a scuola. Ma ci si può liberare delle proprie origini? “Mi venne in mente… che forse ero davvero due figlie diverse, o – per la precisione – mezza figlia per ognuno dei miei genitori… perché per i miei genitori era solo metà di qualcosa e non sarei mai potuta essere completa ai loro occhi”.

Juan Villoso, IL LIBRO SELVAGGIO, Salani
“... i libri sono come gli specchi: ciascuno ci vede quello che ha in testa. Il problema è che scopri quello che hai dentro soltanto quando leggi il libro giusto. I libri sono specchi indiscreti e temerari: ti fanno uscire le idee più originali, stimolano pensieri che non sapevi di avere. Quando non leggi, quelle idee restano chiuse nella tua testa. Non servono a niente”. I libri sono protagonisti di questo romanzo poetico e intrigante che vede il quattordicenne Juan, costretto a passare l’estate nella casa dello zio Tito, un bibliofilo buffo e originale. Nel labirinto della sua biblioteca Juan scoprirà di essere un lettore speciale, capace di arrivare al cuore dei libri. E quindi in grado di riuscire nell’impresa sempre sognata dallo zio: trovare il libro selvaggio. Ma Juan vivrà anche il primo amore e avrà modo di riflettere sulla complessa situazione della sua famiglia con una nuova e più matura consapevolezza.

Dorothy Stevenson, IL LIBRO DI MISS BUNCLE, Astoria
Miss Barbara Buncle conduce un’esistenza ordinaria nel villaggio di Rivargenton, tra le passeggiate mattutine, i tristi tè a casa della donna più in vista del paese e le faccende domestiche divise con la fedele e saggia Dorcas. Anche se ancora giovane passa praticamente inosservata per gli abiti goffi e spenti e l’abitudine di non intervenire mai nella discussioni. Siamo nei primi anni trenta del Novecento e la crisi economica non tarda a farsi sentire, così un giorno Miss Buncle si accorge che la rendita con ci vive si fa scarsa e che per andare avanti deve inventarsi qualcosa. Decide allora di provare a scrivere un libro. E ci riesce benissimo. Il romanzo, pubblicato con lo pseudonimo di John Smith, diventa un bestseller. Il problema è che la giovane donna ha raccontato fedelmente i suoi concittadini, con i loro vizi e virtù registrati con grande realismo. Nel villaggio si apre la caccia all’autore del libro e per Barbara la vita non è certo più così noiosa. Anzi!

Salvatore Scibona, LA FINE, 66thand2nd
Scrivere questa recensione è quasi imbarazzante. Ma non posso non segnalarvi un vero scrittore come Salvatore Scibona. Mi sento però davvero inadeguata a parlare del suo "La fine" perché, come potrete leggere sul sito del suo editore italiano, sono uscite delle recensioni magnifiche, davvero al pari del romanzo. In particolare leggete quella che gli ha dedicato Gabriele Romagnoli, è davvero perfetta. E c’è poco da aggiungere. La fine vi lascerà spiazzati perché è un libro difficile da dimenticare per l'intensità della storia e soprattuto per la scrittura densa ed elegante. Tanto che l'autore è stato inserito tra i venti migliori scrittori americani under 40. Salvatore Scibona irretisce il lettore con le vite dei suoi protagonisti, immigrati italiani nell’America degli anni Cinquanta legati da una serie di legami e situazioni, molte delle quali si svelano solo alla fine del romanzo. Sembra da subito di entrare in un romanzo classico, in un racconto epico di esistenze rese immortali dalla letteratura.

Dubravska Ugresic, BABA JAGA HA FATTO L’UOVO, Nottetempo
“Tutte le culture primitive sapevano come comportarsi con la vecchiaia. Le regole erano semplici: quando i vecchi non erano più di alcuna utilità, venivano lasciati morire oppure venivano aiutati a passare all’altro mondo… Mentre gli ipocriti di oggi, che inorridiscono di fronte alla barbarie delle usanze di una volta, terrorizzano i loro vecchi senza un briciolo di rimorso di coscienza. Non sono in grado di ucciderli, né di occuparsene, né di costruire per loro istituzioni adeguate, né di organizzare un servizio di assistenza adeguato. Li lasciano a morire di noia in stanze solitarie, nelle case di riposo…”: ecco una riflessione di Pupa, una delle protagoniste di questo originale romanzo dedicato proprio alla vecchiaia. Di vecchi infatti è piena la narrazione che ora procede come una fiaba della tradizione orale con degli stacchi rubati ai cantastorie; ora è un viaggio nel passato per resuscitare la memoria della madre, ora un saggio ironico e spassoso sulla Baba Jaga.

Manuele Fior, CINQUEMILA CHILOMETRI AL SECONDO, Coconino Press-Fandango
Quello che colpisce subito sono i colori, che segnano anche lo scorrere temporale della storia. Grafic novel eletta miglior libro dell’anno ad Angouleme 2011, il più prestigioso premio dedicato al genere, Cinquemila chilometri al secondo è il ritratto di una generazione che potrebbe appartenere ad ognuno di noi. Anche se Lucia, Piero e Nicola sono chiaramente ragazzi del nostro tempo, in cerca di lavoro, identità, certezze e libertà, la loro storia in realtà, per i sentimenti più profondi, appartiene alla magia e alla maledizione della giovinezza in generale. Ma al dià della vicenza emblematica, poetica e dura insieme, sono le immagini di Fiori che riescono a raccontare pensieri e sentimenti dei suoi protagonisti.

Posy Simmonds, TAMARA DREWE, Nottetempo
Dovendo trovare le parole chiave per questa graphic novel in qualche modo un po’ anomala perché ci sono pagine di diario immagini, dialoghi, articoli di giornale, non si avrebbe che l’imbarazzo della scelta. Degli scrittori e del loro narcisismo, del matrimonio e della fedeltà, di bellezza e seduzione, di noia e stupidità adolescenziale, di mucche e cani, di cucina rustica e abiti sformati, e di tanto altro racconta Posy Simmonds grazie a personaggi ben costruiti, ritratti durante un anno trascorso a Stonefield, una fattoria adattata a ritiro per scrittori. “Il mondo di Posy è un mosaico di campi, staccionate e mucche, di arguzia e complessità, di umorismo e tragedie, di personaggi che sono insieme ridicoli e adorabili." Così il regista inglese Stephen Frears che ha tratto dalla graphic novel una black comedy e che racconta davvero bene il clima ironico e intrigante del libro. Davvero da non perdere.

M. C. Beaton, AGATHA RAISIN E LA QUICHE LETALE, Astoria
“Agatha aveva cinquantatré anni, capelli di un castano scialbo, un viso quadrato e insignificante, corporatura tozza. Nelle pubbliche relazioni è utile avere un certo fascino, e Agatha ne era del tutto sprovvista. I risultati li otteneva applicando in modo alternato la tecnica poliziotto buono-poliziotto cattivo; ora faceva la prepotente ora la ruffiana per conto dei suoi clienti”: Agatha Raisin, chiude la società di PR, che le ha permesso di guadagnare un bel po' di soldi, lascia Londra e si trasferisce nei Cotswolds. Ma una come lei potrà trasformarsi in una gentildonna di campagna? Sembra molto difficile. Se poi, appena arrivata, viene subito guardata con sospetto perché coinvolta in un avvelenamento culinario, per Agatha cominciano davvero giorni molto diversi da quelli che si era immaginata e si fa strada la nostalgia per la metropoli. Fino a quando non decide di indagare lei stessa sul presunto omicidio. Cominciate ad abituarvi a questa investigatrice, nel primo di una lunga serie di gialli, ironici e leggeri, intelligenti e sarcastici.

Ricardo Menedez Salmon, IL CORRETTORE, Marcos y marcos
“Anch’io avevo perso prematuramente le speranze. Anch’io mi ero arreso all’apatia della fine dei tempi. Anch’io avevo pensato che la filosofia non contava più. Che l’arte non contava più. Che la bellezza non contava più. Che tutte le discipline erano morte. Che restava soltanto quello che dettavano le grandi multinazionali, una manciata di notizie concertate ogni giorno tra governi e organizzazioni occulte, invisibili agli occhi dell’uomo comune, che muovevano i fili e dirigevano il mondo, le cose che importavano davvero la Borsa, i pozzi di petrolio, la corsa allo spazio. Il resto era secondario: sarebbero potuti scomparire interi pezzi di realtà e non sarebbe successo niente. .. La letteratura. A chi mai poteva interessare. Chi aveva bisogno di libri per vivere?” La mattina dell'11 marzo 2004 Vladimir corregge le bozze dei Demoni di Dostoevskij quando arriva la notizia dell’attentato ferroviario nella stazione di Atocha, centinaia di morti, migliaia di feriti. Ma che senso ha la letteratura di fronte a una tale tragedia? Un romanzo che è una profonda riflessione sul senso della vita ma anche una grande storia d’amore coniugale e il racconto di una intensa passione per la lettura: “La nostra vita, tutta intera, dall’alba fino all’ora del lupo, è una grande menzogna, un’ombra, una farsa… Per abitare questa menzogna, per riconciliarci con quell’ombra e quella farsa, per conciliare tutto quel che sappiamo con tutto quello che possiamo sopportare di sapere, è per questo che esistono cose come la letteratura”. Come dargli torto?

Martin Suter, COM’È PICCOLO IL MONDO!, Sellerio
Parafrasando il titolo, il romanzo sembra voler dire che ogni segreto, anche sepolto ormai da decenni, può sempre venire a galla.
E’ quello che teme Elvira Senn, ricca ereditiera dei potenti Koch, famiglia di magnati svizzeri dell'industria e della finanza, che tenta in tutti i modi di neutralizzare il povero Konrad Lang, detto Ko-ni, cresciuto come parente povero insieme a Thomas (Tomi) Koch. "Il figlio di una nostra ex domestica che mia madre aiuta” vive infatti all’ombra del icco erede, schiavo dei suoi capricci e privato di una sua esistenza autonoma. Finché l’Alzheimer non risveglia antichi ricordi...

Laila Wadia, COME DIVENTARE ITALIANI IN 24 ORE. IL DIARIO DI UN’ASPIRANTE ITALIANA, Barbera
“Il quotidiano di provincia si legge per il suo valore ludico” sentenziò il mio professore d’italiano all’Università... Ora so che i giornali locali si leggono principalmente per sapere chi è morto e per il sudoku”: Laila Wadia mette a frutto la sua decennale esperienza di “migrante” per misurare il Ql (Quoziente d'Italianità) ideale per essere perfettamente integrati nel Bel Paese. La lettura spassosa e ironica è anche frutto di un notevole talento narrativo e di una capacità di osservazione e comprensione dei comportamenti tipici degli italiani: “Gli italiani sognano forse più degli altri – ed è probabilmente questo l’ elisir del paese. I poveri sognano di vincere la lotteria, i ragazzi sognano un lavoro fisso, i vecchi sognano di arrivare fino alla fine del mese con la pensione sociale, i ricchi sognano la residenza a Montecarlo, ma tutti gli abitanti del Belpaese sognano di vincere nuovamente il mondiale e di tornare alla cara vecchia lira ed ad un mondo dove tutto costava la metà, persino questo libro”.

Sharma Bulbul, GARAM MASALA, O Barra O
“Le donne sapevano che c’era una storia in arrivo e si sedettero ad ascoltare. Si erano messe più comode, ma con le mani continuavano a fare a pezzetti e a pulire le verdure. Era la prima storia del mattino e tutte speravano che non fosse una storia triste. Quelle tristi sarebbero venute poi, e poi altre ancora, dolci o amare, storie di rabbia, perché ognuna ne avrebbe raccontata una. Cinque storie tagliando la verdura, una mondando il riso e magari due mescolando il kheer… Nessuno poteva dire quante storie avrebbe regalato quel giorno”. Le storie e il cibo, quale migliore connubio? E leggendo i raffinati racconti della scrittrice indiana viene sempre più fame di storie, di conoscere le vite delle donne che si trovano, con una ritualità precisa e religiosa, a preparare i cibi per una celebrazione funebre.

Gabriella Giandelli, INTERIORAE, Coconino press
“Le case sono organismi, vanno tenute in vita. Con l’energia dei sogni di chi ci abita. Ogni palazzo ha nelle sue viscere il Grande Buio. Io conosco tutti i segreti, le cose più intime. Chi legge nei sogni sa le ragioni di chi vive”. Un condominio come tanti, abitato da varia umanità: Angela vicina alla morte, ma la più ricca di sogni; due tenere adolescenti, un ragazzo forse perduto, una donna triste e insoddisfatta e Tino, un bambino speciale, l’unico che può vedere e sentire il coniglio, emissario alla ricerca dei sogni che alimentano il Grande Buio. Un graphic novel sontuoso, dove le immagini si fondono perfettamente a una storia immaginifica e toccante.

Viola Di Grado, SETTANTA ACRILICO TRENTA LANA, e/o
Che poi alla fine piaccia o meno non si può però assolutamente rimanere indifferenti di fronte a questo romanzo d’esordio, caratterizzato da una scrittura potente e mai banale.
Camelia vive con la madre a Leeds, una città in cui "l'inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c'era prima". Traduce manuali di istruzioni per lavatrici, mentre la madre fotografa ossessivamente buchi di ogni tipo. Entrambe segnate da un trauma, comunicano con un alfabeto fatto di sguardi. Ma quello che colpisce in questa storia è la capacità di immergere il lettore in un luogo e in un clima claustrofobico e opprimente con delle immagini e metafore indimenticabili.

Gordon Reece, TOPI, Giunti
“No, l’arte, la musica e la poesia non rispecchiavano assolutamente la realtà. Erano solo un rifugio per codardi, un’illusione per chi era troppo debole per affrontare la verità. Nel tentativo di assorbire questa “cultura” non avevo fatto altro che diventare debole, debole e impotente, incapace di difendermi contro le bestie umane che popolavano questa giungla del ventunesimo secolo”: una ragazzina vittima di un gruppo di scaltre bulle, degna erede di una madre sconfitta di fronte all’offensivo divorzio impostole dal marito e sempre sfruttata da colleghi e datori di lavoro. Shelley 16 anni e sua madre, dolci e intelligenti, in fondo sono nate topi e i topi hanno bisogno di un nascondiglio per sottrarsi agli artigli dei gatti. Gordon Reece riesce a raccontare una storia di umiliazioni e soprusi quotidiani senza eccessivo sentimentalismo e un perfetto equilibrio tra i caratteri e i comportamenti dei vari protagonisti.

Jens Grondal, QUATTRO GIORNI DI MARZO, Marsilio
Ingrid Dreyer è una donna di quarantotto anni, subissata di impegni, separata dal marito e madre ormai single di Jonas, quindici anni. Una telefonata improvvisa che la raggiunge nella camera d'albergo di Stoccolma, dove si trova per un viaggio di lavoro, la getta in una crisi d'identità: suo figlio si è reso colpevole dell'aggressione di un ragazzo di origine araba ed è stato arrestato. Mentre torna a casa, a Copenaghen, Ingrid si abbandona al fatale esame di coscienza: perché le cose sono andate così? Perché sente di essere sempre più con le spalle al muro, come donna e come madre, e ritiene che la sua vita sia un fallimento? Seguire le sincere pulsioni del cuore alla fine quindi non ha pagato. Sarebbe stato meglio seguire le ragioni sociali e mantenere insieme marito e amante? Attraverso i quattro giorni successivi alla telefonata Ingrid indaga la sua vita anche attraverso quelle della madre e della nonna per trovare una sorta di filo affettivo ed esistenziale che possa darle qualche risposta. Una vicenda familiare e generazionale raccontata con il passo della grande letteratura.

John Irving, ULTIMA NOTTE A TWISTED RIVER, Rizzoli
Succede solo con i romanzi migliori di estraniarsi completamente dalla proprio realtà e vivere come una sorta di esistenza parallela dentro la storia. Succede con il nuovo romanzo di John Irving che ci trasporta nelle segherie dello Iowa, nell’America delle foreste sterminate e dei pionieri, e poi nelle università americane grazie a due personaggi di origine italiana, o meglio siciliana, a cui è impossibile rimanere indifferenti. La storia della fuga di Dominic Baciagalupo e di suo figlio Danny, proprio a causa dell’ultima notte del titolo, ha il sapore epico dei grandi romanzi, che non ti lasciano tregua e ti chiamano continuamente alla lettura. E sono tantissimi gli elementi che rendono il romanzo irresistibile, dall’ambientazione naturale e implacabile; ai protagonisti così maschili e complessi, dal gioco letterario di farci incontrare altri scrittori come Vonnegut e Cheever alla capacità di sorprendere sempre il lettore. Insomma tanti motivi per leggerlo e nessuno per non farlo.

Gilberto Severini, A COSA SERVONO GLI AMORI INFELICI, Playground
“Si sa tutto sugli innamorati infelici, niente o pochissimo sui destinatari di amori impossibili da ricambiare. Sugli amati infelici. Anche questa può essere una condizione di grande avvilimento”. Autore molto stimato, al quale è riconosciuto un indubbio talento letterario, Gilberto Severini sublima le caratteristiche della sua scrittura in questo romanzo pacato e intenso, affilato e suadente. Alla vigilia del nuovo millennio, un cinquantenne si trova in un reparto di rianimazione cardiaca in attesa di un delicato intervento. Nella lunga attesa decide di non ricevere visite e passa il tempo, oltre che ad osservare quello che gli accade intorno, a scrivere tre lettere a tre figure fondamentali per la sua vita. Con uno sguardo lucido su se stesso e la società in cui viviamo. Bellissimo.

Yirmi Pinkus, IL FOLLE CABARET DEL PROFESSOR FABRIKANT, Cargo
Questo è uno di quei romanzi che ti riconciliano con la lettura. E che ti viene voglia di consigliare a tutti anche mentre lo stai ancora leggendo. Intanto fidatevi del tono propiziatorio del titolo che già anticipa come questo fulminante d'esordio sia un incredibile cabaret di fantasia, invenzione, sentimenti, humour e ricostruzione storica. Pieno di dialoghi piccanti, gag e battute, umorismo ebraico e ironia yiddish, vivace e coinvolgente, mette in scena tutta la vasta gamma dei sentimenti umani, deliziando e viziando qualsiasi lettore. Il protagonista poi, metà artista, metà filantropo rientra tra le figure indimenticabili della grande letteratura. Markus Fabrikant, infatti, delude la sua benestante famiglia decidendo di fondare una compagnia di teatro itinerante in lingua yiddish e di arruolare come artiste bambine ebree di talento salvate dagli orfanotrofi rumeni. Cominciamo così via via a conoscere Ester, Perla, Mimi, Gina piccola e Gina grande, personaggi straordinari ritratti con uno stile lieve e immediato, apparentemente semplice, ma in realtà raffinato e musicale come le rappresentazioni proposte dal cabaret. Un romanzo vero e toccante, giocoso e inteso, un piccolo capolavoro polifonico, da leggere assolutamente.

Angelo Orlando Meloni, IO NON CI VOLEVO VENIRE QUI, Del Vecchio
Un libro comprato a Pisa Book, che si è rivelato un’ottima lettura per il viaggio di ritorno. Il sottotitolo recita: “Breve manuale di autodistruzione per il conseguimento della felicità” e, grazie all’ironia e all’acutezza della narrazione, potrebbe davvero funzionare. In realtà il romanzo del talentuoso scrittore siciliano è una parodia tenera e mai banale del mondo cosiddetto “culturale” italiano, nella sua accezione apparentemente più provinciale, ma per questo forse più vera e sofferta. Non si fa infatti mancare nulla il protagonista che si cimenta con la musica, il teatro e la scrittura. A questo riguardo, come ci avverte l’aspitante scrittore e sceneggiatore: “Un importante istituto di ricerca ha dimostrato che due individui su tre a un certo punto della loro vita scrivono una storia. La medesima indagine ha riscontrato che la storia è più o meno sempre la stessa”. Se volete sapere quale, leggete questo ironico romanzo, che riesce a raccontare senza ridondanti pietismi o eccessivi voli pindarici una generazione priva di punti di riferimento, capace però di distinguere ciò che vale o non vale, ma obbligata a fingere e ad adeguarsi al sistema dominante. Come quella delle raccomandazioni o delle scuole di scrittura, qui parodiate ma non troppo.

David Small, STITCHES, Rizzoli Lizard
Ci sono delle coincidenze nella vita a cui bisogna arrendersi e non lasciarsi sfuggire. Una riguarda me, questo sito e l’immagine che trovate in homepage e anche in giro per le pagine. E’ tratta da un libro per bambini che si intitola La biblioteca, scritto da Sarah Stewart e illustrato da David Small. L’ha pubblicato in Italia Mondadori qualche anno fa e ho subito pensato che la lettrice con il carrettino pieno di libri in copertina ero proprio io. Così quando è nata l’idea del sito lettoreambulante, nonostante le offerte molto gentili e generose di amiche e amici illustratori per regalarmi un’immagine, ho pensato di tentare di chiedere a David Small il permesso di usare proprio quella. Sapevo che è un illustratore di fama mondiale, ma ho pensato che tentare non mi costava nulla. Nel giro di poche ore mi ha risposto e quello che mi ha scritto sarebbe da archiviare nel settore “più sono grandi, più lo sono in tutto”. Non farete fatica a scoprire la risposta, se siete entrati nel sito. Naturalmente non ringrazierò mai abbastanza David Small per la disponibilità e il tono amichevole ed entusiasta. Ma non è finita qui. Dopo qualche settimana dal nostro scambio di mail, leggo, credo sul Venerdì di Repubblica, dell’uscita del suo graphic novel Stitches, che mi sono subito procurata e che ho trovato incredibile. Adesso penso possiate perdonare l’ampia prefazione alla recensione, ma non potevo proprio non raccontarvi questa storia. Con il graphic novel "Stitches" David Small, oltre a convincere critica e lettori concorre al prestigioso Eisner Award 2010 con due nomination per Best Reality-Based Work e Best Writer/Artist-Nonfiction. Autore di The Journey e illustratore di decine di libri per bambini, in Stiches lo scrittore americano riesce a raccontare la sua drammatica infanzia, segnata dalla mancanza di amore da parte in particolare della madre, senza pietismi o eccessiva durezza, ma con una veridicità dolorosa e immediata. Grazie anche a un caleidoscopio di immagini folgoranti che viaggiano tra l'incubo e la fiaba, tra l'assurdità del reale e la salvezza della fantasia. Alla fine della lettura la sensazione è quella di avere letto un lungo e intenso romanzo le cui immagini non abbandoneranno mente e cuore del lettore.

Gabriele Romagnoli, UN TUFFO NELLA LUCE, Mondadori
“Ciò che resta implicito fonda le relazioni che durano, o le salva”. La frase pescata nel nuovo romanzo di Gabriele Romagnoli è perfetta anche per definire il rapporto che si crea tra le pagine e il lettore in Un tuffo nella luce, dove siete chiamati a riscrivere davvero il libro che state leggendo. Romagnoli infatti riesce a tenere un equilibrio perfetto (non a caso trovate in epigrafe una frase del funambolo Philippe Petit) tra azioni e pensieri dei personaggi, lasciando al lettore i suoi meritati canali di interpretazione. E sono molte le finestre emotive e interpretative che apre questo romanzo sofferto ed intenso, che merita quindi più di una lettura. Dal tentativo del protagonista di evitare ogni dolore, chiudendosi in un attico inaccessibile e fuggendo ogni contatto umano; alle casualità a cui non si può sfuggire, che regalano al racconto sempre nuovi cambi di punti di vista. Da una New York “puntaspilli in cui sono conficcati palazzi, uno spreco di luci, colori, gesti” all’attentato alle due torri che ricorda come “anche nelle persone buone ci soni istinti e desideri terribili. Anche le persone buone possono fare cose terribili”. E’ un romanzo che procede per azioni e così rappresenta al meglio i personaggi, rendendoli tutti, dal protagonista Benny a Kim, da Nabil a El Nino plausibili e vivi. E’ anche un romanzo di cose (il biglietto della lotteria, la chiave d’oro, Il telescopio, le vetrate tappezzate di scritte) che parlano dei sentimenti delle persone e vogliono quasi diventare un grido di rivolta perché l’assenza di futuro non diventi un alibi per adeguarsi a qualsiasi presente. Così Romagnoli fonda più di una relazione duratura con il lettore.

Rebecca West, LA FAMIGLIA AUBREY, Mattioli 1885
Primo di una trilogia che ripercorre le travagliate vicissitudini di una famiglia di artisti, il romanzo di Rebecca West riporta al clima e alla raffinata letteratura dell’Ottocento.
Le vicende familiari degli Audrey, segnate dalla genialità e dalla sconsideratezza del capo famiglia giornalista e dal talento musicale e finanziario della madre, scorrono con sullo sfondo le tensioni sociali e le inquietudini di un'Europa alle soglie del Novecento.
La penna di Rebecca West sa seguire in particolare le sorelle Audrey nel loro percorso di crescita e di confronto con la dura realtà della società in cui vivono.

Sergio Ferrero, OPERAZIONE CANARINO, Salani
Un dattiloscritto inedito di Sergio Ferrero, ritrovato in un baule tra le sue carte viene ora pubblicato in una veste adatta a giovani e meno giovani lettori.
La storia dal sapore antico, ma dai sentimenti modernissimi vede protagonisti due ragazzini curiosi e la scomparsa di un amato canarino.
Sullo sfondo la Milano degli anni Settanta, la passione per l’opera e l’artigianato.
Il racconto è l’omaggio a un grande e raffinato letterato, ma anche l’occasione per cominciare a conoscerlo e riscoprirlo.

Chiara Valerio, SPIAGGIA LIBERA TUTTI, Laterza
Sarà perché conoscendola di persona da una parte ce la trovi tutta e dall’altra sei sicura che anche chi non la conosce non potrà non amarla, letterariamente s’intende. Sarà perché Scauri potrebbe essere Mantova o qualunque luogo di provincia dove il bello che c’è è scontato e il brutto sempre sottolineato. Sarà soprattutto perché è un bel libro che riesce a trasformare incontri e sensazioni personali in letteratura e trasmetterli così al lettore, ma questo libro di Chiara Valerio è da leggere, diffondere, regalare. E’ difficile, anzi quasi impossibile da raccontare. Per cui il piacere lo lascio tutto a voi. Ci troverete naturalmente Scauri, la vita di provincia, tanti libri e scrittori, a partire da Fabrizia Ramondino che proprio lì in spiaggia, è morta, ma anche tanti giovani alla ricerca del loro futuro, motorini scassati, personaggi famosi, antiche ricette, gelati, matrimoni, poesie e tante illusioni perché “Scauri è un po’ come Macondo ma ha lo stesso microclima delle isole Cayman (9156 km), solo che ci sono meno banche, il Mediterraneo non è il Mar delle Antille e Cristoforo Colombo non aveva nessun interesse a scoprirci”.

Penelope Lively, UN POSTO PERFETTO, Guanda
Confesso la mia debolezza e riconosco l’assurdità dell’affermazione, ma questo libro andrebbe segnalato anche solo per la magnifica copertina. Poi però la lettura conforta l’impressione visiva con questa bella villa edoardiana che è la vera protagonista del romanzo di Penelope Lively. Una casa che riecheggia ancora delle voci dei sei figli di Allison, madre per vocazione, sempre perfetta nel suo ruolo di allevatrice di bambini. Che, uno per volta, raccontano la loro infanzia, i rapporti tra fratelli, la strana figura paterna, con il filo conduttore latente di un segreto che segna questa famiglia apparentemente perfetta. Un romanzo corale con dei personaggi ben delineati, ma soprattutto un affresco vero e impietoso sulla famiglia e sul sentimento di onnipotenza che può regalare l’essere madre.

Elisa Ruotolo, HO RUBATO LA PIOGGIA, Nottetempo
Tre racconti lunghi che non abbandoneranno facilmente la mente del lettore grazie a una scrittura matura e raffinata che invita alla rilettura e alle storie quotidiane raccontate nella loro straordinarietà. Come la vicenda che vede protagonista un ragazzino di provincia che dopo aver disputato una strepitosa partita di calcio comincia ad essere soprannominato "Molto Leggenda", fino ad essere selezionato per un club di serie A. Ma la vita della città e i campi della massima serie sono troppo diversi dai sabbiosi campetti del paese di provincia e la giovane promessa non potrà far fruttare il suo talento.

Francesco Cataluccio, VADO A VEDERE SE DI LÀ È MEGLIO, Sellerio
Suscita una vasta e diversificata gamma di sentimenti la lettura del nuovo libro di Francesco Cataluccio che ci conduce in un viaggio insieme storico, geografico, letterario e sentimentale nella cultura ebraica dell’Europa centro-orientale, seguendo i suoi protagonisti anche in Argentina e in Africa. Ma le tappe del viaggio vanno anche a formare un intenso mosaico di vita che sottolinea la personalità di uno studioso poliedrico, curioso, ricco di passione per il passato, ma anche di un acuto e mai banale sguardo sul presente. Un libro per tutti, da leggere anche insieme ad alta voce e da adottare come lettura nelle scuole.

Giacomo Battiato, 39 COLPI DI PUGNALE, Gaffi
Un giallo storico, cupo e coinvolgente che non si riesce a smettere di leggere. La vicenda ci immerge nella Sicilia del 1836, dove in uno splendido baglio sulle alture che dominano i vigneti e le saline di Marsala, una donna viene uccisa nella notte con 39 colpi di pugnale. La vittima è Emma, moglie di Robert Ashby, uno degli uomini più ricchi dell'isola. Ad indagare è chiamato un giovanissimo magistrato, Francesco Sutera, tormentato dalla recentissima separazione dalla moglie e in procinto di partire e lasciare la Sicilia. Le indagini sveleranno sullo sfondo delle drammatiche vicende storiche, una sconvolgente verità.

Richard Russo, LA MAGIA DELL’ULTIMA ESTATE, Frassinelli
Con Il declino dell’impero Whiting era stato insignito del Pulitzer e annoverato tra i grandi narratori americani. Con La magia dell’ultima estate, Richard Russo non delude le aspettative e torna a raccontarci la famiglia come specchio della società americana e non solo. Dalle grandi casate detentrici del potere economico passa alle aule universitarie con la storia di Griffin, figlio di due frustati professori di letteratura, snob e perennemente in guerra con il mondo accademico e non solo. Griffin, impietosamente, non risparmia loro nulla nel raccontarli, ma alla fine è poi così diverso dai suoi genitori?

Anne-Laure Bondoux, FIGLIO DELLA FORTUNA, San Paolo
Conferma il suo indubbio talento narrativo ma anche la capacità di misurarsi con storie e personaggi molto diversi, Anne-Laure Bondoux, con il suo ultimo romanzo, un viaggio alla ricerca delle radici e della felicità. Nel Caucaso stremato dalla povertà e dalle guerre, Kumail vive in un vecchio edificio con Galya, che lo ha salvato da morte certa quando era ancora in fasce. Il ragazzino infatti è francese e si chiama in realtà Blaise Fortune. La storia del suo salvataggio da un treno deragliato e in fiamme è la sua coperta di Linus prima di addormentarsi, ma anche la speranza di una vita migliore, in un paese ricco ed accogliente.

Troy Balcklaws, BAFANA BAFANA. UNA STORIA DI CALCIO, DI MAGIA E DI MANDELA, Donzelli
Si chiama Pelé e vive in un povero villaggio in Sudafrica, il paese che ospiterà gli attesissimi Mondiali di calcio. Ce la farà il talentuoso e sognatore ragazzino ad essere in campo la notte dei mondiali, al fianco dei suoi beniamini? Forse con un intervento superiore che risponde al nome di Nelson Mandela si realizzerà il sogno di un piccolo calciatore.
Un racconto di calcio e vita, vivace, commuovente e sentito che ci porta insieme con il ragazzino, attraverso le migliaia di chilometri che dovrà compiere senza soldi per assistere alla finale, inquadrato dalle telecamere di tutto il mondo.

Doshi Tishani, IL PIACERE NON PUÒ ASPETTARE, Feltrinelli
“Da assaporare lentamente” dovrebbero scrivere sul frontespizio di questo romanzo davvero incantevole, con una scrittura e un ritmo che diventano musica davanti agli occhi del lettore. Ha un indubbio talento la giovane scrittrice indiana e soprattutto dimostra una maturità stilistica straordinaria al servizio di una storia intrigante e originale. Babo è il primo membro della famiglia Patel a lasciare Madras e volare a Londra per studiare. Lì si innamora di una ragazza gallese dalla pelle color latte, Sian Jones. La loro storia d'amore sconvolge le rispettive famiglie d’origine con conseguenze ora drammatiche, ora esilaranti.

Helen Humphreys, COVENTRY, Playground
Non delude mai la raffinata scrittrice e poetessa canadese che con Coventry ci riporta al clima di guerra già respirato in “Il giardino perduto”. In questo nuovo romanzo però i protagonisti sono coinvolti direttamente e drammaticamente nei bombardamenti tedeschi della città inglese, completamente rasa al suolo nel novembre del 1040. Qui si incrociano i destini di due donne: Harriet Marsh, una donna sola e disincantata, vedova di guerra e Maeve Fisher, donna anticonformista con uno spiccato talento artistico. Le due condivideranno un destino di dolore, ma anche di consapevole solidarietà che invade tutta la sfortunata cittadina inglese insieme alle devastanti bombe.

Jacques Bonnet, I FANTASMI DELLE BIBLIOTECHE, Sellerio
“La lettura era come i quattro fiumi dell’Eden, che nascendo da un’unica sorgente scorrono verso i quattro punti dell’orizzonte: aboliva le distanze e mi trasportava istantaneamente in contrade remote dagli strani costumi... e la biblioteca è la cosa che più si avvicina al paradiso terrestre”: è un organismo vivo questa biblioteca piena di fantasmi di Jacques Bonnet, collezionista di volumi, editore e traduttore.
Parla dei libri come di vecchi amici, illustra gli infiniti metodi per classificarli, i rischi della passione per la lettura e ci rassicura che non è necessario aver letto tutti i libri che si posseggono.

Helena Janeczek, LE RONDINI DI MONTECASSINO, Guanda
Un romanzo di vita e guerra insieme. Un mosaico di storie da tutto il mondo, racchiuse nello spazio ristretto dell’abbazia di Montecassino. Una parabola temporale che dal 1944 arriva ai giorni nostri e in una fluida staffetta di racconti e personaggi narra buona parte della storia del secondo Novecento. Helena Janeczek è davvero brava nel restituire alla letteratura le vicende di alcuni soldati che hanno combattuto per sfondare la Linea Gustav. Tra le truppe alleate non ci furono infatti solo americani e inglesi, ma anche truppe di altri continenti : marocchini, indiani, nepalesi e persino un battaglione di maori della Nuova Zelanda.


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